Sola andata

Sola andata

mercoledì 31 ottobre 2018

Un po’ di battute e qualche battito (forse)

- Hey, che succede? Come mai così tanti giorni senza i fondamentali aggiornamenti sulla tua vita?
- Guarda, lascia perdere...
- Dai, non te la prendere. Mica è colpa tua se il Paese è nelle mani di totali incapaci e razzisti. Non puoi farci proprio niente, sopporta il tuo tempo con maturità e pazienza. Piuttosto, cosa fai tu in prima persona, con la tua condotta quotidiana, per cambiare le cose?
- E cosa vuoi che faccia? Sai bene che non sono una che si mette a battagliare per dire ad un altro come stare al mondo. Quello che mi limito a fare è, per esempio, non andare più a comprare cose da chi non emette scontrino, non mangiare più la focaccia in un franchising famosissimo perché il proprietario non paga i dipendenti quanto pattuito, non prendere il caffè nei bar dove ci sono le macchine per il gioco d’azzardo...cose così...ma capisci bene che non sposto proprio niente e il risultato è che spesso resto senza caffè e senza focacce buone...
- Oh, povera! Che strano modo di ribellarti in effetti. E per il resto? Cosa non ti è successo per cui hai trovato inutile farcelo sapere?
- Ma che domanda è? Guarda che la mia vita mi piace moltissimo quando sono soltanto io a metterci mano e a monitorare i risultati! Sto lavorando molto perché accumulo anche le ore per guadagnare un giorno di ferie in più, come oggi. Sto seguendo più corsi contemporaneamente e mi sono data un tempo per concentrarmi su cose che mi stanno a cuore. Sono stati giorni di non notizie, di rielaborazione del già visto...ci sono stati d’animo e sensazioni non traducibili in parole. Vanno afferrati, intuiti, percepiti e la loro narrazione si risolve in una specie di tacita definizione interiore
- Mah...vabbè...e invece oggi? Perché non sei andata al lavoro? Stavi ancora ascoltando la tua voce interiore che se ne sta zitta?
- E non prendermi sempre in giro! Avevo un po’ di cose da fare. Ho preso delle scatole da riponimento. È incredibile quanto spazio si recuperi anche semplicemente posizionando le cose in uno spazio ben circoscritto. A volte penso di avere troppe cose e invece sono semplicemente nel posto sbagliato.
E poi ho fatto una di quelle interviste per delle ricerche di mercato che trovo sempre fantastiche. Quando un marchio viene a chiedermi come vorrei che fosse, tenendomi per due ore ad esprimere giudizi meramente legati alla comunicazione giusta per indurmi a comprarlo, mi sento onnipotente e idiota nello stesso identico istante. Credo che sia questa la vera, immarcescibile grandezza del mercato.
- E scommetto che sei uscita pure senza ombrello...
- Certo! Però avevo un cappellino che mi riparava e le scarpe giuste per saltellare nelle pozzanghere. E quando sono rientrata parevo un pulcino ma avevo il trucco ancora intatto e una bomba alla crema comprata stamattina assieme alle fialette drenanti...così, giusto per tener sempre presente che criticare gli altri vale per lo più solo come prova generale per criticare meglio se stessi
- Sei irrecuperabile...e il cuore? Come ti batte?
- Uff...neanche stavolta mi salvo, poi dici che non ti racconto mai niente...il cuore...lo sai, io sono bradicadica e quindi batte piano. Qualche volta accelera, ma lo capisco subito che non è pronto, si sbaglia o si spezza. Ancora non ce la fa e così gli dico tutte le volte di rallentare, di ritornare al ritmo lento e fluido di sempre, ma di tenersi sempre ricettivo alle sorprese. Ecco. Credo di aver aggiornato i dati per analisi che, spero, rispondano a leggi diverse da quelle del mercato ma delle cui formule mi sfugge sempre qualche passaggio cruciale
- Già...dai, fammi un po’ vedere quel trucco indelebile che resiste alla pioggia. Festeggiamo Halloween assieme. Ti trucco da “vivente” e ti disegno un cuore giusto sopra quello che hai, così si sommano i battiti e forse finalmente ti emozioni come si deve...ahahah
- Ma sei di una simpatia....

giovedì 25 ottobre 2018

Stasera mi accompagno a casa

Credo che non arriveranno mai a capirlo davvero. È inutile che mi prodighi in rassicurazioni e prove di gestione più o meno efficace delle beghe di una quotidianità in fondo serena. Per i miei è sempre un fatto assurdo che possa trovare ancora ragionevole trascorrere la mia vita qui, tutta sola, e senza mai poter contare davvero su qualcuno. Sì, non lo capiranno mai forse proprio perché in fondo hanno ragione. Ma penso pure che non basti questo per riuscire ad alimentare il desiderio di rientrare proprio adesso. Non è questo il momento e tanto basta perché la faccenda sia chiusa. “Ma come fai a stare sempre sola?” , “Non sono sempre sola”, “ma non hai paura?”, “No”, “Ma non ti stanchi mai a provvedere a tutto tu senza mai bipartire la fatica?”, “si e mi fa piacere non dover essere di peso a nessuno”, “ma pensi di non tornare mai più?”, “tornerò se e quando sarà necessario”.

Ammetto che, qualche volta, certa mia spavalderia nasconde un po’ dello sconforto che spesso mi prende tutte le volte che ho l’impressione che mi sfugga qualcosa di fondamentale, quando mi lascio coinvolgere in esperienze alle quali non credo fino in fondo, o affascinare da persone scorrette, quando proprio non ce la faccio e mi chideo se sia per stanchezza o tristezza. Ma non dura tanto, perlomeno non abbastanza da convincermi di poter già fare a meno di questo posto.

Ci sono cose che ho smesso di fare solo da poco: preparare dolci, conservare cose inutili pensando che potranno servirmi di nuovo un giorno, di comprare barattoli sott’olio, di immaginare l’uomo della mia vita senza smettere di credere che un giorno lo incontrerò. Ho scoperto che mi avanza un sacco di tempo per fare cose più gratificanti, sane e divertenti. Quasi mai riesco a stare davvero sola e ogni tanto sono persino felice di non avere figli in un mondo così terrificante come quello di questa infelicissima fase storica.
Cosa c’entra tutto questo con la mia assurda “missione” di vivere a Milano? Quasi nulla, se non fosse che ci lavoro, che mi sono innamorata dei corsi che seguo ora, che mi piace il mio frigo quasi sempre vuoto ma con dentro quello che mi serve davvero. So che mi piace ancora la gente del bar vicino casa che mi fa sentire bella, i fogli volanti con appunti che non ricordo di aver mai preso, la serratura della porta blindata che non ho mai messo a posto da quando vivo in questa casa...

Sono ben cosciente che in tutti questi anni l’alternativa allo star sola sia stata, nell’ordine, un affascinante uomo sposato incontrato in una bella palestra del centro che voleva dedicarmi tutti i suoi week end (...forse...), o un altro già impegnato a sua volta senza che io lo sapessi mai(...forse...), o le varie infatuazioni passeggere che sono valse il tempo di un’euforia posticcia, prima di farsi perplessità spoetizzata e lieve frustrazione. Direi anche basta a tutto questo nulla che mi offende ogni volta.

Che importa il luogo in cui decidi di startene? A me molto. Perché con ogni probabilità farei e mi capiterebbero ovunque le stesse cose, gli stessi incontri, le stesse frustrazioni...
Ma è soltanto qui che sono diventata brava a dimenticare, togliere e distogliere. E poi ancora aggiungere, fare altro. E, come per magia, di nuovo ricordare


domenica 21 ottobre 2018

La lettera, le motivazioni. E il guardaroba

Tutto come da programma. Mi sono resa conto quasi subito che ha funzionato. Quando stamattina ho tentato di inseguire la sveglia delle sei, che tengo volutamente  in cucina così sono costretta ad alzarmi, avevo dolori praticamente in ogni punto calpestabile del mio corpo. Lo sapevo. Sono strisciata fino al pulsante per spegnere l’allarme (che di sabato e domenica si dorme un’ora in più), ho acceso la radio per ascoltare il risveglio della Lusenti e poi mi sono ritrascinata a letto, accompagnata da un’orchestra di dolori e scricchiolii ossei che potrei giustificare solo con un rullo compressore che mi è passato addosso mentre dormivo. 
In realtà sapevo bene che dopo i venti km di scalata di ieri avrei avuto contezza di quella bella esperienza  proprio in questi termini. Ed era esattamente quello che volevo: impormi il letto anche standomene sveglia ad ascoltare la radio, non fare attività fisica, immaginare e attendere la colazione che avrei fatto più di in’ora dopo. Ho fatto proprio così: per una volta sono partita dai suggerimenti di un corpo dolorante per arrivare a capire cosa mi facesse davvero piacere fare. Il disagio è quasi sempre più efficace di ogni programmazione elaborata in condizioni favorevoli.

A metà mattina mi ha scritto un’amica per ringraziarmi di una cosa strana che avevo fatto per lei e che pare abbia dato un primo risultato. È andata così: un giorno mi dice che sta provando a cambiare lavoro e che la nuova società in cui vorrebbe lavorare, dopo aver letto il suo curriculum, le ha chiesto una lettera motivazionale che rendesse chiare le ragioni per cui si sente qualificata per quel lavoro, quali aspettative coltiva, le ragioni per cui ha scelto quella realtà aziendale e non altre. Ad un certo  punto mi dice: “Lucia, me la scrivi tu?”. Io rimango perplessa rispondendo che il senso di una lettera motivazionale sta proprio nel suo essere strettamente e autenticamente personale. E lei mi dice: “È vero. Allora mettila così: mi conosci da tempo, ti ho parlato tante volte del mio bisogno di cambiare e delle ragioni per cui voglio farlo. Sai tutto. È solo che poi tu metti per iscritto cose che a me non verrebbero mai in mente e che poi sono proprio quelle che penso io. Sono convinta che se la lettera me la scrivi tu sarà più vera di come potrei costruirla io”. La guardo perplessa e per un attimo penso che la sua potrebbe chiamarsi semplice pigrizia o forse insicurezza. Ma decido che voglio assecondarla. Le scrivo la lettera sulla scorta di tutto quello che so di lei, gliela invio. E non ci penso più. Fino ad oggi, quando mi ha detto che è stata ricontattata e che potrà accedere al colloquio finale per essere assunta. Ne sono stata felice e ho pensato che me la devo ricordare più spesso la storia che lo sforzo di mettersi nei panni degli altri, o se si vuole l’empatia, ha il formidabile vantaggio di farti vivere vite diverse dalla tua senza il peso e il vincolo dell’esperienza diretta. E questa mi pare una gran cosa davvero.

Poi ho deciso che era giunta l’ora di alzarmi dal letto perché ormai non potevo più stare senza cose come il caffè, il pane valtellinese con lo stracchino, la frutta, gli integratori di magnesio per i crampi lancinanti. Mi sono presa il diritto di fare tutto piano, di prolungare il mio stato di distensione stavolta sul divano e di cantare a squarciagola una canzone dei Baustelle. Quando era ormai ora di pranzo mi sono vestita comoda, preso un pacchetto di patatine e uscita (con enorme sforzo) a prendere l’autobus senza avere una meta precisa, solo per sentimi come in carrozza per la città. È come se avessi chiesto anche a me stessa di mettermi nei miei panni, ma quelli che non indosso mai, stanno lì da sempre e che non scelgo senza conoscerne i motivi, che magari hanno persino ancora il cartellino, e verificare se mi stanno bene, anche solo per un’occasione speciale. Credo sia empatia anche questa. È che con me funziona soltanto a certe condizioni, quelle fatte di autolimitazioni e strategie macchinose per deragliare dalla consuetudine. 
Con gli altri mi viene più naturale, mi basta conoscerli, trovarli simpatici, affezionarmici. E poi vederli bene proprio per quello che sono.
E questa mi pare proprio una bella cosa. O anche semplicemente una lettera di motivazione da tenere in seria considerazione. Mica nulla!


mercoledì 17 ottobre 2018

Di necessità superfluo

Giornate lisce quelle di questo autunno mite che ancora invoglia a passeggiate lunghe, il gelato a sostituzione del pranzo, pensieri lievi. Questo mi suggerisce questo lento transito verso la fine di un anno non brutto e a tratti persino indulgente.
Ho trascorso buona parte del pomeriggio dal parrucchiere: ho ravvivato l’”oro” dei miei capelli, li ho alleggeriti, ho persino fatto un impacco rinforzante e ho fatto pure la manicure. In realtà avevo soprattutto bisogno di farmi massaggiare la testa, sentire l’acqua che si confronta con la schiuma profumata, il collo che si distende ed io che mi rilasso fin quasi ad addormentarmi. Dio benedica quelle mani! Una bella piega ondulata, che durerà il tempo di un paio di vetrine più avanti per l’ultimo autocompiacimento. Poi tutto come prima: capelli lisci di solito raccolti a coda, unghie corte e pulite, trucco solo sugli occhi, scarpe comode. E nessuna voglia di essere notata. Chissà poi perché. Forse perché non ho più voglia di conferme, o di corrompere i miei silenzi e la mia solitudine con incontri dettati da presupposti sbagliati. Forse perché non mi sento giusta per nessuno, perché mi bastano le cose che faccio per conto mio, le mie albe, i miei corsi, le mie ricette vegetariane, i miei film pomeridiani, l’assenza di spiegazioni, gelosie, incomprensioni, conflitti. Perché ormai ho un’età In cui una si specializza così bene nei sogni che poi non ci pensa proprio più a realizzarli pure.

La puntata di “Melog” di oggi ha dato voce ai pareri dei radioascoltatori su un tema di cui neppure faccio riferimento tanto mi ha sconvolto quello che è emerso tra le opinioni di chi ha avuto l’arditpre di chiamare ed esprimere idee che neppure l’oscursntismo più spinto sarebbe capace di contemplare. Sono davvero senza parole. Poi per fortuna la trasmissione è terminata, Nicoletti ha chiosato col buon senso e la lucidità che contraddistingue chi ormai non si stupisce più di nulla e che sa bene che in fondo il mondo non finirà neppure per colpa dello strisciare di una mentalità arcaica, reazionaria, ottusa e intollerante. Però a me ha impressionato lo stesso e ho ripensato a quello che ho provato per tutto il tratto che mi separava dalla gelateria di Milano che preferisco. Ho scelto due gusti rassicuranti, mi sono diretta al passante immaginando il taglio di capelli che avrei deciso o il colore dello smalto. E così mi sono rasserenata quasi subito.

Sono rientrata in casa e mi sono resa conto di non aver fatto la spesa. Ho aperto il frigo e vi ho trovato: due birre, un barattolino quasi vuoto di paté di olive, mezzo litro di latte e due uova. Mi pare più che sufficiente in fondo. E poi oggi  c’erano cose più importanti a cui pensare: quelle superflue prima di quelle intollerabili. E anche dopo di loro

sabato 13 ottobre 2018

Chi ti ha dato le date? Io non me le ricordo. Ma in fondo neppure le dimentico

Credo che non mi sia mai successo prima e la cosa mi ha colpito molto. E non perché sia una a cui non sfugga mai nulla. Anzi. Di base vivo in un mio personalissimo mondo fatto di convinzioni ragionevoli ma sulle quali formulo spesso ipotesi fantasiose e ingenue a cui mi aggrappo fino a severe prove contrarie. Mi piace così: non credo che l’ingenuità sia assenza di intelligenza ma proprio il contrario.
Mi è “semplicemente” successo di dimenticare il mio pranzo per il lavoro e rendermene conto soltanto al momento di consumarlo. Sembra poca cosa, ma per me che tengo così tanto a quel rituale, fatto di elaborazione attenta, suddivisione per contenitori e preparazione accurata della mia mitica borsa delle meraviglie gastronomiche, è mancanza non da poco. È come se con questa dimenticanza avessi prestato meno attenzione a me stessa. Magari  non è neppure un male. Chissà. Forse sto inconsapevolmente tentando di rompere degli automatismi che credevo fondamentali solo perché consueti e perché pensare a delle alternative può essere spesso faticoso e rischioso. Può essere che mi stia dicendo di smettere di fare, pensare, programmare sempre le stesse cose.

Se mi chiedi quale sia il mio film italiano preferito e pretendi una risposta a bruciapelo è molto probabile che io ti risponda “Bianca” o al massimo “Ecce bombo” perché Moretti è il regista che ha maggiormente segnato tutta la mia “competenza” emotiva e ideologica. Per me è scontato che sia un suo prodotto intellettuale a costituire un mio caposaldo. Bianca è il film che ho visto più volte nella vita, potrei citare ogni battuta a memoria. Eppure, se ci penso bene e provo a dare una risposta più sentita, e meglio ponderata, probabilmente risponderei “c’eravamao tanto amati” o “la terrazza”. Si, credo che Moretti sarebbe la mia risposta di pancia e di cuore, ma Scola la mia risposta definitiva di cervello, oltre che di cuore. Pure quando penso a quando è stato che ho avuto percezione di un vero amore mi torna sempre in mente una sua intervista in cui parlava di De Sica. Mai dimenticherò la commozione e l’intensità del suo sguardo mentre era intento a ricordare film ed episodi del regista che più di tutti ne ha condizionato la poetica e l’immaginario,. O quando penso a quella volta che, raccontando di Troisi, usò un’espressione che a me parve un ossimoro parlando di quella sua “intelligenza dei sentimenti”. Non c’avevo mai pensato davvero, ma il mio regista è prima Scola (e subito dopo Moretti).

Forse anche a questo può aiutare accantonare le cose che sentiamo troppo parte di noi stessi: per aiutarci a pensare ad altro e fare spazio a ciò che ci sfuggiva perché eravamo troppo concentrati su quello che già sappiamo benissimo o che abbiamo deciso ci convinca già abbastanza. Vai a sapere...

Stamattina, mentre mettevo un po’ in ordine le mie carte sparse, ho trovato un piccolo biglietto con sopra scritto “date importanti da ricordare 2018”. Non c’è ancora annotato nulla e siamo già a metà ottobre. Credo di aver sorriso come quando mi imbatto nelle liste dei buoni propositi o nell’oroscopo per il nuovo anno quando dice che il mio segno trionferà.
Ma è proprio così importante avere qualcosa da ricordare? Osservo le righe di quel biglietto senza annotazioni e mi sembrano delle occasioni perdute, degli equivoci scampati, delle esperienze ancora tutte da capire. E poi guardo i giorni ancora da venire, quelle righe su cui non ho ancora nessun diritto di parola. E penso che non ha importanza, che d’ora in avanti troverò più interessanti le cose che “deciderò” di dimenticare, o di tenere momentaneamente accantonate, cosi che ricordi nuovi trovino posto da soli, senza la necessità di essere annotati da nessuna parte. Proprio come le parole di Scola, come i film belli assieme a quelli necessari, come un pasto buono dimenticato per poi essere gustato meglio solo qualche ora dopo, nella quiete di un giorno qualsiasi ormai concluso. Forse non da ricordare. Eppure a suo modo indimenticabile

martedì 9 ottobre 2018

Quelli del piano di sopra

A volte ti pare che non ci sia altro da fare che arrendersi alle avversità impreviste. E invece le cose, qualche volta, si aggiustano anche da sole. Fino a quattro o cinque mesi fa ero tormentata dal baccano infernale e inarrestabile di certi inquilini maleducati e irrisoettosi che stavano al piano di sopra. Nello stesso periodo dei vicini di casa che ritenevo amici mi contestavano il posizionamento dei tubi di una caldaia e, come se non bastasse, all’improvviso fu emesso un regolamento che impediva di stendere i panni nel cortile. È stato un periodo molto difficile ed io ero tanto più spiazzata se pensavo alla portata infima delle ragioni per cui trovavo impossibile vivere in questa casa. Mi ricordo che ero decisissima a scappare a vivere altrove, vendere o anche svendere il mio amatissimo bilocale e comprare una casa tutta nuova all’ultimo piano di un quartiere nella parte opposta della città. Conoscendomi sono sicurissima che lo avrei fatto. Se non si fosse dato il caso che, all’improvviso si è aggiustato tutto: i vandali del piano di sopra sono andati via lasciando il posto ad una famiglia che forse è fatta di piuma. Ho tolto il saluto ai vicini ex amici, assieme a tutte le decine di pastiere che ero solita preparare per loro e alle deteststissime assemblee condominiali. Quanto ai panni nel cortile, il mio papà mi ha spiegato che non sta in cielo né in terra quel regolamento e che se si azzardano a contestare li appendiamo noi...

A volte succede. Succede che decido che mi metto da parte, senza difesa ma concentrata e in attesa e ad un certo punto, come per una strana magia, le cose si sistemano per conto loro, come a premiarmi di pazienza e buona educazione, di un tempo indebitamente sciupato e di pace negata. È una strada come un’altra. Avrei potuto alzare la voce, minacciare, indispettirmi. Invece ho aspettato, mentre mi dicevo che non sarebbe stato male, ad un certo punto di non ritorno, anche scappare e andare a stare altrove. Per ora non è stato necessario e posso ancora godermi questa strana periferia che continua pur sempre a divertirmi molto, non faccio più crostate per nessuno, non scrivo più noiosissimi verbali in assemblee condominiali a cui non partecipo e quando c'è il sole stendo i panni proprio come le gioiose lavandaie degli anni sessanta. Per me funziona così da sempre: posso sperare di vincere solo quando mi sottraggo ad ogni conflitto. E ne ne sono felice. È così che ho imparato a far finta di niente, a non rispondere alle provocazioni, ai giochi psicologici, agli atteggiamenti dispettosi. È così che mi sono disamorata di persone che adoravo ed è così che ho reso il cuore un po’ più impermeabile ma pure sempre più abile a capire cosa cerca davvero e cosa di cui non tenere più in conto. Per fortuna il senso inevitabile di delusione mi passa sempre e ad un certo punto torna ancora  prepotente la voglia di avere fiducia nella luce di un viso nuovo, di aprirmi ad altre esperienze e di fare anche le cose di sempre con un passo nuovo.

C’è, di contro, una resa che mi pare invece una sconfitta fatta e finita, come quella di vivere in un paese che asseconda una politica scellerata che se non contrastata per tempo non potrà che portare ad un baratro senza ritorno. Ma un paese non è un condominio di periferia e io non sono la sola inquilina del piano di sotto. Ma chissà , potrebbe darsi che, un bel giorno, spontaneamente decideranno anche “loro” di andar via e di non tornare mai più.
E tutto tornerà ad essere come deve essere. Come per magia. O il meritato premio di una pazienza davvero infinita...

sabato 6 ottobre 2018

A passeggio. Tra cause ed effetti. E tra affetti e piatti

Sono ritornata alle abitudini del sabato di qualche anno fa, quando, dopo la solita corsa in solitaria intorno all’areoporto di Linate, trascorrevo l’intera mattinata alla biblioteca Calvairate, uno dei primissimi luoghi in cui mi sono “rifugiata” appena approdata a Milano per cercare “connessione”. Ora rimane aperta pure di pomeriggio e quelli che ci lavorano mi conoscono e sono strani e gentili proprio come piace a me. Ho preso un po’ di film, letto un po’ di pagine di un libro e pensato a cose assurde che di solito mi passano per la testa quando corro o cammino molto a lungo, oppure mentre lavo i piatti.

Oggi, per dire, mi sono chiesta questo: può essere che certe volte una forte sperequazione sociale - che si traduce in disuguaglianza nella ricchezza posseduta - sia un fatto positivo? Ecco, poiché quando cammino presuppongo un tempo sufficientemente lungo da coprire almeno quattro o cinque kilometri, sono solita concedermi la possibilità di non darmi soltanto risposte ovvie e risolutive e provo a mettere a fuoco la questione concentrandomi su casi esplicativi. Mi pare un metodo efficace per evitare di teorizzare sul nulla. E così mi sono chiesta, ad esempio, cosa sarebbe diventato Luchino Visconti se non fosse stato così spaventosamente ricco e con una cultura tanto elitaria, davvero avrebbe potuto esprimersi allo stesso modo per realizzare così magnificamente se stesso e la sua arte? Che io sappia il suo emozionato rigore e la cura di ogni più piccolo dettaglio hanno previsto dei budget fuori controllo per i suoi film. Quando penso a Visconti, e in generale ad una certa classe sociale di abbienti “illuminati” (quella che gli inglesi definivano la “gentry”) penso che l’essere ricco possa essere quasi paradossalmente un fatto necessario.
Di contro mi sono chiesta se pure per la povertà possa farsi un ragionamento speculare. Esiste una teoria economica denominata “affamare la bestia” secondo la quale un soggetto posto in condizione di necessità è probabile che agirà massimizzando le proprie potenzialità senza dispersione nè sprechi (la propose Reagan pensando alla pubblica amministrazione...vabbè fammi stare zitta...). Sarebbe infinita la lista di artisti squattrinati che, una volta svoltato, si vantano delle loro miserrime origini come presupposto necessario del loro successo. E quindi? La miseria può essere considerata una benedizione? Forse il mio errore sta nel cadere nella trappola della “monocausazione”: un effetto non necessariamente dipende da una sola causa e quindi ricchezza e povertà sono solo una delle molteplici cause della creatività e della piena espressione di se stessi. Beh sì certo, ma non è questo il punto. Il punto è che secondo me la possibilità di esprimersi o meno in un certo modo piuttosto che in un altro è direttamente legata ad una condizione di partenza funzionale a ciò che sei e quindi essere molto ricchi o molto poveri può fare la differenza che ti serve. Forse dovrei camminare di meno...

Di tenore solo apparentemente diverso sono le domande che mi pongo sulla natura dei legami di sangue. Cosa ne stabilisce la reale portata, intensità, potere condizionante nella vita..mi chiedo spesso cosa sia peggio tra un cattivo genitore e un genitore assente. Io mica saprei davvero rispondere e, da quella volta che mi capitò di vedere “le invasioni barbariche”, credo di averci pensato tantissime volte. E poi, come ha fatto Lory del Santo a sopravvivere alla morte di due dei suoi tre figli e andare ad elaborare il suo lutto al grande fratello vip? E perché non avrebbe dovuto? Ci pensavo ieri, mentre lavavo i piatti e coniugavo la serenità dettata da un’operazione semplice ma utile col netto contrasto di questioni che non sono in grado neppure di lambire. Ed è questa “assoluzione” da attività necessaria e basica una delle ragioni principali per cui non ho mai desiderato una lavastoviglie.

Poi per fortuna smetto di camminare, mi tolgo i guanti di gomma e accendo la radio, che di sabato c'è il più bravo di tutti che è Matteo Bordone che sa sempre tutto come si deve, di certo pure le domande mie.
Finalmente mi metto in ascolto e mi dico meno male che mentre penso, o credo di farlo, faccio anche cose che, per una volta senza ombra di dubbio, mi fanno bene, mi piacciono o addirittura mi tornano utili


martedì 2 ottobre 2018

Un cono gelato in un cono d’ombra

Me lo sono concesso ieri pomeriggio. Prima della mia seconda lezione sul cinema horror. Faceva un freddo a cui non ero pronta, piovigginava e mi trovavo alla stazione Cadorna. Il mio ultimo gelato della stagione è stato quello di cioccolati italiani, dove prima di dire che gusto vuoi ti scegli la fontanella di cioccolato sotto cui passerà il cono. Mi piacerebbe sempre vedere la mia espressione mentre assisto a quell’operazione. Non avevo nessun desiderio di gelato, me lo sono quasi imposto. E poi avevo l’ombrello che mi dava noia e portavo pure una borsa piena di gadget sportivi che mi aveva appena regalato il mio ex coach: mi ha perdonato del mio non essserci quest’anno agli allenamenti del sabato mattina. Sono contenta che mi abbia pensato lo stesso e avuto voglia di salutarmi.
La piazza aveva un’aura troppo malinconica, c’erano tre o quattro ubriachi che bivaccavano sul bordo delle scalinate, indossavo abiti troppo leggeri, il gelato era buonissimo ma io non avevo abbastanza appetito. Poi ho preso la metro per andare a porta Genova, dove si tiene il corso, ma l’idea che sarei tornata a casa molto tardi non mi allettava per nulla. A me succede spesso di fare cose che mi piacciono e al contempo di pensare che le condizioni non siano le migliori per poterle apprezzare in pieno. E questo mi fa arrabbiare, perché mi pare uno spreco.

Ad un certo punto ho buttato via una parte del mio gelato traboccante di cioccolato e di variegato alla nutella, ho preso la metro con troppo anticipo e quando sono arrivata per la lezione era ancora tutto chiuso. Nel frattempo mi ha chiamato un amico che ha chiacchierato con me per il tempo dell’attesa e mi ha regalato la possibilità di vedere una cosa bella domenica prossima. Poi finalmente mi sono accomodata in prima fila. Andrea mi ha portato il foulard che avevo scordato alla lezione la settimana scorsa. Che fortunata circostanza! Nelle due ore successive ho preso un sacco appunti da “paura” per film che non ho mai avuto il coraggio di affrontare. Sono rientrata molto tardi, ma stavolta avevo il foulard che mi teneva protetta la gola e ormai non avevo più nessun bisogno di cenare. Ho aggiunto delle coperte sul letto e mi sono addormentata senza temere che i fantasmi tormentassero il mio riposo.

Ormai ho freddo ma non ho ancora tirato fuori nulla di adeguato da indossare ed è come se lo facessi apposta a non ritirarmi subito sul nuovo assetto di una stagione che si fa rigida senza preavviso. È un po’ come se intendessi rispettare una fisiologia che ha bisogno di un tempo diverso da quello esterno per poter assorbire il cambiamento. O forse coltivo la speranza folle di trovare proprio nel disagio una risposta nuova.

Oggi, come ieri, non è successo nulla di speciale, eppure come ieri e come sempre, penso a quello che non ho mai avuto il coraggio di raccontarmi davvero e che in origine fu la vera causa della genesi di questo blog e di ogni mio “resoconto”, tormento, senso di colpa, paura del futuro, dubbio e di ogni giornata grigia su cui provare a mettere colori e buone ragioni. Mi è così facile parlare dei fatti miei, confessare uno stato d’animo, esprimere una riflessione, persino stilare la lista infinita delle mie fragilità. Mai detto bugie, mai sovradimensionato entusiasmi o emozioni. Eppure neppure per una volta ho contemplato la reale possibilità di dirmi a chiare lettere come stanno le cose, quelle che non posso risolvere perché sono una condizione di fatto indipendente da tutto e che però muovono ogni mio passo, lacrima, sorriso e orrore. Stasera penso che sia davvero strano saperlo da sempre ma farci davvero caso solo quando comincia a fare freddo. E il silenzio si fa sentire proprio forte.