Sola andata

Sola andata

mercoledì 28 novembre 2018

Due anni “spezzati” bene

Due anni giusti giusti. E non lo ricordo perché me lo abbia evocato Facebook che, stranamente da mesi e mesi non mi riporta tra i ricordi i post del blog condivisi anche lì. No, me lo ricordo da sola quello strano giorno quando, dopo una corsa di beneficenza, le risate negli spogliatoi e il freddo di novembre, qualcuno, senza rendersene conto, ti dice una cosa che te ne fa scoprire un’altra. E così, senza il minimo preavviso, scopri che un cuore allenato e cocciutamente predisposto alla felicità in un nanosecondo piglia e si spezza. Quel giorno lì piansi tutto il giorno, senza riuscire a frenarmi proprio mai. Ricordo che mi rifugiai in un cinema di quartiere dopo aver pianto anche lì fuori, sui gradini di una chiesa. Ancora oggi penso di non aver mai sofferto così tanto in tutta la mia vita. E poi mi ricordo del breve post che scrissi e del numero spropositato di coloro che lo intercettarono. Poi all’improvviso mi passò tutto, il cuore si ricompose rimescolandosi con la materia dura, impermeabile e ignifuga di cui decisi di attrezzarmi durante il solenne giuramento di non innamorarmi mai più in tutta la mia vita.
Quante volte in questi due anni ho ritrovato il suo sguardo! Non c’è niente da fare, continua ad essere il ragazzo bello e simpatico di sempre, solo molto più gentile e premuroso di allora. Ma non riesco a ricordare quando, e perché, ad un certo punto me ne innamorai e, soprattutto, come sono riuscita a smettere così bene, per quanto mi pareva impossibile solo qualche istante prima.
Come è bello voler bene a chi hai amato.

Ma due anni sono un tempo in fondo bello lungo, tanto più per un cuore sotto “giuramento”. Davvero sono riuscita a starmente impassibile ad ogni emozione? Alla fascinazione di un incontro che si è pure dato il tempo di trasformarsi in conoscenza ed esperienza condivisa? Non lo so, in tutta onestà, direi di essermi concessa l’occasione di sbagliarmi ancora e di scoprirlo abbastanza in tempo da consentire al cuore di restare ancora intatto. Che pare poca roba ma invece è una conquista di metodo
 mica da ridere. Credo sia andata più o meno così: toh, mi piace un sacco. E poi, ma guarda che strana coincidenza, forse è un segno del destino. Che bello, stasera lo rivedo. Che bello ascoltarlo. Che
bello. Ah...no mi sono sbagliata. Uh, stavolta mi sento proprio offesa. Chissà perché fa così. Aspetta ora faccio io così, dico così, vediamo come reagisce se io...ah no, mi sono sbagliata. Ah, ma non era vero quello che mi aveva detto. Ah ma gli piaceva lei, e forse anche lei. Ah addirittura...questo proprio non lo sapevo...ah ok, mi sono proprio sbagliata.
Però stavolta non ho pianto mai. Neppure quando di occasioni di sbagliarmi ancora, ad un certo punto, non riesco proprio ad inventarmene più.
Sono diventata proprio brava. 

sabato 24 novembre 2018

Nè ragione nè sentimento. Ma neppure risentimento

C’è una specie di sacro compiacimento nell’ammissione di un errore. È come se da quel momento in poi, deposte le armi di una battaglia persa con la logica, le attese, le congetture, fosse irragionevole ogni tensione e smania e vale soltanto mettersi a sedere e osservare le cose per quello che sono. Indipendentemente da me e da tutto quello che inutilmente avrei potuto fare. A suo modo è pure comodo.
A volte mi chiedo che sarebbe successo davvero se avessi ottenuto tutto quello che volevo e come mi sarei comportata se tutto quello che credevo dovesse accadere poi si fosse avverato. Sarei davvero stata all’altezza dei miei desideri? Avrei amato davvero chi immaginavo al mio fianco? Le mie convinzioni profonde, ma spesso non confermate dalla mia condotta, erano la cosa giusta non sostenuta da un metodo valido di realizzazione o in fondo non mi appartenevano davvero? Vorrei che esistesse un algoritmo capace di simulare ogni ipotesi alternativa di “se fosse davvero stato così...o così...o così...” e osservare da un proiettore tutte le differenti esistenze da convinzioni alternative andate a buon fine.

Io non ho problemi a riconoscere l’errore. È un errore sentire di non avere radici, è un errore non essere convinta che non sarei stata una buona madre senza uno straccio di prova in tal senso, è stato un errore ogni destinatario del mio amore. Liberatorio è riconoscerlo, problematico farci periodicamente i conti. Ma poi, che conti farci? Per dire, ho trascorso la mattina con un cartone dolcissimo di Miyazaki “Si alza il vento”, una storia autobiografica che parla di amore per il volo, di sogni che non si realizzano perché mancano le condizioni oggettive e che però aprono la strada a sogni più grandi, al caso, agli incontri altrimenti impossibili. E mi sono chiesta se accada proprio così nella vita quando ci pare tutto sbagliato e impossibile ma in realtà lo è affinché tutto ciò che sia giusto e possibile alla fine si possa realizzare. Secondo me certi cartoni valgono come algoritmi validi per una simulazione...e mi pare che Miyazaki commetta meno errori di me...

Amo le mie cantonate poiché quando ho la forza di ammetterle è perché ho finalmente esorcizzato ogni tormento interiore e compiuto quel mirabile e direi quasi eroico processo di sdrammatizzazione che vorrei fosse la cifra di ogni mia più piccola affermazione di esistenza. Qualche volta mi capita di prendere un quaderno nuovo, bello come può esserlo solo un quaderno mai aperto prima, e poi una di quelle penne che ho amato quando facevo ancora esami con i voti (esistono ancora le immense e uniche Pilot?) e faccio la lista. La lista è la svolta. Di solito c'è un nome che ho finalmente la forza di cancellare, attività abituali che non mi interessano più, espressioni che ho usato e che non ripeterei, persone a cui ho chiesto scusa, cose bruttissime per cui chiedere perdono non basta ma che devo assolutamente ricordare perché mi servirà tutta una vita per rimediare, confondere la stima con l’affetto o l’amore...e alla fine scrivo una cosa tipo “ok, mi perdono. Doveva andare così”.

Siamo esseri razionali eppure non facciamo che procedere nella vita per tentativi ed errori, tutto il resto è il frutto di una variabile indipendente altrimenti detta buona o cattiva sorte. Se ci penso bene è piuttosto curioso, perché in fondo nessuno di noi può sapere esattamente quanto sia nel giusto, a meno di avere una percezione davvero profonda di se stesso.
Ma io per il momento mi accontento di ammettere divertita tutti i miei errori. E pensare che la buona sorte mi abbia, fino ad ora, fatto una gran buona compagnia

giovedì 22 novembre 2018

Imparare a perdere una lezione. Così imparo...

In fondo è una fortuna anche questa. Ti prendi un giorno di ferie perché devi fare una cosa bella di mattina e quando finisci e sei sul tram per tornartene a casa ti si gonfiano gli occhi, ti fanno male tutte quante le ossa che hai, la testa ti esplode e tu, almeno per il momento, non puoi permetterti niente di tutto questo. Credo che si sia reso conto delle mie condizioni soltanto un ragazzo in metro che, vedemdomi in difficoltà a tenere gli occhi aperti, mi ha ceduto il suo posto. Gli uomini gentili esistono ancora e vale la pena ammalarsi anche solo per avere ancora questa prova.

Sono rientrata in casa, mi sono guardata allo specchio: sono pesta. Ho preso delle cose per l’influenza, mangiato i pizzicherei che avevo tolto dal freezer stamattina, ho sistemato tutto, mi sono tolta il trucco, messo i piedi per cinque minuti nell’acqua calda e mi sono messa al letto. Ho fatto tutto quello che dovevo eppure garantisco di avere dolori ovunque. Stasera avrei una lezione sul cinema nella parte opposta della città e sono sicura che troverò la forza di andarci anche se sarò ancora in queste condizioni. In questo momento sono su un lettone/soppalco, assieme ad un mal di testa ancora feroce, come sa esserlo solo quello che mi prende quando sono angosciata da qualcosa che non so risolvere o quando ho battuto molto forte su qualche parete dura, e penso che certe volte sia proprio un lusso stare male se non hai nessuno che ti fa le cose o almeno te le semplifica. E poi c'è la questione “motivazione”: ci sono esperienze che non voglio proprio perdermi, come la lezione di stasera, e poi ce ne sono altre che faccio solo perché riesco a sopportarle bene, ma non anche a goderle e purtroppo mica sempre riesco ad esercitare il sacrossnto diritto di ribellarmi a questo inutile abbattimento della qualità del mio benessere. E questa è una faccenda per nulla banale per me perché credo mi fornisca la misura di quanto sia frutto di una mia scelta profonda e quanto una mera prova di forza e di sopportazione.

Ho scoperto per puro caso una cosa che mi ha lasciato molto stupita perché non ho capito le ragioni per cui dover dire una cosa non vera senza che ve ne sia neppure una sola valida ragione. A volte basta cosi poco per modificare totalmente la percezione di cose, persone, situazioni che cambia in un nano secondo il tuo sguardo su quelle. E forse su tutto il resto. sono sicura che certe cause di malessere trovino la fonte dei propri sintomi pure nella delusione non mitigata da valide spiegazioni. Ma non mi illudo che le mie pilloline possano occuparsi anche di questo.

Domani dovrei seguire l’ultima lezione in un posto così lontano da casa mia che ogni volta rientro così tardi la sera sono un vero straccio e adesso sto qui a chiedermi quanta “motivazione” devo aver avuto per decidere di fare una cosa  simile ad un orario per me così balordo e cambiando ben quattro mezzo di trasporto diversi. Mi mortifica anche soltanto il pensiero.
Oggi, con questo mal di testa, gli occhi gonfi e distanze difficili da coprire penso che perdersi qualche lezione sia in fondo un lusso che posso cominciare a prendermi persino io. Finalmente


sabato 17 novembre 2018

Qualche ottima ragione per darmi torto

“No, non ci vado. Ora finisco questa cosa, metto a posto un po’ di scartoffie e poi me ne torno direttamente a casa che c’ho un’emicrania così forte che mi si è apppannata la vista. No...è inutile, ho deciso, non ho nessuna intenzione di andare in centro in queste condizioni. E poi fa freddo, devo comprare il latte e poi sai che caos in metro a quest’ora...”. Faccio sempre così quando sono molto stanca ma muoio dalla voglia di fare qualcosa che avevo in programma: elenco tutte le ottime ragioni per cui non avrei colpa nel tirarmi indietro, che in fondo non è l’unica esperienza che mi sto per perdere e che se è vero che si cresce solo uscendo dalla propria comfort zone è, giocoforza, altrettanto vero doverci pur entrare ogni tanto...

Ieri, poco prima di uscire dall’ufficio, facevo di simili congetture perché ero malandata ma pure desiderosa di fare una passeggiata in centro e andare a sentire un po’ di storie di autori di libri nell’ambito di “Bookcity”. Per fortuna ho scelto di non assecondare le scuse e io, il mio mal di testa, un orribile spezzafame a base di riso soffiato, il cellulare scarichissimo, ci siamo avviati verso il centro mentre faceva la stessa strada una serata (finalmente) invernale. Quando ho attraversato la piazza mi sono resa conto che è passato un sacco di tempo dall’ultima volta che l’ho percorsa di sera, abbastanza da non essere più abituata al suo fascino, alla magnificenza delle luci della galleria, ad una pace non riscontrabile nelle ore diurne. Mi ero disabituata a certa magia, c’era un’armonia in quel flusso non caotico di passanti assieme alla gente seduta ai tavolini esterni dei locali e io, che avevo sotto gli occhi tutto quanto come se fossi un’invitata arrivata un po’ in ritardo, mi sono resa conto solo in quel momento che nessuna delle ottime scuse che avevo trovato per non essere lì era davvero valida.

Ho tirato un sospiro di sollievo, sono stata ancora un paio di minuti ad osservare quel posto così giusto così e sono entrata alla Feltrinelli della galleria, dove avrei sentito parlare di storie fantastiche, di come nasce un fumetto matto e degli effetti moltiplicativi della creatività e dell’immaginazione. E poi ho respirato forte di nuovo, ho preso la metro e ho trovato posto a sedere. Sono rientrata in una casa in ordine, calda e silenziosa. Solo in quel momento mi è tornato il mal di testa. O forse avevo solo scordato di averlo. Ho guardato in frigo. Non era vero che è finito il latte. Ho acceso la tv, mi sono agganciata al termosifone, ho preso qualcosa per il mal di testa e mi sono rilassata così tanto che ho trovato le energie solo per raggiungere il letto e per pensare che sono proprio brava a trovare ottime ragioni per non fare le cose che mi interessano. E poi che quasi sempre la mia scelta giusta sta nel non assecondarle neppure tanto così 

domenica 11 novembre 2018

-Come lo senti il male? - Male, ma con piacere

Sono solo pochi anni che lo considero un prodotto irrinunciabile. Credo che la generale avversione all’uso di medicinali e palliativi mi abbia portato a sottovalutarne la assoluta necessità che oggi gli attribuisco a pieno titolo. Io non voglio vivere senza almeno un antidolorifico in casa. Cominciai per via di un mal di denti per cui arrivai a svenire per il dolore e da allora ho capito che noi poveri mortali saremo anche nati per soffrire ma che sarebbe il caso di limitare le casistiche alle volte in cui possa davvero valerne la pena: direi quasi mai, oppure se la sofferenza è una forma di allenamento fisico, spirituale, intellettuale, emotivo per plasmare quel dolore in piacere. Tutto il resto è “banalmente” male.
Dopo quel mal di denti il dolore fisico mi ha colpito nella forma di infortuni, mal di schiena, mal di testa, contratture...e tutte le volte c’erano degli Oki a darmi un sollievo quasi immediato e io me ne stavo lì ad intercettare il momento esatto in cui cominciava a fare effetto, pregustando le ore in cui avrei di nuovo fatto movimenti fluidi e tutte le normali attività che tali non sono quando stai male e non puoi sottrarti alle cose da fare. 

C’è qualcosa di miracoloso nei palliativi, e in generale nelle anestesie, hai un male ma non lo senti, puoi tenertelo facendo quello che ti piace o che è necessario e che altrimenti non ti sarebbe possibile. Aspetta...ecco...la sento l’obiezione...come dici? Ah già, il palliativo non è una soluzione, è solo una specie di inganno temporaneo, anche rischioso se non stai attento. Ah già, mi stai dicendo che senza la percezione del dolore potrei fare cose che peggiorano la causa del male e poi i palliativi, come le droghe, creano dipendenza. Eggià, bisogna stare attenti...bisogna stare attenti agli inganni che ci raccontiamo per stare meglio, siano essi intrugli di chimica ben assortiti o le cose che ci raccontiamo per consolarci di un’evidenza che ci rema contro, o la speranza che ci colora le attese pure se non si capisce bene quando si realizzeranno effettivamente, o un bel film che ti toglie dal quotidiano almeno per un paio d’ore, o persino un libro che ti racconta il finale giusto. 


Chi stabilisce davvero cosa sia davvero consolatorio e curativo e cosa invece ingannevole e di piacere passeggero? No, ti prego no, non mi scomodare gli epicurei e gli stoici, non voglio dire questo, non propriamente almeno. Io vorrei solo sapere cosa renda vile la fuga dal dolore e cosa no, se un mal di denti meriti di essere negato e un mal d’amore o un tormento esistenziale invece vadano vissuti fino in fondo perché dopo saremo persone davvero migliori. Mah, alla fine mi rispondo che forse è improbabile immaginare la possibilità di una vita intera senza dolore, ma che sia del tutto legittimo ipotizzare una sorta di diritto a non soffrire che bisogna far valere...al costo di tutto il dolore possibile. E del paradosso che lo regola...

Esattamente sette anni fa facevo il mio primo viaggio intercontinentale. Andai in India e fu un’esprienza irripetibile. Il tour che feci mi restituì esattamente il luogo che avevo immaginato: la più grande democrazia (finta, fintissima come tutte le democrazie del mondo)  regolata da una religione che legittima le caste come cosa buona e giusta, mica pure necessaria per la conservazione di una società cristallizzata e controllabile. E così ho pensato che esistono davvero un sacco di modi di evitare il dolore, consolarsi e provare piacere ovunque si desidera che ci sia. Non credi? No, veramente non credo. E questa mancanza di fede, infatti, mi addolora.











martedì 6 novembre 2018

Senti da che trespolo....

Tutti questi anni senza mai guardarci dentro. Twitter è diverso da fb. Di poco, ma è diverso. È più orientato alla condivisione di link a scopo informativo, osservazioni sul contemporaneo, battute ad effetto sempre molto ancorate ai fatti del giorno. Quelli bravi e con elevato potere di sintesi riescono ad essere davvero efficaci ed arguti. Ho sbagliato. Twitter è un mezzo figo di cui mi sono colpevolmente privata e ora che fb comincia a piacermi sempre di meno e qualche volta persino ad irritarmi, credo che dirotterò il mio cazzeggio virtuale nella lettura e composizione di “cinguettii” collettivi dalle migliaia e migliaia di trespoli virtuali di passeri più solitari che mai.
Pure Instagram comincia a mostrarmi il suo fianco, con il suo tentarmi ai selfie ben riusciti, quelli con la luce e i filtri che migliorano, con l’aforisma giusto che smorza un po’ la vanità, o un messaggio dedicato ad un destinatario immaginario che si spera lo intercetti e lo ispiri. Mi piace, ma non mi è utile e neppure troppo dilettevole e poi mi fa pensare sempre a quel bel racconto di Calvino contenuto negli amori difficili: l’avventura di un fotografo. E allora mi spavento un poco, perché penso che l’epilogo tristissimo di quella storia, che ha a che fare con la continua riproduzione della vita attraverso immagini che si sostituiscono in tutto e per tutto alla vita stessa, sia una tristissima profezia che non vorrei realizzare certo io.
Beh, tutto questo per dire che Twitter è un bel posto che mi sono colpevolmente persa, che fb comincia ad annoiarmi e che Instagram è bello ma non ci vivrei. E che i social sono un meraviglioso e variegato mondo, oppure esattamente il contrario.

La parte migliore del mio tempo, invece, non mi lascia dubbi: mi barcamenato tra corsi bellissimi, un lavoro che non mi dispiace, film che non mi hanno deluso, nuovi amici, vecchi amici, unitamente alla mia beneamata solitudine, che mi riempiono e che rendo possibili solo con degli incastri rocamboleschi ma armoniosi come non mi riusciva da tempo. Non tendo a nulla e non odio nessuno, pur non amando come vorrei. D’altra parte stare così tranquilla, posso garantirlo, è una condizione idilliaca che potrei equiparare all’innamoramento senza l’incubo delle passioni: uno stato di grazia per nulla trascurabile.

È morto il micino malato che i miei avevano in custodia. Mi ha fatto molto effetto saperlo perché quella volta che lo vidi mi sembrò incantevole proprio per quella faticosissima vivacità, tra fratellini che crescevano a differenza di lui, il più protetto e coccolato, ma che tremava ad ogni tentativo di carezza.  Uno degli esseri più teneri e agganciati alla vita che abbia mai visto. Hai avuto una bella vita piccolo cucciolo guerriero.

Chiuderò l’anno in mezzo ad un sacco di impegni belli assieme a quelli che ho lasciato perdere per carenza di motivazione profonda: corro di meno ma sollevo più pesi, non preparo più dolci e cucino solo per non morire. La noia spesso può dettare la tabella di ogni cosa e sussurrare all’orecchio ipotesi nuove. All’inizio sembrano soltanto “cinguettii” confusi. O semplicemente mi stavavo ripetendo, da tutta una vita, di fare solo un po’ più di attenzione. Persino a ciò che ho giusto sotto gli occhi


sabato 3 novembre 2018

(Ri)cambio di stagione

Il mio cambio di stagione è quasi finito. Ho ripreso il periodico rito di buttar via cose che non mi riguardano più, oggetti ancora funzionali all’utilizzo ma legati a ricordi non utili a giustificarne l’ingombro: magliette, tazze, pupazzetti regalati da chissà chi, candele, bomboniere...ogni tanto mi prende il bisogno di liberarmi della “roba”. Dice che lo spazio domestico ideale è quello che contiene le stesse cose di una camera d’albergo: forse è un’esagerazione se penso che proprio mai mi libererei dei miei fumetti e dei miei dvd...
Ormai le ore di luce sono diventate poche, la sera mi viene sonno molto presto e ritrovo il mio apice della giornata nel momento in cui il mio vivacissimo piumone mi restituisce il suo calore. Di solito mi addormento quasi subito e così bene che svegliarmi all’alba è solo naturale fisiologia che si realizza senza sforzo. Erano le cinque anche questa mattina di sabato, ero nella mia solita posizione quasi trasversale, abbracciata al cuscino, completamente rilassata, avvolta in un silenzio assoluto e ho subito pensato a quanto siano colpevoli, ai miei occhi, quelli che si alzano a mezzogiorno perché si perdono tutto il sonno notturno o semplicemente perché dormono troppo. Ma ogni tanto mi viene pure da chiedermi che emozioni mi perdo a non avere abitudini e attitudini diverse da quelle che ho.

Fb mi ha restituito una vecchia foto che mi piace molto che fu scattata in un giorno di cui ricordo tutto. Ho pensato al punto in cui ero, allo strano modo in cui ho assecondato un percorso piuttosto che qualunque altro, a come, ad un certo punto, cambia la percezione di tutto, persone comprese. E ogni cosa per un attimo mi è sembrata stranissima. 
Ritorno spesso a quegli anni e ancor di più a quelli precedenti, quando ancora studiavo economia e la trovavo troppo complicata e avrei certamente mollato, se non avessi fatto del mio prof il mio mentore definitivo fino alla fine del dottorato. Forse lui è l’unico tra tutte le persone che ho adorato di cui non smetterò mai di sentire davvero la mancanza. Degli altri legami spezzati non ho molto da dire: svaniti per consunzione, equivoco, bruschi cambi di rotta, inganni, superficialità, gentilezza prima mancanza di rispetto dopo, vacuità...geometrie che ho imparato a riconoscere in tempi sempre più rapidi per fortuna e da cui non lasciarmi offendere troppo. Magari chissà, forse la colpa è stata mia...ma no, stavolta lo so, non è stata affatto colpa mia. È successo così. Punto. Non ho colpe.

C’è un cielo molto grigio stamattina, io ho dormito molto bene e tra poco incontrerò degli amici per pranzare assieme e in un posto magico. E poi farò delle foto. Tra tutte ne sceglierò una che mi piace più delle altre e la affiancherò a quella di nove anni fa che ho ritrovato oggi. Le metterò a confronto senza tenere conto dell’impietosa ma banale evidenza del tempo. Ed infine deciderò a mio insindacabile giudizio che quella di oggi è, senza dubbio alcuno, la più bella