Sola andata

Sola andata

giovedì 26 dicembre 2019

Lumachina 2.0

Stavolta me lo merito. Decisamente. Non lo faccio mai, ma stavolta ho deciso che per una volta parlerò tanto bene di me. Non c'è pericolo che mi ci possa abituare: mi diverte molto di più prendermi in giro e deridermi del mio eterno incespicare piuttosto che decantare meriti che molto probabilmente sono solo frutto del caso o di una congiuntura particolarmente favorevole. Ma oggi me lo devo. Anzi è da ieri che me lo devo. Più precisamente dal pranzo di Natale.
A mia memoria credo di non aver mai cucinato così bene in tutta la mia vita. Era tutto perfetto dall’antipasto al dolce. Non ho sbagliato nulla dalla scelta dei piatti, condimento, sale, il punto di cottura della parmigiana al forno, financo la consistenza della crema al limone per la frolla alla vaniglia era esattamente come la sognavo. Persino il caffè mi è venuto più buono del solito.  La casa era perfettamente pulita e in ordine e io ho trovato il tempo di andare a correre all’alba, leggere e finire la serie de “La fantastica signora Maisel” che è una delle mie attuali ragioni principali di gioia e benessere. Ieri e oggi sono stati due giorni perfetti. Si può far festa anche così, lontani dalla famiglia ma senza nessun rancore, semplicemente sfruttando l’occasione di un tempo speciale per trovare una dimensione tutta propria e piena di tante cose. Oltre che di tanto silenzio. E di “tracce” da ripercorrere.

Dieci anni esatti che vivo in questa casa. Venni ad abitarci che avevo a disposizione solo il microonde e il letto. Mancava pure il riscaldamento, e all’epoca nevicava. Sì, dieci anni fa di questi tempi a Milano faceva veramente freddo. Solo dopo sono arrivati il divano, i mobili dell’ikea, la cucina montata da un signore marocchino che mi fece morire dal ridere per un pomeriggio intero. E poi tante cene affollate e che col tempo si sono diradate. E poi altre persone ancora, da cui mi sono lasciata ferire senza alcuna ragione. E poi la solitudine, di cui parlo sempre più spesso come se fosse la migliore consolazione da quando non riesco a perdonarmi i miei eccessi di ingenuità. Pensa che oggi
le ho dedicato un commento sull’huffington post che è arrivato a 110 like! Paradossalmente non sono sola.

Dieci anni esatti. Gli stessi che sto su fb, grazie al quale mi è più facile seguire la mia traiettoria proprio come la traccia lasciata da una lumachina che procede lenta ma inesorabile. È davvero molto comodo ripassare i ricordi così: foto, pensieri scemi, repost di articoli del tempo, arrabbiature , faccende buffe...un meltin’’ pot piuttosto efficace per ricostruire il mio spirito di quel tempo. Un percorso tutto sommato fedele quando si usano i social con la mia stessa costanza un po’ ottusa.
Non ho mai parlato di uomini già sposati o impegnati che confessavano di esserlo giusto un po’ in ritardo col candore di chi vorrebbe dirti “eh, ma mica me lo avevi chiesto”. E anche allora in fondo che problema c’era...se non cerchi marito e non vuoi riprodurti, che problema c’è. In effetti non fa una piega. Non ne ho mai parlato...ma riconosco le mie sottotracce e questo vale come promemoria corredato dalla dignità e dalla discrezione.

Dieci anni esatti. Sempre nello stesso ufficio e adesso il mio collega di stanza va in pensione.
All’inizio litigavamo sempre perché io lo trovavo un bigotto integralista davvero intollerabile. Poi ad un certo punto ho smesso. Ho capito che nessuno dei due avrebbe cambiato idea da quei litigi e così, per tutti questi ultimi anni, non abbiamo mai più  litigato e siamo stati sempre in armonia e in pace. E quando ci penso mi viene sempre in mente l’incipit di “velluto blu”...

Dieci anni esatti. Tutto soltanto per arrivare a questi ultimi due giorni perfetti. Volevo soltanto correre, leggere, mangiare molto bene, vedere per ore la mia serie preferita del momento e poi una casa perfettamente pulita e in ordine.
Ho impiegato un sacco di tempo solo per godermi esattamente questa cosa qui.
A Napoli, quando si tarda a fare gli auguri per le feste che verranno si dice una cosa assurda e apparentemente priva di significato come “buone feste fatte”. Se penso alle mie feste appena fatte credo proprio di starci dentro perfettamente.
Sono stata proprio brava. Quasi quanto quella lumachina che si porta sempre dietro la sua casa. E senza mai smettere di lasciare la sua traccia





venerdì 20 dicembre 2019

Io non ti conosco. Ma un po’ lo so chi sei

La metro rossa in questo periodo è una cosa davvero difficile da descrivere. Ero pronta alla folla oceanica, alla mancanza d’aria, alle micro risse da inevitabile intolleranza da eccesso di vicinanza, anche perché ormai sarebbe sciocco da parte mia sorprendermi ancora per questo carico di disagio legato ad una fase ciclica tanto prevedibile come questa. E così ho approfittato di quel tempo carico di mestizia per fare una cosa: recuperare ad ogni costo quel vecchio post. Sì, assolutamente. Come lo avevo intitolato? Quando lo avevo scritto? E perché all’epoca fui spinta così fortemente a parlare proprio di lui? Ma certo! Trovato. Era il 27 gennaio 2018.
Procederò per ordine. Premessa. Io sono una persona timida, pure quando faccio la disinvolta, anzi, soprattutto allora. Per questo odio la parte del mio lavoro che prevede il contatto col pubblico. Ma mi tocca e così per due volte a settimana sono costretta a stare giù allo sportello per quattro ore di fila. In questo periodo, che sono tutti in ferie, i due giorni diventano più o meno tutti i giorni. Per me è sempre una vera tortura e questo nonostante riceva spessissimo, e inopinatamente, complimenti per la mia calma, il sorriso, la pacatezza, la dolcezza...si sbagliano. Ma tant’è: mi godo una percezione altrui di me che io stessa non so spiegarmi. Vengo alla storia.

Mercoledi scorso. Si siede un intermediario per registrare degli atti e, prendendo a pretesto le ferie che nessuno di noi due farà per il Natale, ha cominciato a parlarmi delle sei volte che è stato in Perù e che però non è mai stato a Napoli e neppure a Firenze, che vorrebbe andare da Michele a mangiare la pizza più buona di Napoli, ma che in fondo anche Pizzium qui a Milano è un’ottima alternativa.
- Oh no, devi assolutamente rimediare. Napoli negli ultimi anni è diventata molto bella
-Certo, lo immagino. Ci andrò di certo. Il fatto è che conosco così bene il Perù solo perché la mia ex moglie viene da lì 
(Oh ma certo! Ora mi ricordo di lui. Mi parlò della sua storia tormentata di separazione, di una figlia che è morta, delle battaglie legali per l’affidamento del figlio, del judo a livello agonistico...ma certo
è lui! L’unico sconosciuto a cui abbia dedicato un mio post l’anno scorso. Non so neppure come si chiama. Chissà se si ricorda di me o mi sta dicendo queste cose pensando davvero che io non le sappia già)
-Il mio viaggio del cuore rimane quello in India, ma non perché sia tornata cambiata. È stato lì che ho
capito che la democrazia basata su una forma di sottomissione religiosa può essere deplorevole quanto quella americana basata sulla sottomissione al consumo illimitato
-Vero. Ma io per l’india non sono ancora pronto
Abbiamo continuato a chiacchierare di cose del tipo che aveva perso venti chili (ecco perché non l’ho subito riconosciuto!), del judo (eh si ora ricordo tutto) come secondo sport più faticoso al mondo anche se sembra totalmente statico e poi di altre cose che non ricordo ma per cui sorridevo mentre gli sbrigavo le pratiche per cui mi stava seduto di fronte. Gli ho detto che a febbraio andrò in Islanda e che mi auguro di vedere l’aurora boreale. Lui mi ha detto che è un’ottima idea. Poi ci siamo salutati e abbiamo sorriso. Non saprò mai se anche lui si sia ricordato di me mentre si chiacchierava.

Oggi 
-Ben ritrovato! 
- Ciao!
-Allora? Nel fine settimana hai stabilito una meta diversa dal Perù verso cui indirizzarti?
-Ma figurati io col Sud America ho chiuso. Però ti devo portare una cosa. Lunedì ci sarai?
-Ahimè sì. A Natale sono una tappabuchi per gli sportelli
-Allora ti porto delle foglie di coca
-Cosa!?!?
-Ma no! È del tutto legale. Serve per fare il mate. Vedrai. Quello che trovi nei supermercati non è la stessa cosa
- uh, allora grazie
-Allora chiedo di te e te la porto. Come ti chiami?
(guarda il timbro sull’atto). Lucia. Ok, ci vediamo lunedì

Era il 27 gennaio del 2018 e io scrivevo un post su una persona di cui non conoscevo neppure il nome e che pensavo che non avrei mai più rivisto. Se lunedì prossimo si ricorderà davvero di portarmi la coca per il mate saprò di non aver fatto male a dar tutto questo peso ad una persona con cui, in fondo,  ho condiviso giusto una manciata di minuti. Che spesso è proprio quello che basta per capire tutto.


venerdì 13 dicembre 2019

Venerdì 13. O del come farsi luce

Oggi è il mio onomastico. Mi dicono essere anche il giorno più corto dell’anno, credo perché fa buio molto presto. È curioso perché il 13 è pure il giorno in cui, ad agosto, compio gli anni, ma stavolta nel giorno più lungo dell’anno. Più precisamente, il giorno con più ore di luce. Io mi chiamo Lucia. E in qualche modo mi pare tutto estremamente sensato nella sua ovvia e indifferente casualità. Non ho preparato torte in mio “nome”, ho lavorato e parlato con troppe persone, ho visto un film di cui non saprei dire nulla, mangiato una roba vegana di cui non indovinerei neppure un ingrediente. È stata una buona giornata. A me l’aria natalizia milanese, soprattutto se attraverso certe strade con le lucine che mi incantano fino a farmi perdere la messa a fuoco, rilassa e pacifica. Sono anni che per me il Natale non esiste in quanto festa in famiglia e obblighi di reciproco scambio di beni. Sono anni che faccio di questo tempo un’occasione irripetibile per starmene in modalità gatto acciambellato, che vuol dire silenzio, fatti miei, riposo tendente all’ozio, si spera, creativo.

Qualche giorno fa mi ha contattato un mio amico di vecchissima data per delle problematiche relative ad una questione terribilmente spiacevole. È stata l’occasione per ricordare tantissimi episodi che ci hanno visto assieme alle prese con gli esami all’università. Credo di dovergli moltissimo. Tra i due, l’inguaribile ottimista era sempre lui: sopportava il mio sconforto per quegli argomenti che trovavo così ostici, le difficoltà ad affrontare gli esami, i nostri reciproci fidanzati improbabili...che anni assurdi. Che bello averlo risentito nonostante lo spiacevolissimo pretesto. Ad un certo punto gli ho detto, per consolarlo, che ero sempre stata io quella pessimista e ansiosa. Non lui. Perciò in un’ipotetica esortazione alla continuità dei ruoli, ho fatto in modo che ritornasse a ricoprire quello suo di più di venti anni fa. E lui mi ha detto che era bello da parte mia.
Non ci si perde mai davvero quando certi percorsi comuni, anche minimi, hanno significato qualcosa.

Nei miei propositi di quest’anno c’era anche quello di vedere tanti film e posso dire che la mia
missione si è più che decentemente compiuta. Sono giorni che tento una classifica ma mi risulta davvero difficile. E così ho pensato di fissare le mie preferenze non in base ad un criterio assoluto di gradimento quanto ad un ricordo o uno stato d’animo ad esso associato. E così i film del 2019 che ho voglia di portarmi dentro sono questi:
1) Dolor y gloria.
Visto due volte. La prima, doppiato, col mio papà che non ama affatto il cinema e che per questo film disse “proprio bello” lasciandomi di stucco ma molto contenta. La seconda volta, da sola, in lingua originale, in un piccolo cinema che amo alla follia. La sala era vuota e io ero completamente incantata dalla recitazione, dalla storia, dalla magnificenza di dettagli e colori che corrispondono esattamente a certa estetica che mi cattura. Un film indimenticabile
2) Parasite. 
Sono entrata in sala con tutto il carico di curiosità accumulato da giorni in cui leggevo recensioni
appassionate e in preda ad ogni esaltazione mistica. Quel tempo trascorso a ricevere delle esatte
conferme mi è parso non essere davvero passato. Un film ipnotico che ha segnato una svolta nel mio modo di concepire l’idea di spettatore

3) C’era una volta...a Hollywood.
Ero in pausa pranzo, ero molto stanca. Avevo sentito voci discordanti su questo film. Ma Tarantino te lo vedi a prescindere, pure se poi devi rientrare in ufficio e farti prendere a botte dalla realtà. Anzi, a maggior ragione. Ricordo di essere rientrata in ufficio e che mi pareva diverso. Ma ero io ad esserlo. Ricordo che in quel giorno ho avuto l’esatta percezione del potere curativo, rigenerativo e stabilizzatore che ha su di me un buon film. Gratitudine

I prossimi sono i film che ho amato perché ero con amici che mi sono molto cari, o perché incarnano tutto un sistema di valori che mi riguardano completamente e mi fanno pensare al futuro come un luogo possibile. E poi ci sono quelli che parlano di famiglie estremamente disfunzionali o di una
società sfilacciata e allo sbando. Tutte cose in cui io sguazzo molto allegramente. E questi film mi hanno generosamente assecondato. E allora potrei citare, in ordine casuale di preferenza:
- Glass
- La fattoria dei nostri sogni
- La vita invisibile di Euridice Gusmao
- Burning
- Ema
- J’accuse 
- Martin Eden
- La mafia non è più quella di una volta
- Tony story 4
- Il sindaco del rione sanità

Bene. Direi che ormai anche quest’anno ce lo siamo levati dal...e se ci penso bene vedo tanta luce proprio  col buio.  Meglio se in sala. Che importanza vuoi che abbia un  venerdì 13 che si propone come il giorno  più corto dell’anno, se ti chiami Lucia e ami pure il buio?


giovedì 5 dicembre 2019

A proposito dei propositi

Quante saranno ormai? Forse migliaia. Le volte in cui ho fatto questo tratto per arrivare a casa ne hanno fatto ormai  il tratto di strada più familiare che ho. Stasera il 45 non passava mai e la metro di S. Donato dopo le 9 di sera è davvero un bruttissimo posto. Non mi fa paura ma lo squallore del contesto è quello tipico delle stazioni metro che fanno anche capolinea, contornate da depositi di autobus, parcheggi enormi, campagna desolata, emarginati, ubriachi...ci sono abituata ormai. Le cinque fermate che mi separano da casa attraversano una strada molto isolata che ho sempre amato moltissimo: tutte le volte mi incanto a guardare dal finestrino uno scenario che si trasforma ad ogni cambio di stagione. Il mio papà, quando viene a trovarmi, mi dice sempre la stessa cosa “Ma come fai a stare qui? Non ti pare un postaccio tremendo?”. Non capirà mai. In questi dieci anni non ho mai desiderato di vivere altrove (tranne quando ho avuto un esercito di vandali al piano di sopra per alcuni mesi. Sono andati via il giorno che avrei dovuto vedere le case nuove in bicocca che ero decisissima a comprare pur di ritrovare il silenzio). Amo questo quartiere e questa piccola casa grazie alla quale ho realizzato il mio sogno di vivere in una specie di bottiglia di “Strega per amore”.

Sono a Milano perché è qui che ho un lavoro che avrebbe assecondato il mio bisogno di stabilità economica, è qui che ho comprato la mia prima casa, trovato un po’ di pace e impreziosito il mio tempo con quello che solo questo posto può offrire. So che un giorno forse tornerò davvero da dove son venuta. E che questo per me sarà un vero trauma. Ma per ora non voglio neppure pensarci.

Oggi ho deciso che non mi sottrarrò al momento di bilanci che dicembre impone come un esattore di propositi raggiunti da spuntare dalla lista di dodici mesi prima. Ricordo che ero stata molto attenta a non fare un elenco troppo lungo, a non eccedere in self-confidence, a trovare il mio ritmo interiore. E poi ad ammettere ambizioni di più lungo termine. E così ho pensato che ad ogni post, da oggi fino a fine anno, includerò uno, o più di un proposito raggiunto o meno. Parto dal primo: essere più inclusiva e meno solitaria. Star sola rimane la mia cifra esistenziale privilegiata e non ho mai pensato che sia un
fatto sbagliato. Ma frequentare poco mi impoverisce spiritualmente, mi preclude affetti e punti di vista differenti. E questo non è bene. Piaccia o no.

In tv c’è la Dandini. I suoi programmi sono uguali a quelli che faceva quando io ero adolescente e la guardavo mentre provavo a dare senso compiuto alle versioni di latino. All’epoca ero molto più sola di adesso, non sapevo proprio cosa fare di quell’eta assurda e avevo paura di tutto. Credo che questo ancora me lo porto addosso come marchio indelebile: forse è per questo che una volta una persona che frequentavo ad un certo  punto mi chiese “Lucia, ma come è stata la tua infanzia?” Chissà perché me lo chiese...in realtà è una domanda che mi hanno fatto più volte declinandola in tanti modi...chissà.

È stato un anno bello. Mi è sembrato non più lungo ma dilatato. Credo di aver sorriso molto più di un tempo. Di certo ho pianto meno. Ho alternato la tranquillità delle cose stabili e assodate
all’imprevisto di emozioni sorprendenti. Mi illudo più di prima, ma ormai so bene di farlo e neppure trovo sensato vedere esaudito ogni mio slancio. Nei miei propositi non c’era la felicità e neppure quel il suo surrogato assurdo non meglio definito di serenità. È troppo presto e sono cose che non sento di meritare ancora. E poi impigriscono e io non ho chiuso tutti i conti con quella adolescente inquieta che ho lasciato in silenzio laggiù. Forse dovrei riaprirli. Anzi, già che ci sono metto questo fin da ora fra i miei migliori propositi.

lunedì 2 dicembre 2019

“Post” ideologico (e commemorativo)

Che poi io lo so che mi toccherà farci i conti pure stavolta. Tanto più se mi rendo conto che mi fa sempre più piacere ritornare a quella volta per vedere l’effetto che fa al passare degli anni. È uno dei miei appuntamenti fissi col ricordo e con il misterioso potere terapeutico del tempo, che risolve quasi tutto, se si ha la pazienza e l’umiltà di lasciarlo fare. In questo momento sono seduta su una sedia che tengo attaccata al termosifone, alle spalle lascio una bella giornata di lavoro, di spesa al supermercato di cibi sani, uno dei miei corsi di cinema per cui ho ormai da tempo sviluppato una gioiosa dipendenza. È molto tardi, quasi l’una di notte e qui fuori c’è un micio che miagola alla luna (o forse soltanto ad una ciotola vuota). E io in questa situazione mi sento perfettamente in pace.
Un po’ di anni fa invece ero seduta su questa stessa sedia, persino il termosifone era acceso proprio come adesso, solo che non uscivo da tre giorni, non mangiavo quasi nulla e piangevo tutte le mie lacrime. Da allora ogni anno mi viene spontaneo onorare quei giorni, quel cuore, spezzato per ragioni che neppure ormai ricordo più, e quelle sensazioni a cui ho giurato a me stessa che non avrei mai più fatto nessuna concessione. Così è stato. Da allora è cambiato tutto e sono sicura che sia accaduto senza una mia volontà precisa. Però è successo: un bel giorno ho ripreso a sorridere e a dimenticare le ragioni del mio dolore. Una vera fortuna. Non so davvero cosa nel frattempo abbia perso, mi interessa solo aver disattivato dei meccanismi emotivi per preservarmi da vagonate di dolore. E per me questo conta davvero molto. Altro non voglio sapere.

Se non avessi avuto questo impegno solenne con la memoria di qualcosa che ormai è fortunatamente perduta per sempre, avrei scritto un “post” ideologico sul post ideologico (mi aspetto grasse usate su questa mirabilissima trovata lessicale ah...ah...ahhh...). Sì, mi sarei lasciata tentare dalle riflessioni che mi suscitavano le attuali piazze piene di sardine di ogni dimensione/generazione, che paiono presagire una rinascita delle energie sopite della sinistra,  o dall’epica dei giovani ambientalisti che urlano con porzioni multilple di big Mc in mano, o dai riders che portano il sushi nelle case di gente che non ha più voglia neppure di farsi un uovo o uscire per una pizza.

Mi sarei immaginata solita spettatrice spaesata di un mondo diviso tra chi sta in piazza incazzato nero, spesso senza spiegare davvero bene il perché, e chi rimane in casa a spaccarsi di serie in streaming e non ha neppure voglia di andare a buttare la spazzatura.
Perché poi lo so che alla fine io faccio così: quando esco e vado in piazza è per vedere perché c’è così tanta gente che urla tutta insieme cose che io non ho mai davvero saputo ripetere. Quando sto in casa passo pure io tutto il tempo a vedere le serie, però nel frattempo cucino per un intero esercito. E così non vale...no che non vale...
Forse è per questo che poi quello che mi piace fare più di tutto è ancora sedermi in un Mc Donald, fare colazione con il cornetto e il cappuccino, tra l’altro entrambi prodotti da industrie italiane, e che mi diverto ancora ad ancora alzarmi e pulirmi da sola il vassoio, sebbene ormai anche lì ci sia il servizio al tavolo, che ai miei occhi è la nota più stonata delle nuove offerte di servizi.
Io, nel mio Mc Donald con vista sul Duomo, costruisco la mia vera esperienza collettiva. E questa per me è a modo suo una forma nobile di socialismo.

Il capitalismo è così: pare malvagio. E spessissimo lo è. Poi però nessuno riesce ancora davvero a capire come farne a meno...se non sei abbastanza benestante da andare a mangiare a Eataly e gridare potere al popolo tra una pizza ai cereali antichi da quindici euro e una zuppa ai legumi dei germogli dell’antica Papuasia. Quando voti da una vita intera a sinistra e non ne hai mai tratto nessun appagamento, quando pensi che in un mondo ideale il profitto può esistere senza essere colpevole se è generato dalla creazione di un valore e non da una forma di sfruttamento, quando pensi che un’economia sana dovrebbe essere soltanto di tipo misto, con un modello di produzione privato efficiente  e un regolatore pubblico di redistribuzione...poi è normale che ti pare più utile metterti a commemorare quella volta che avevi il cuore completamente spezzato. Ma per quello mi è bastato il tempo.
Per il “post”ideologico forse il semplice passare del tempo per risolvere un problema potrebbe servire solo ad aggravarlo. Mah...Ci penserò meglio domani. A colazione. Con cornetto e cappuccino. Meglio se col Duomo di fronte.



sabato 23 novembre 2019

Casa è dove dormo tanto e bene. O no?

Stento quasi a credere che sia stato possibile. E invece è successo davvero. E per ben due volte di seguito.
Ritornare a casa per una manciata di giorni ha ancora il potere di riparametrarmi e dare un freno a dei ritmi che non so come modulare diversamente a Milano, quando sono sempre alle prese con le mie “tegole del contingente”. Quello che però stento a credere è semplicemente questo: riesco a dormire tantissimo. Credo che l’ultima volta che mi sia riuscito di farlo per nove ore di fila avessi cinque mesi. Pare una cosa minima e invece per me è un miracolo di quelli seri per una insonne cronica che non arriva alle quattro o cinque ore di dormita tormentata e interrotta. Questo è quanto mi riesce di fare ormai da tanto tempo lassù al nord. Forse è solo un patto tacito con me stessa: voglio fare troppe cose - assieme a quelle che devo - e siccome ho una capacità organizzativa quanto meno perfettibile, garantirmi più ore possibili di tempo vigile è diventato un fatto necessario. Ma mi stanco sempre di più. Sento che troppe cose mi sfuggono di mano, le tollero meno, mi sento sempre meno all’altezza di tutto. E così stare qui giù a casa, decontestualizzarmi, non vedere l’ufficio e non dovere affrontare una scrivania che non riesco a mettere in ordine (che pare niente e invece è uno dei miei principali drammi esistenziali), prendermi una pausa da questioni che mi sfuggono di mano e da tutto quello che vorrei fare senza riuscire a trovarne la maniera, mi fa dormire bene. Mi pare tutto così lieve quando torno qui per qualche giorno.

Ma ormai non ci casco più. Tornare è una delizia che rimane tale fin quando son sicura che Milano mi richiamerà per tempo al suo ordine. E questo lo accetto perché ancora mi pare giusto. Perché ancora ricordo il motivo per cui ho preferito andar via piuttosto che provare a resistere qui, a cercare una qualche ragione inattaccabile per non andar via. Non mi basta dormire bene un paio giorni per pensare di risvegliarmi in un posto davvero capace di riaccogliermi. Non mi basta neppure pensare
che a Milano c’è ad attendermi un lavoro che non riesco ad amare, in mezzo a persone (non tutte, ma parecchie) che non sceglierei per nessuna ragione al mondo di frequentare, che dormo poco e che la
sera quando rientro tardi ho sempre paura e poi che ho troppe cose da fare e che da sola è bello ma irrimediabilmente faticoso. Eppure so che sentirei ancora moltissimo la mancanza di tutto questo e che il benessere passeggero dei pochi giorni trascorsi in questa casa così grande e comoda sia solo una tentazione ingannevole non prorogabile a lungo. So che, prima o poi, sarò costretta a tornare per tantissime ragioni che poco o nulla hanno a che fare con la leggerezza di una piccola vacanza da ospite privilegiata. Mi pare ancora una cosa così sbagliata. Ma come fanno gli altri “emigranti” ad essere così certi della necessità di tornare là dove sono nati? Perché trovano il fatto così scontato? E perché io invece no? È davvero sufficiente sentire di stare un po’ meglio per un po’ di tempo per esser certi di poter stare davvero bene per sempre? Io lo so che la risposta è quasi certamente no.

Però ho dormito così bene. Ci si abitua così presto a cose come queste. È così facile, in certi posti, smettere di stare svegli...





domenica 17 novembre 2019

Promemoria (delle cose da non ricordare)

È tutto il giorno che ci penso. Forse era solo un modo di dare senso al tempo impiegato in un’attività ingrata come le faccende domestiche. Ma no, in realtà ci penso da una vita e poi periodicamente approfitto di episodi scatenanti per ritornare sulla questione cercando sentieri meno battuti. Tutto è (ri)cominciato con la trasmissione dell’alba di oggi alla radio. È andata così: da qualche settimana viene proposta una rubrica in cui si intervistano, separatamente, i componenti di una coppia che dura da molti anni per capire quale possa essere il segreto degli amori longevi. Le interviste sono centellinate e spalmate su più puntate. Quella di oggi era l’ultima. Il finale lo racconto dopo. Ora mi preme dire un’altra cosa che mi serve per mettere in chiaro un paio di punti.

In uno dei suoi film più belli Woody Allen fa una lista delle cose per cui vale la pena di vivere e così anche io, quando sono molto triste, provo a stilare la mia personale scena di “Manhattan” e a segnare su un foglio tutti gli ottimi motivi per cui stare al mondo sia in ogni caso fantastico. Di solito funziona quasi subito perché mi rendo conto che la lista si allunga molto rapidamente. E così dopo pochi minuti poso la penna e penso che ha senso continuare a credere che “la felicità non è una truffa”, nonostante non abbiamo ancora tutte le prove della sua specchiata onestà.
Ma oggi è stato diverso. Oggi è stato il contrario. Oggi mi sono chiesta cosa metterei in una lista che contenesse le cose per cui NON valga la pena di vivere. Mi sono seduta, ho preso la penna e mi sono concentrata proprio bene. Niente. Non mi veniva in mente niente e mica perché sia preda di chislsà quale euforia entusiastica da Teletubbies...anzi, mi riconosco come sempre persona tendenzialmente tristissima e per nulla ottimista, ma per fortuna queste continuano a non essere delle ragioni sufficienti per non continuare ad affannarmi a pieni polmoni.
All’improvviso mi è venuta in mente. Sì, credo che ci sia in effetti una ragione per cui non valga la pena di vivere. È la sensazione drammatica di aver sprecato il proprio tempo quando ormai è troppo
tardi. Ma persino io non faccio fatica a capire che si tratti di uno di quei paradossi “autoassolutori”
per i quali il rimedio è dato dalla scadenza dei termini di applicazione dello stesso. Come fai a pensare di non voler più vivere per quello che hai ormai già vissuto? Non si torna indietro e farla finita dopo sarebbe solo una beffa ulteriore. A pensarci bene, che razza di guaio. Eppure per me rimane un fatto drammatico. E allora come la metto adesso?

Qualche anno rimasi molto colpita da una lettera che l’astronauta Parmitano aveva scritto alle sue bambine. Le esortava a cimentarsi anche nelle cose che non amavano e che non trovavano divertenti perché è proprio in quelle che si scoprono le cose più sorprendenti anche di se stessi. Credo che il suo intento fosse quello di far comprendere lo stupore che può celarsi nelle cose complicate o meno immediatamente seduttive o che semplicemente non sono in linea con la nostra natura. Una cosa simile stava scritta nell’autobiografia di Agassi, “Open”, che è la storia di uno dei più grandi campioni di tennis del mondo che ha fondato la sua grandezza proprio grazie all’odio profondo per
questo sport. Curioso davvero.. Ricordo che pensai che certe lezioni hanno senso quando si
percepisca il tempo esclusivamente come proiezione in avanti e perciò ammetta come dato anche il fallimento e le sue incognite. Potrei accettarlo. Sì, in fondo questa concezione di un tempo mai davvero perduto quando si procede per tentativi mi convince. Quasi del tutto.

La puntata di stamattina che concludeva quella intervista ai due coniugi di lunghissimo corso raccontava questa cosa qui: i due si erano sposati illibati. Durante il viaggio di nozze lei contrasse una grave infezione alle parti intime che costrinse la coppia a non aver rapporti per molti mesi successivi al matrimonio. Lei ad un certo punto dell’intervista ha raccontato di aver sentito il suo novello sposo, dire a voce bassa,  “era meglio che non mi sposavo” e che fu proprio in quel momento che lei disse a se stessa “dedicherò tutta la mia vita a fargli cambiare idea”. E così ha fatto.
E io non lo so com’è, ma è da stamattina che penso che se dovessi pensare alla sola ragione per cui penserei che non valga la pena di vivere sia una cosa del genere: spendere una vita intera a convincere qualcuno che fa bene ad amarci. E non mi serve a niente neppure sapere che sono felici da. 52 anni. Proprio a niente. Ma in fondo chi l’ha vista mai una lista di cose per cui non valga la pena di vivere. Per fortuna

domenica 10 novembre 2019

Metro. E tu che misura di unità usi?

Se ci penso bene non è poi così grave. Anzi, direi che mi rende persino ragione di una convinzione che cerca inutilmente smentite. Tutto è cominciato dalla metro. Da quando non guido più, circa dieci anni, girare per Milano per me significa coprire lunghissime distanze a piedi, con autobus che cerco di usare con parsimonia perché attendere alla pensilina significa condividere lo spazio con qualcuno che mi fuma accanto, la metro che detesto perché mi pare una discesa agli inferi, non prende la radio e mi impedisce di godermi la morfologia mutevole dei quartieri che attraverso. Ma tutto questo disagio mi appare nulla rispetto a tutto il tempo di vita che ho risparmiato nella non ricerca di parcheggio. Se mai dovessi tornare al mio paesello di sicuro riprenderei a guidare e a ricordare con struggimento i bei tempi nella linea gialla che in dieci minuti mi portava da casa mia (periferia estrema a sud di Milano) a piazza Duomo. Ed è per questo che la metro, nonostante il disagio che mi procura, rimane il mio “luogo comune”, capace di contenerne a sua volta tanti altri. Come i manifesti di “Tinder” sulla bellezza di essere single, che poi è in realtà un’affermazione tutt’altro che comune.
Ricordo che la prima volta che ne ho visto uno mi sono chiesta il motivo per cui non spingessero sull’idea che fosse un sito per persone che non hanno intenzione di essere sole e che vogliono incontrare qualcuno proprio perché single, secondo un’accezione comune atavica, non è bello. Poi ho sorriso, forse perché confortata dal fatto che quella dello star soli può davvero essere una condizione auspicabile e non dettata da ragioni come la sfortuna, un brutto carattere, caratteristiche estetiche non in linea con i canoni o per insufficienti occasioni di incontri efficaci. Tinder risponde piuttosto all’esigenza di moltiplicare l’occasione di conoscersi facilitati da un metodo molto rapido e potente di trovare persone che ci assomiglino e che scegliamo, non perché siamo dei disperati che nessuno vuole. È proprio cambiata l’ottica. Star soli perché autonomi, risolti o semplicemente nella fiduciosa attesa dell’incontro giusto a tempo debito è finalmente qualcosa di socialmente accettato e anzi addirittura figo. Che bello, sapevo che prima o poi qualcuno mi avrebbe capito.

Non ho mai usato Tinder nè nessun altro sito del genere. Resto ferma sull’idea che l’incontro della
vita non vada cercato con metodo ma debba capitare e che questo avvenga soltanto quando riusciamo a diventare esattamente ciò che ci è dato di essere come individui. Altrimenti il rischio è assestarsi su cose che passano, incontri anche belli, divertenti, formativi, interessanti, passionali...ma passano. Inevitabilmente.

Credo che sia sbagliato definirsi single soltanto per scelta o per disgrazia. Si può esserlo anche per decisione, quella presa quando capisci che le strategie di seduzione valgono per il tempo della conquista e poi si svuotano per obiettivo ormai raggiunto, o quando ti rendi conto che i “vediamo come va” sono una base di partenza già cosi fragile che ti andrebbe di stringergli la mano e dirgli che quella che è appena passata fa più al caso suo di te. E soprattutto che la solitudine è una condizione necessaria per crescere e non una cosa di cui avere timore.

Ieri ho visto un film che mi ha un po’ affaticato. Si intitola “La belle Epoque” e parla di un uomo sposato da molti anni con una donna, che pare non amarlo più, che rivive il giorno in cui si è
innamorato di lei per ricordare che cosa ha provato e perché è accaduto. L’idea mi è sembrata bella, il film è scritto bene eppure io non ho ben capito che intenzione avesse veramente, visto che alla fine non mi è chiaro se per far perdurare un amore sia necessario il ricordo di ciò che lo ha generato, oppure ritornare a quello che si era quando è nato, oppure se sono necessarie le condizioni storiche che lo hanno favorito, se è una mera suggestione ma in realtà ciò che è stato non può continuare ad essere nella stessa forma delle origini. Oppure se il protagonista in realtà non si sta rinnamorando di sua moglie ma della donna che lo sta aiutando a ricordarla, che è giovane, bella, affascinante...ma un’altra donna. Non l’ho capito e questo per me è già una risposta sufficiente sulla questione.

Di certo tra poco uscirò e prenderò la metro. Mi soffermerò su quei volti giovani e sorridenti. E penserò che hanno ragione loro. Poi, come quasi tutti, passeranno al torto




sabato 2 novembre 2019

Di post in post (ex ante vs ex post)

Ogni tanto mi lascio tentare. Quando mi capita fingo di pentirmene e di ripetermi che non ha senso ripescare nel passato e costatare quanto, in questi anni, abbia riscritto le mie certezze senza mai ammettere che si trattasse di “incoerenza di convenienza”. Ho riletto un post dei primi di novembre nel quale dicevo di aver riletto un post di un anno prima e non potevo non ridere di questa mia ossessione per ciò  che è stato, anche perché non sono una malinconica, non vorrei tornare indietro neppure di un secondo per rivivere un momento già esistito o modificarne gli esiti. Invecchiare mi piace, e questo nonostante  mi ostini a vestire come una ragazzina, a trovare molto più interessanti quelli più giovani di me, anche se continuo a pensare che sono stata proprio come volevo essere solo nel breve tratto di esistenza in cui ho avuto trent’anni. Non è questo il punto. Io guardo al passato soltanto per capire perché sentivo le cose proprio in quella maniera, perché ho creduto così fermamente a certi miei stati d’animo, sentimenti, modi di pensare...e oggi, invece, quasi niente mi appare sensato.

Ho vissuto senza tv per otto anni senza mai avvertirne la mancanza e pensando che non sarebbe mai ritornata in casa mia. Non è stato così. Sono due anni che me la ritrovo in casa, eppure rimane accesa solo per blob o il venerdì sera per propaganda live Sono stata vegetariana per un numero incalcolabile di anni. Lo sono anche adesso, ma due o tre volte l’anno ho necessità di mangiare pesce altrimenti i miei valori non si sistemano. Ho adorato persone di cui pensavo di non volere, o potere, mai fare a meno e invece è successo che, pur non odiandole per nulla, non facciano più parte della mia vita e io sono ancora qui, addirittura tutta intera. Non ho rimpianti, non mi sento una banderuola solo perché ho cambiato punti di vista, sentimenti e sensazioni. Riesco a dare ragione di questi cambiamenti e credo che il punto sia proprio questo: alla fine riesci a darti una spiegazione del perché tutto doveva andare proprio così e mi pare che questo sia un modo proprio sano di evolversi. Poi ci sono pure i punti fermi che nella gara col tempo potrò, giocoforza, soltanto confermare. Per esempio so per certo
che sarei stata una cattiva madre e che in fondo sia stato un bene non aver avuto l’occasione di tentare di dimostrare il contrario. Ci sono questioni per cui l'esperienza può non costituire l’approccio dimostrativo più efficace.

Ho passato due giorni a fagocitare serie tv. Pure questo avevo giurato che non sarebbe mai successo, accompagnata sempre dalla convinzione che la sala sarebbe stata la mia sola modalità di fruizione di film e che le serie macinate su un tablet non avrebbero mai meritato le mie serate sul divano davanti alla piadina e alla mela già sbucciata. E invece è esattamente quello che faccio da poco più di un mese a questa parte. Del resto a cinema non faccio che dire di spegnere il telefono e di rammaricarmi per tutte le interruzioni indebite di emozioni da parte di un pubblico sempre meno composto. Lo ha detto pure Scorsese: i film si possono vedere ovunque, basta che siano belli. Mi salvo...ma con riserva stavolta.

È così, sono cambiata e lascio che tutto intorno a me lo faccia. Assecondo i tempi che forse la sanno
 più lunga di chiunque altro. Poi, nella sostanza, faccio le stesse cose, mi affeziono nella stessa
maniera e ho la mia solita maniera da emisfero destro dominante di ordinare i pensieri . È solo che prima se ne stavano ferme. Adesso si muovono. E mentre lo fanno passano da un post all’altro. E io, finché loro lo vorranno, ce le porterò.

venerdì 25 ottobre 2019

Dove ero rimasta? Forse lì dove devo andare

Non mi sono mai chiesta se mi piacesse viaggiare oppure no. So solo che ad un certo punto ho cominciato. Ho fatto il passaporto, ho comprato un volo per l’India assieme a un tour con una guida locale e da allora ho preso a gironzolare con una certa regolarità. Un viaggio extra comunitario all’anno. Così per cinque o sei anni e senza mai chiedermi se ne avessi davvero voglia o quanto mi sarei divertita. Pensavo semplicemente, o forse semplicisticamente, che fosse una cosa da fare: vedere luoghi e persone profondamente diversi da me, confrontarmi con problematiche che non esisterebbero neppure se me ne stessi a casa mia, rinunciare ai ritmi soliti della mia quotidianità stanziale. E poi gestire la difficoltà della comunicazione, osservare nuovi modelli sociali e provare adeguarsi ad essi, imitarne qualche aspetto...cose così, che non saprei se definire veramente divertenti o dettate da spinte motivazionali differenti. Quello che so per certo è che ho sempre pensato che viaggiare fosse la prima cosa da fare appena possibile e nonostante il fatto che il mio viaggio del cuore si ostini ad essere il primo, fatto in solitaria, verso l’Inghilterra, quando mi trovai a pregare in ginocchio di essere ammessa ad un master per cui avrei dovuto pagare 9000 sterline e mi dissero di no perché il mio TOEFL aveva un punteggio di pochissimi centesimi inferiori a quanto richiesto. Nonostante questo sono rimasta pervicacemente anglofila e quel mese trascorso lì, trovandomi persino un assurdo piccolo lavoro in una zona pericolosissima di Londra, rimane una delle cose più avventurose e magnifiche della mia vita.

Una volta, alla radio, sentii dire ad una signora che aveva viaggiato il mondo col marito, da cui poi si era separata, che secondo lei viaggiare era stata una gravissima perdita di tempo e che ormai da molti anni non ne sentiva più il bisogno. Sosteneva che tutto quanto ci sia da sapere di popoli e luoghi lo si possa fare anche semplicemente studiando e cercando fonti alternative di conoscenza degli usi e costumi di altri popoli. Può bastare anche un documentario ben fatto. Per lei era molto più interessante la riflessione, il percorso interiore, l’ascolto di se stessi come metro principale di
coscienza del mondo e di noi in esso. Credo che in fondo non avesse torto. Ma avere
ragione qualche volta può non essere sufficiente. Viaggiare risponde alla necessità di
“portarsi altrove” perché forse è nel tempo dilatato di un passaggio attraverso lo spazio che si stabiliscono nuove coordinate interiori. O forse si capisce davvero quanto sia inutile
farlo soltanto dopo che lo si è fatto molto. Non lo so, me lo chiedo tutte le volte che credo di voler fare un viaggio, o anche una semplice vacanza, e una parte di me si ripete “ma chi me lo fa fare? Sto così bene a casa mia, in mezzo alle mie cose sempre uguali che non mi danno mai problemi. Che male c’è a starsene in questa pace in fondo?”. Non me lo fa fare nessuno ed è vero che starmene a casa mi piace sempre di più. Mentre scrivo questa cosa qui sta passando un pezzo di Levante. Ad un certo punto dice che è un “grave smarrimento rimanere fermi”. Ecco, lo sapevo. Tutte le volte che assecondo i miei “ma sì, basta così, lasciamo perdere e stiamocene tranquilli” succede sempre qualcosa che mi dice che non è ancora il momento di fare quello che penso  e che ho davvero tanta voglia di vedere l'Islanda. E che ci devo andare. E che infatti ci andrò

lunedì 21 ottobre 2019

Equilibri(sm)o psicologico

Credo che funzionerà sempre così. Che io funzionerò sempre così. Fino alla fine dei miei giorni mi barcamenerò tra l’adesione fideistica alla disciplina, intesa come metodo e continuità perseguiti con una pervicacia ottusa, e un comportamento così “sbrodolone” da farmi pensare che solo un pietoso angelo custode riesca salvarmi dalle trappole dell’esistenza per consentirmi di sopravvivere a me stessa. A corollario di tutto questo c’è l’idea che questo sia il solo modo sensato per me di stare al mondo. E finché cocciutaggine e provvidenza saranno dalla mia parte io vado avanti così.

Sto usando i miei ultimi giorni di ferie dell’anno per sistemare un po’ di cose di ordine pratico, provare a riposare un po’ e recuperare qualche film che non avrei scelto se avessi avuto meno tempo a disposizione. Ieri mi sono imbattuta in un documentario sul metodo terapeutico di Jodorowsky: un connubio tra psicoanalisi e pratiche rituali estremamente ardite (tipo fare un dipinto col sangue del mestruo, farsi sotterrare simulando il proprio funerale, aiutare un balbuziente a guarire vestendolo da marinaretto per poi tenerlo a battesimo come adulto virile cospargendolo di vernice dorata e sangue, far camminare camminare una coppia in crisi in strada con delle catene per dimostrare che una relazione è ormai arrivata al capolinea...) che hanno ottenuto, sui pazienti intervistati, dei risultati a dir poco sorprendenti. La logica che anima questo percorso sta nell’idea che siamo noi a dover codificare l’inconscio e non il contrario e che la vera guarigione da un trauma debba passare attraverso una qualche forma di amore universale. Io sospendo ogni giudizio ma, comunque la si pensi, sforzarsi di sviluppare un pensiero laterale rimane una forma di apertura estremamente utile. Io resto “illuminista”, in realtà non credo neppure nel valore terapeutico della psicoanalisi perché non riconosco in questo il suo vero scopo. Ciò che si propone la “Psicomagia” di Jodorowsky, è quello di proporsi come un metodo, a metà tra la psicoanalisi, appunto, l’arte e pratiche rituali catartiche che coinvolgono il corpo e le sue risorse inespresse. Alla base di tutto c’è la convinzione che il lavoro sull’individuo sia solo una parte di un modello culturale basato sull’amore universale.
Sì...tutto molto bello...

Io non mi sono mai chiesta se sono o meno il prodotto di traumi di cui ho rimosso la natura e il ricordo o semplicemente il frutto di qualcosa di innato, se delle “strozzature” esistenziali mi hanno reso altro da ciò che avrei voluto o se mi è piaciuto diventare proprio così come sono. Forse non ho neppure voglia di saperlo e in fondo mi vado benino anche così come, probabilmente, “non” dovrei essere. Forse mi basta il malumore di un periodo che so che passerà e la mera accettazione di tutto quello che non posso controllare, mi bastano i miei meccanismi di autodifesa automatici, l’accettazione di una certa soglia di dolore, il rifiuto e la delusione come fatti della vita assieme alla convinzione che poi si trasformeranno in sensazioni sopportabili. A volte la faccio ancora più facile e mi dico che la vera terapia siano un po’ di sport praticato sempre (pare che i miei ormoni della felicità  arrivino solo così) e riuscire a non far caso ad un sacco di cose. Io ho risolto con la terapia della “disciplina sbrodolona”. Almeno fino a che la salute, e un angelo custode assai paziente, me lo lasceranno fare...




lunedì 14 ottobre 2019

Flusso di incoscienza per tornare a casa a piedi

Stasera ho un po’ più freddo del solito, ma qui in casa c’è un bel silenzio e io non ho molta voglia di lasciare questo divano per un letto che mi terrebbe sveglia ancora per troppo tempo. È stata una giornata un po’ faticosa ma nella quale mi sono ritagliata un tempo piuttosto lungo per camminare e lasciare che il pensiero accompagnasse i passi conservando la sua andatura autonoma, che nel mio caso significa saltellare tra le più svariate questioni senza una logica apparente. Se dovessi pensare ad uno stato di grazia direi che è più o meno questo: io che cammino con le cuffie mentre penso ai fatti miei e che mi rendo conto troppo tardi che durante il tragitto ho assunto ogni espressione possibile legata a ciascun pensiero.

Non c’è affanno, dilemma esistenziale, delusione, dubbio che non abbia risolto camminando quasi fino a sfinirmi. Credo che sia una questione collegata al respiro, ai muscoli coinvolti e al fatto che, essendo un movimento automatico, si possa pensare a tutt’altro. E questa cosa mi pare tanto più strana se penso che ormai si possa, apparentemente, fare tutto senza la necessità di spostarsi dal posto in cui si è: basta un comando vocale e possiamo sperare di essere esauditi anche perché la luce in casa si accenda da sola, cercare su internet e scrivere un articolo scientifico, sfogliare le proposte di incontro più affini per trovare l’amore di una sera o anche di tutta la vita. Ormai potremmo risolvere tutta la nostra vita standocene seduti  o sdraiati.

E invece io cammino tutte le volte che posso e penso a quando per scrivere la mia tesi mi toccava andare in giro per le biblioteche delle altre università e fare gli occhi dolci al bibliotecario per procurarmi dei dati che all’epoca erano più preziosi del Graal, ma che oggi troverei gratis su qualunque piattaforma. Cosa significa essere ricercatore oggi? Me lo chiedo pensando ancora a questo lavoro come ad un’attività sì intellettuale, ma anche profondamente fisica, fatta di spostamenti in altri luoghi fisici della conoscenza, confronti con altre persone che non possono ridursi a delle
video conferenze. Oppure la mia è una visione già troppo arcaica? Forse tutta questa informazione senza nessuno sforzo davvero ormai vanifica anni e anni di tentativi dal rendimento incerto...boh...

 Poi ho continuato a camminare e mi è tornato in mente un vecchio amico con cui andavo a cinema tutti i pomeriggi e che un bel giorno mi scrisse dicendomi che mi avrebbe bloccato su fb perché era troppo geloso dei like che mi mettevano gli altri e che io mettevo a loro. In quel momento credo di aver fatto l’espressione basita delle mucche che guardano i treni passare. Ora forse posso capire cosa intendesse, ma fb non ha la colpa per sentimenti che si provano, o che non si provano. E così ho continuato a camminare.
Ho ripensato al film che ho visto ieri. Ne avevo un po’ di timore perché è il seguito di “Un uomo, una donna”, uno dei miei amatissimi da sempre. Invece mi ha molto intenerito, così come mi inteneriscono i ricordi che affiorano mentre si coprono distanze che ne modificano la prospettiva a seconda del punto in cui vengono evocati . Credo di aver pensato proprio questo ad un certo punto
della mia strada verso casa, perché mi sono ricordata di quella volta che, esattamente in quello stesso punto, qualcuno che adoravo mi disse “mi dà fastidio quando parli bene degli altri” e la trovai una cosa dolcissima e buffa come solo la gelosia qualche volta sa essere.
Anche io sono stata molto gelosa, forse lo sono ancora, ma è una condizione che mi fa così soffrire che ho imparato a risolverla nella sola maniera possibile: quella di pensare che tutte le volte che la provo è solo perché mi sto concentrato su qualcuno che non potrà mai essere davvero mio e quello che non è mio non deve riguardarmi. Certe emozioni vanno razionalizzate e poi represse, altrimenti ci annientano.

Poi sono arrivata a casa, in cuffia passava il nuovo bel singolo di Brunori, quello che parla di amore
“al di là dell’amore” e mi è sembrato un tappeto molto indovinato. Ho tolto le cuffie, mi sono seduta
sul divano con l’ipad sulle gambe. E sono rimasta a girovagare per la rete fino a quando il sonno ha
segnato la vera meta della mia giornata. Perché davvero vale tutto. Perché davvero tutto vale.


martedì 8 ottobre 2019

Scelte di consumo obbligato

“C’è una cosa che mi piace fare più di tutto”. Per Moretti sarebbe andare in vespa d’estate attraversando le strade desertiche dei quartieri di Roma. Per me è la spesa al centro commerciale. Credo di averlo detto tante volte: mi piace fare attenzione alle proposte variegate dei prodotti che mi interessano e di cui mi prefiguro l’utilizzo una volta arrivata a casa. Questo detersivo funzionerà? E il suo profumo si sentirà così bene anche dopo che il bucato si sarà asciugato? Le uova bio hanno effettivamente tutto un altro sapore, che importanza ha se costano quasi il doppio..Io me lo ricordo quando non compravo l’insalata già lavata perché così confezionata perde tutte le vitamine e ora invece è l’unica occasione che mi concedo per mangiarla. Ho smesso di comprare i sottaceti perché una mia mica vegana mi ha detto che hanno troppa energia yin. O era quella Yang? Un paio di piatti pronti li includo sempre,  come pure i burger vagani da mettere direttamente nel microonde che tanto di momenti in cui torno a casa e non riesco ad alzare un dito comincio ad averne sempre di più. La tessera punti, la borsa riciclabile, la promoter che mi regala i quaderni a quadretti se compro i flauti al latte...ma si certo che me li compro. Sempre meglio della palla trasparente con il logo della simmethal che mi ha rifilato quest’estate. A me che non mangio carne. Se serve questo ad impedire che un rider mi porti il cibo con la sua bicicletta io lo faccio fino alla,fine.

Fare la spesa è una delle cose più rigeneranti che ci siano. Quando ho tempo a sufficienza mi soffermo ad osservare i carrelli degli altri e provo a capire quali siano i progetti di consumo dietro le loro scelte spesso così tanto diverse dalle mie. Provo a dedurre la composizione familiare, le tendenze ideologiche ed etiche, se si sta seguendo un regime dietetico particolare, se si tratta di un consumatore consapevole oppure si lascia sedurre dalle offerte rese speciali da un marketing sempre più abile nell’orientare le decisioni. Oppure se segue semplicemente una lista blindata da cui non sfora mai.
Credo che il centro commerciale sia un’osservatorio interessantissimo, un campione rappresentativo
molto efficace per capire come siamo e cosa stiamo per diventare.

Sono molti anni ormai che faccio una cosa qui a Milano che mi diverte molto: partecipo a dei focus group nell’ambito di ricerche di mercato, quelle grazie alle quali mio padre fa il pieno di benzina gratis con i buoni che ci danno per ringraziarci del servizio offerto all’aggiornamento e arricchimento del loro data base. Di solito si tratta di psicologi che fanno parlare per ore delle impressioni, reazioni o emozioni riguardo al prodotto di un futuro lancio, oppure fanno provare cibi, usare cosmetici, a volte applicano addirittura dei sensori sulla testa e sulle dita e controllano le tue reazioni in base agli impulsi che emani vedendo certi  video. Roba da far impallidire pure quelli di arancia meccanica. Una volta ho fatto persino un’esprienza di realtà virtuale: ho fatto cadere tutto da quei finti scaffali e mi sono spaventata  a morte. Assurdo.

Il marketing è una scienza estremamente affascinante, se si decide di stare al gioco e di capirne le
regole. Oppure pericolosissima se ne subisci le regole studiate con metodiche così collaudate che il rischio di fallire si approssima ormai allo zero per alcuni brand molto evoluti in merito.
Io non so mai cosa pensare davvero al riguardo: mi piace l’idea che si provino a conoscere meglio i miei gusti per poi propormi qualcosa che mi piaccia davvero. Dall’altro non potrò mai sapere senza ombra di dubbio se la loro offerta mi sta semplicemente condizionando nella scelta di qualcosa a cui, in mancanza, neppure penserei o di cui sentirei il bisogno. Però non è raro che mi piaccia stare al gioco, provare a capirne le regole, sapere di poter fare a meno di un sacco di cose proprio mentre penso che può essere altrettanto bello cedervi, che la Coop rimane una cosa diversa dall’Esselunga pure se vendono le stesse cose, che l’assortimento ampio è meglio della mancanza di varietà, che nei carrelli ci sono panieri di consumo estremamente variabili e diversificati. E che in fondo la democrazia è più  o meno una cosa come questa quando ti chiedono di spiegarla.

Oggi mi hanno fatto provare cinque yogurt vegetali diversi che vorrebbero proporre a breve. Me ne
sono piaciuti due. Sono proprio curiosa di sapere in che modo terranno conto del mio parere rispetto a quelli di tutti quei carrelli così (troppo) diversi dal mio

venerdì 27 settembre 2019

Di semi_seri. E di forza della natura

-...È che penso che ormai andrebbe aggiornato. Almeno in parte, ma sarebbe meglio del tutto...
- Cosa intendi dire? È la verità, io sono questo
- Ma non dire sciocchezze! È roba che hai fatto un sacco di anni fa. È passato remoto. Sei diventata altro: cancella e ricomincia da capo. A proposito, hai tagliato i capelli troppo corti, sei simpatica ma eri più carina prima. Allora? Lo facciamo assieme questo aggiornamento del profilo di questo strano spazio?
- Ma cosa non ti piace di preciso? Lo copiai quasi integralmente  dal mio primo blog, quello del 2008 che si chiamava “Semi_Seri - alla ricerca di un terreno fertile su cui germogliare”. Ho aggiunto solo che vivo a Milano.
-...sì, la città che ami in modo conflittuale...ma fammi il piacere! Sei attaccata a questo posto come una cicca sotto un banco delle medie. E poi a chi vuoi che importi che hai un dottorato in una materia che non ti è manco mai piaciuta...
- No, qui ti sbagli! Mi sono licenziata da un contratto a tempo indeterminato per quella cosa lì...
- Lucia...dilla tutta...volevi tornare dal tuo prof. quello per cui hai avuto una venerazione tanto assoluta quanto incomprensibile per un numero di anni pari quasi alla metà della tua vita. Se non ci fosse stato lui avresti cambiato rotta immediatamente. E saggiamente...
- Hai ragione. Lo adoravo. E quindi che devo fare?
- Riscrivi chi sei adesso. Dimentica ciò che è stato e che non ti rappresenta più, ammesso che lo avesse fatto prima. Sono passati più di 10 anni, come sei diventata nel frattempo, cosa ti interessa profondamente?
- Ok. Mi chiamo Lucia, vivo a Milano come se fosse stata sempre la mia città. Ho una laurea in economia ma vorrei che fosse in lettere, non viaggio più da sola da un po’ di anni e quando capita adesso voglio la colazione a buffet. Vivo sola, e continuo ad amare e onorare la mia solitudine. Le mie giornate sono scandite da un tempo non negoziabile fatto di attività fisica e film belli e di
faccende che a vario titolo stanno attorno a queste cose. Continuo a non essere un’ottimista ma grazie al fortissimo senso di colpa che questo mi procura faccio sforzi continui  di ironia. Spesso ne traggo enorme soddisfazione e l’illusione di non essere troppo antipatica e cupa.
Non leggo più così tanto come un tempo. In compenso sono diventata una buona ascoltatrice e un po’ più socievole di una volta. Continuo a non credere nell’amore eterno...e a sperare di essere smentita. Sono meno intollerante verso la volgarità ma auguro ogni male a chi accende il cellulare al cinema. Ecco, direi che se mi presentassi oggi direi questo. Non mi pare che sia troppo diversa da quello che ero.
- Beh, direi che sei cambiata un bel po’ invece. Apprezzo lo sforzo misto alle convinzioni che non ti abbandonano mai. Senti, hai visto che oggi i giovani hanno manifestato con Greta per l’ambiente?
- A me fa piacere. Nel 2008 io leggevo “la scommessa della decrescita” e mi infiammavo per una teoria che di fatto era una solenne boiata, oggi c’è una ragazzina appassionata e molto arrabbiata che raccoglie milioni di energie fresche richiamandole al senso di responsabilità e al ritorno all’idea di

futuro. Le contestano di essere una pedina nelle mai dei poteri forti e che sia un fenomeno mediatico ed economico. Solo un’altra faccia della stessa medaglia. Anche io penso questo. E penso che la strada sia questa: l’ambiente deve essere una questione economicamente conveniente, deve creare valore anche economico. Non è detto che l’altra faccia di una stessa medaglia sia una faccia sbagliata. Qualche giorno fa ho visto un documentario bellissimo, intitolato  “La fattoria dei nostri sogni”, nel quale si raccontava, tra le tante magnifiche cose, che l’armonia perfetta non è in fondo un traguardo realistico e forse neppure troppo interessante. Ciò che ha senso, nel complicato rapporto dell’uomo con la terra, è l’obiettivo di una “disarmonia sostenibile”. Una bella definizione, non trovi?
- Si è bella. Forse anche la tua vita è stata una vocazione realizzata ad una disarmonia sostenibile. E questo, se ci pensi bene è un gran bel risultato
- Concordo. I miei “Semi_Seri” forse un po’ di terreno fertile alla fine lo hanno trovato. Evviva!




domenica 22 settembre 2019

La ragione sta nella “mezza”

L’autunno ha fatto il suo ingresso a gamba tesa con una puntualità a cui non sono mai pronta visto che per le mezze stagioni sento dire, ormai da quando sono nata, che non esistono più. I ritmi sono tornati ad essere quelli di sempre dopo la “destabilizzante” estate, le temperature suggeriscono il consueto abbigliamento a strati per fronteggiare la variabilità delle giornate e io provo ad inventarmi, come al solito, qualche forma nuova di stupore per tutta questa prevedibilissima ciclicità sempre uguale a se stessa. Detta così pare una cosa triste ma in realtà io in questa condizione ci sto ancora parecchio comoda, forse perché in fondo continuo a desiderare le stesse cose, sempre quelle e tutte di facile accesso per fortuna. E poi più di tutto, durante i giorni che si fanno più rigidi, mi piace starmene su questo divano a “reimparare” a non dare nulla per scontato. Neppure l’indignazione apparentemente più sacrosanta.
È notizia di questi giorni il successo enorme che ha ottenuto il documentario sulla Ferragni. Perché dovrei giudicare questo fatto come il segnale inequivocabile di una decadenza etica e ideologica? Che strumenti si possiedono davvero per criticare l’ascesa senza precedenti di una giovanissima donna che ha intuito per prima un modo totalmente nuovo di concepire il marketing e la valorizzazione dei suoi brands  tramite il web? Ha semplicemente realizzato un’idea che ha avuto un enorme successo. Oltretutto paga regolarmente (tantissime) tasse e non è affatto vero che non lavori.

Pare  strano e invece il capitalismo funziona esattamente così. Da sempre: c’è chi arriva a diventare ricchissimo perché è un genio e la sua idea viene intercettata per creare nuovo valore, chi perché ha scommesso su titoli che sono andati benissimo contro ogni previsione, chi è arrivato per primo ad aggredire certi segmenti di mercato poi risultati vincenti, e poi c’è (anche) chi si è fatto da solo inseguendo ostinatamente un’idea e lavorandoci sopra senza mollare mai. Di contro, c’è anche chi pur avendo almeno uno dei requisiti accennati non ha comunque ottenuto quei risultati. Perché succede. Succede che il mercato obbedisca a regole totalmente proprie e del tutto insondabili, che non sia meritocratico e tagli fuori chi sulla carta potrebbe promettere e mantenere e questo solo perché la congiuntura non gli è, in quel momento, favorevole solo per una mera casualità, per una tempistica errata. Succede da sempre in un sistema concepito così e disattento a preservare l’equità e una redistribuzione attenta delle risorse.

È per tutte queste ragioni che trovo che l’accanimento contro la Ferragni sia ridicolo e inutile, oltre che mosso da evidente invidia. Di contro non mi piace neppure cadere nella trappola opposta di chiedermi se la colpa sia di chi la segue come un oracolo, come se fosse la prima volta che un sistema collettivo senta il bisogno di creare dei miti che garantiscano una visione comune e creino una forma anche fragile di collante e di senso di appartenenza. Chi ha davvero il diritto di contestare e giudicare simili processi? A me interessa di più osservare i cambiamenti per quello che sono, senza giudicarli, perché è inutile, sciocco e pretestuoso, e provare invece a decodificarli

A me della Ferragni importa poco solo perché non mi interessa l’ambito in cui opera, ma ho sentito
ragazze dire che per loro rappresenta la perfezione. Forse è così e sono io a non possedere questo nuovo strumento di misura. Chi lo sa. Però me lo devo ricordare più spesso che giudicare generazioni più giovani della mia, che ragionano con codici diversi, che rispondono alle richieste di un tempo diverso da quello in cui io mi autodeterminavo, non è un modo efficace di leggere la società. E poi io sono coetanea di gente come Renzi e Salvini...dovrei tacere anche solo per questo.

È arrivato l’autunno. È una stagione di passaggio proprio bella ora che ci penso bene. Pensare che possa non esistere più è veramente da folli.


martedì 17 settembre 2019

Di necessità superfluo

Otto bicchieri colorati per aperitivi estivi, delle formine per fare il ghiaccio a forma di animaletti, dei piattini per il sushi comprensivi di bacchette, una mug, delle posate per insalata, un set da sei di tazzine da caffè. Ho preso tutto, l’ho sistemato in una grossa borsa e l’ho regalato a chi avrebbe potuto gradire. È molto divertente privarsi delle cose di cui si pensava di avere necessità e scoprire che il vuoto che lasciano è in realtà uno spazio fatto di leggerezza o un posto lasciato libero per le cose nuove.
È incredibile quante cose si possano accumulare in una casa nel corso degli anni, anche in una piccola come questa. Per me si tratta soprattutto di piccoli ricordi, regali, oggetti buffi, scatole di latta con sopra dipinti soggetti vintage, strani accessori per la cucina...tutte cose di cui credo che non farei troppa fatica a liberami. Mi piacciono ma non mi ci sono affezionata davvero. E questo in fondo mi dispiace un po’. A volte mi chiedo come reagirei se andasse tutto perduto in un incendio. Soffrirei solo per un paio di libri sottolineati e molto vissuti e per certe collezioni di film che faticherei a ripescare...ma forse neppure in questo caso soffrirei più di tanto.

Una volta ascoltai un’intervista ad un antropologo. Lui raccontava che da molti anni andava in giro per il mondo a realizzare piccoli o ambiziosi progetti di aiuto nei villaggi più poveri del mondo: un scuola, un acquedotto, servizi di assistenza, costruzioni abitative...cose così. Ad un certo punto l’intervistatore gli chiese cosa si provasse a lasciare un luogo in cui si è vissuto così intensamente, tutte le persone del posto che si è deciso di aiutare. Gli si chiedeva quanto davvero pesasse il vuoto di un distacco da persone a cui si era dato tanto di sè. L’antropologo rispose così: “vede, io sono un anaffettivo. Una volta portato a termine un progetto è come se un vuoto si fosse già creato. L’esperienza si è conclusa e la sola cosa di cui sento la necessità è portare avanti un nuovo progetto e realizzarlo. Ciò che è stato fatto già non conta più”.
Che strana risposta. Davvero si può decidere di fare qualcosa di bello e di buono per l’umanità pur
non amandola?!?! Pare proprio di sì.
A volte anche io credo che l’affetto, i legami, l’amore siano in fondo un concetto sopravvalutato e spesso smentito dalla stessa impossibilità di riuscire a stabilirne una definizione netta. Penso al mio gatto: a lui importa solo di se stesso eppure ha fatto in modo di diventare un esserino  indispensabile per la mia famiglia. Non ama nessuno ma fa del bene a sua insaputa. Che strano paradosso.

Oggi mi sono liberata di cose che servono di più ad altri e stasera, rientrando in casa e vedendo quegli spazi ormai liberi mi è sembrato di respirare meglio.
E così ho pensato che non è una colpa non sentirsi legati alle cose, alle persone, alle esperienze, ai ricordi. Questo me lo disse il mio primo gatto l’ultima volta che ci siamo visti. Prima di sparire per sempre. E non farsi scordare mai più





giovedì 12 settembre 2019

Quando tutto torna mi metto in “ascolto”

Come è strano soffermarsi sulle cose che mi sono più familiari e che mi sembrano nuove solo perché mi ero allontanata da loro per un po’. Il rientro alla routine post vacanziera mi fa sempre questo effetto: la novità senza l’ignoto, la necessità di riabituarmi ai ritmi perduti e al rapido ritorno a certi automatismi senza imprevisti. È un po’ come rinascere ogni volta portandosi però dietro un pezzo di consapevolezza in più. In fondo credo che invecchiare sia esattamente questo: familiarizzare costantemente con ciò che solo in apparenza ritorna sempre uguale a se stesso come un destino ineluttabile ma che in realtà è, necessariamente, tutt’altro da ciò a cui eravamo abituati.
Dell’estate appena passata avevo già fissato qualche appunto, il tanto che mi è bastato per dire che è stata bella, varia, spesso memorabile e che questo mi pare essere stato un gran bel risultato. Ne farò tesoro da capitalizzare per l’inverno.

Per tutta questa settimana ho avuto una forte allergia agli occhi. Mi svegliavo con la faccia di un pugile molto sconfitto e, prima di essere presentabile senza dare adito a deduzioni improbabili, dovevo fare molti impacchi di acqua fredda. Poi è tutto passato con la stessa misteriosa modalità con cui era arrivato. Forse la calma con cui sono ritornata al mio quotidiano più familiare non poggiava su basi poi cosi solide e così una parte di me ha fatto resistenza impedendomi di “vederci” davvero chiaro. Vai a sapere...tanto poi alla fine tutto torna (torna come? Chiaro?).

È tornato pure l’irrinunciabile palinsesto invernale delle mie stazioni radiofoniche preferite, quelle senza le quali il silenzio domestico mi pare il peso più insostenibile che io possa immaginare. Matteo Caccia è passato di nuovo a radio 24 (da radio due): sono 15 anni che lo ascolto e quando ero ancora giù in Campania desideravo tanto conoscerlo e parlargli. Poi questa cosa è successa davvero e adesso mi commuovo sempre un po’ quando tutte le volte che lo incontro si ricorda il mio nome e mi saluta
 col bacetto.

Nell’albergo di Venezia invece ho fatto colazione al tavolo accanto a Lalaura, altra mia storica beniamina di radiodue. Una mattina l’ho avvicinata e le ho detto che la seguo da tanto tempo e che è bravissima. Ne è stata felice, ma io non mi perdonerò mai di essere stata così ineducata quando l’ho vista con le valige e non ho proprio pensato ad aiutarla un po’. Quella mattina non ho fatto altro che pensare a quanto devo averla delusa.
È tornato anche il mio idolo assoluto Gianluca Nicoletti più in forma che mai. Conosco anche lui: di solito mi prende in giro ma credo che sia molto compiaciuto del mio affetto.
Ecco, io credo che la radio renda più tollerabile il mio ritorno alle mie cose sempre uguali, ai risvegli solitari e con la vista appannata, al silenzio imposto, alla familiarità di uno spazio ostinatamente ristretto. Ma forse tollerabile non è la parola giusta. Ad un certo punto credo che il termine esatto da usare  sia “auspicabile”. Io credo che anche la vacanza più bella, la compagnia più piacevole,
l'esperienza più  sorprendente, il mare più cristallino, i tramonti più poetici, siano il pretesto saggio
di un desiderio di tornare qui, in mezzo a queste quattro cose che mi riguardano così tanto. Così più di tutto il resto.

La serata è fresca, mi sono struccata, ho appena visto un bel film e sono ritornata nel mio letto sotto il tetto. Non ho ripreso ad allenarmi, ma so che tornerò a fare anche questo a brevissimo. Tutto già “sentito”. Non mi resta che rimettermi in “ascolto”. Perché ogni vecchio programma, per continuare ad esistere, porta con sé delle novità invisibili agli occhi. Persino a quelli quasi del tutto sgonfi.



sabato 7 settembre 2019

Tra un’attesa e l’altra. Segni di un’estate

Stavolta ho davvero concluso. Sono alla stazione di Venezia ad aspettare il treno che mi porterà dritta dritta verso l’ultimo scorcio di un anno che mi ha visto in ferie in tempi (e posti) diversi a regalarmi occasioni preziose di scoperte, distanze da ciò che mi è inutile e mi ferisce, nuovi punti di osservazione, condivisione...
L'esperienza della mostra del cinema è stata molto al di sopra delle attese. Pare che sia stata una delle più belle degli ultimi anni e io non fatico a crederlo. Vorrei che vincesse “Ema”, un film che mi ha regalato delle suggestioni visive e una tale partecipazione emotiva che fatico ancora adesso a smaltire tutto quel groviglio di sensazioni così intense. Ma sono tantissimi i film che mi hanno profondamente convinto e potrei affermare che mai una sola volta ho pensato di aver sprecato il mio tempo, neppure per Assayas che ogni volta mi fa pensare che sia un regista piuttosto sopravvalutato. E poi ho capito una cosa di me che non mi era mica così chiara fino ad ora: io amo i documentari. Quelli che ho deciso di vedere, con tematiche inerenti il cinema horror, o quello erotico, persino uno sul funerale di Stalin (che mi ha tenuta incollata con la bocca aperta come una bambina a uno spettacolo di marionette) o su autori come Piero Vivarelli, Babenco, Tarkovsky (questo da pelle d’oca), sono stati una folgorazione continua di cui io stessa fatico a credere, visto che per me tutto ciò che ha a che vedere con la didattica finisce sempre per portare con sè qualcosa di maledettamente noioso.
E poi ci sono state le eccezionali compagne di avventura che hanno reso tanto più semplice e gioiosa questa mia epifania cinefestivaliera. Senza Cristina, Mirella, Serena e Pia non avrei saputo così presto e bene come muovermi, fissare un programma delle priorità, che strade percorrere per le passeggiate più belle...l’armonia è il risultato di un equilibrio delicato e intelligente delle componenti in gioco. Ne ho conferma.
È stata un’esperienza profonda ed è anche per questo che mi è difficile concepirne la replicabilità. Mi è piaciuto tutto. Per questo non tenterò di rifarlo.

Le mie vacanze sono state anche il mare della Grecia, il riposo profondo, il cibo buono, i luoghi antichi, quelli che ti ricordano meglio di tutto chi sei veramente.
Vacanze sono state le gite fuori porta in Trentino con Alessandra a girar per vigne. Io che sono più o meno astemia, e poi a Tortona, sempre con lei, a pranzo dai genitori o per una pizza in una cascina che pareva il set di un film di Bertolucci.

Io non so quale sia la definizione giusta di “vacanza” perché in fondo, in quanto lasso di tempo “vuoto”, ciascuno ha il potere e la fantasia di riempirlo come crede. Ho memoria di anni in cui avevo smesso di aver voglia di andare in un”altrove” solo per dover dire di averlo fatto. Non volevo nulla:
non il mare, nè la montagna, non i viaggi e neppure la compagnia. Aspettavo che i miei andassero via per stare da sola a casa. La mia ultima estate così la usai per scrivere la tesi.

Ecco. Ora sono sul treno. Faccio fatica a fare un resoconto. Sto impiegando uno sproposito per
scrivere questo post, ho problemi con la gestione di questo ultimo scorcio di tempo tutto mio, prima che Milano mi fagociti nella sua “routilante routine”.Sono pronta ma è come se fossi contrariata di questo, sono sazia e appagata da tutto eppure mi pare una colpa ripartire proprio da dove ho scelto di restare. È una sensazione strana e inedita che forse mi passerà non appena riprenderò le chiavi per entrare in casa.

Il treno sta partendo. Ciao Venezia.

Spero che vinca “Ema”. Ma se vincerà un altro andrà benissimo lo stesso

mercoledì 4 settembre 2019

In fila (a tessere le fila)

Ho camminato per due ore, è questo il tempo a piedi dall’albergo fin qui alla mostra. Sono le 9:39 ed è la prima volta da quando sono qui che vedo questo posto sgombro dalla folla oceanica che tiene sotto assedio lo spazio, in fondo molto limitato, nel quale fare file per qualsiasi cosa è uno “state of mind”. C'è un bel sole, una musica di sottofondo abbastanza orribile, io sono seduta su una specie di panchina di fronte al palazzo del casinò e sono già in ansia per la fila alla sala Volpi. Ieri dopo un’ora in attesa sotto un sole impietoso ci hanno detto che era già piena.

Venire alla Mostra è stata una bella idea. Una bella idea che non mi farò più venire. La verità è che sono contenta di tutto, persino dell’albergo totalmente inadeguato rispetto allo sproposito che è costato, mi sono piaciuti tutti i film e direi persino che benedico la scelta proprio di quelli che avrei potuto vedere soltanto qui. Mi sono fatta piacere pure quest’ansia perenne delle file dal mancato buon fine, delle attese per andare in bagno, del mangiare quello che capita e quando capita. Mi sono fatta piacere pure il glamour più tamarro e fesso che si possa immaginare, le gnocche senza fine sui tacchi dodici (esistono ancora i tacchi a spillo e qualcuno che li trova belli...). Ho tollerato la maleducazione dei veneziani che sugli autobus ti fanno appunti pure per il tuo respirare, e persino i panini a sette euro. Va bene tutto. Perché sonno stati giorni di totale astensione da tutto il mio mondo conosciuto, perché passare quasi tutto il tuo tempo vigile tra sale di cinema a vedere film bellissimi e a non dover pensare a nient'altro è stata un'esperienza di catarsi irripetibile, un’avventura totalizzante di vita “aliena” che non sarei stata capace di realizzare in nessun’altra maniera.

Infatti non la ripeterò. E neppure la scorderò. Non la rimpiangerò. Ma che gran peccato sarebbe stato perdermela.
Ora devo andare verso la sala Volpi. C'è un’ora di fila che mi aspetta sennò mi lasciano fuori. E fuori dalla sala garantisco che trovo solo storie meno belle


giovedì 29 agosto 2019

Venezia mi mostra. E mi dimostra

Alla fine ci sono venuta davvero. La mia prima mostra del cinema di Venezia mi vede a zonzo tra una sala e l’altra a fare file su file per vedere più film che mi è possibile, soprattutto tra quelli che so che non arriveranno mai nelle sale. Oggi ne ho visti di belli e di molto belli e mi è sembrata davvero un'esperienza  atipica nonostante il rammarico di dover redarguire, pure stavolta, persone che avevano il cellulare acceso in sala. Non c'è speranza ormai...

Su tutti mi è rimasto dentro un film che, pur non essendo il migliore tra quelli visti oggi, continua a lavorarmi dentro come ad impormi un giudizio più articolato e meno sbrigativo. Il film si chiama Pelican blood. (Pelikanblut). Non mi interessa raccontarne la trama: mi limiterò a dire perché lo trovo così sorprendente. Il tema trattato è vecchio come il cucco: la maternità e le sue infinite declinazioni, la difficoltà di gestire un certo tipo di infanzia estremamente problematica come quella di un bambino adottato e con un passato difficile, i muri di un contesto sociale troppo impaurito dal diverso, i limiti della scienza attuale nella comprensione di tutti i fenomeni della psiche e dell’emotività, la potenza salvifica dell’amore anche quando il suo linguaggio non è compreso da nessuno.
La storia in sè, ma anche tutti i temi che tratta sono faccende che mi stanno tanto a cuore per più di una ragione e questo basterebbe a rendermi il film molto amabile. È che un po’ mi dispiace che sia stato bollato come diseducativo, dalla narrazione incoerente, poco “illuminista”. Io credo invece che sia un bel tentativo di raccontare il coraggio di percorsi che non rinnegano tutto quello che già si conosce per esplorare i territori ingannevoli della superstizione, ma che al contrario affermano il potere salvifico dell’amore servendosi (anche) della forza mistica di riti ancestrali.
Ho trovato molto affascinante tutto questo proprio, anzi a maggior ragione da un punto di vista “illuministico”. E non aggiungo altro perché è un film che suggerisco e caldeggio e di cui vorrei discutere davanti ad un buon piatto.

È il mio primo giorno pieno a Venezia. Ieri ho visto soltanto “la verità” e avrei voluto stupirmi di più, ma va bene lo stesso.
 Non credo che tornerò a replicare questa bella esperienza perché la folla, le lunghe file, le passerelle, i fotografi che aspettano i divi e tutta questa complicata macchina organizzativa, sono faccende che alla fine mi stancano molto e non mi affascinano manco troppo. C'è di bello che sono in buona compagnia, che vedrò film che forse non passeranno altrove e ho interrotto la mia rassicurante ma limitativa routine...ci sta tutta un’esperienza come questa. Bella ma non so come dire...

Domani ho in programma cose altrettanto interessanti. Può darsi che stavolta dirò persino di cosa
parlano i  film

sabato 24 agosto 2019

Case da riabi(li)tare

Stavolta ne avevo proprio bisogno. Ieri sono tornata qui in Campania per un paio di giorni. È stata un’estate un po’ faticosa per me e questo nonostante non mi sia fatta mancare le vacanze e un più che ragionevole tempo di riposo. Credo che il cambio di team non mi stia giovando: ho la sensazione tutt’altro che vaga di non piacere affatto alla nuova capo. Ogni volta che interagisce con me me la immagino a pensare cose del tipo “ tu sei una strana, chissà che mi combini. Voglio sapere ogni singola cosa che fai”. Percepisco che non si fida e che il suo modo di lavorare non combacia affatto con quello che è stato il mio fino ad ora e che comunque non ha mai comportato guai irrisolvibili o malcontento. Direi che la mia coscienza rimane pulita nonostante i limiti oggettivi di un metodo di lavoro ovviamente migliorabile e perfettibile. In altri tempi mi sarei agitata e rammaricata di un approccio simile, oggi ho deciso di assecondare con calma la sua strana mania di controllo con l’auspicio che si renda conto che se sono dieci anni che seguo certe procedure senza che nessuno sia morto, e nonostante tutte le problematiche disfunzionali tipiche di un ufficio della pubblica amministrazione, vuol dire che in fondo può anche stare un po’ più calma. Pazienza, mi abituerò anche al nuovo regime, sperando di non dover sopportare un clima ostile o frustrazioni.

Stanotte ho dormito molto bene. Nella casa dei miei è tutto più comodo. E non credo che sia soltanto perché è molto grande, dato che , di fatto, io passo quasi tutto il mio tempo nella mia mansarda, quella che hanno fatto costruire proprio nell’anno in cui me ne sono andata a Milano. L’ho arredata io, con dei vecchi mobili riportati in vita, attrezzi per la ginnastica, quadri di vecchi film e di pubblicità d’epoca. Quando vengono a trovarci gli amici dicono tutti più o meno così: “questa mansarda è lo specchio esatto di Lucia” . E io sono sempre molto soddisfatta di questa cosa qui. Quando finii di arredarla sono dovuta andar via e così quando torno sento che è quello il posto della casa che davvero mi appartiene. Le stanze ai piani inferiori no, in quelle mi sento ospite. È proprio
una faccenda strana: una casa mai vissuta che più passano gli anni, meno ci vivo e più comincio a
sentire come totalmente mia, ancor più del piccolo e vissutissimo spazio (quello sì veramente mio) milanese.

Non lo so com’è eppure questa è la prima volta che accarezzo davvero l’ipotesi che un giorno potrei decidere di tornarmene qui, in questo paese che non mi è mai piaciuto, in cui ho trascorso gli anni di un’adolescenza faticosa e sbagliata (sia chiaro, per mia colpa essenzialmente), un posto in cui non succede mai nulla che mi interessi davvero, ma nel quale c’è una parte di casa in cui non ho mai vissuto. E che forse mi appartiene più di tutto.
Lunedì tornerò a Milano. C'è ad aspettarmi una casa piccola piccola in cui ho risolto la parte più significativa della mia vita, un lavoro che mi promette problemi che voglio affrontare con spirito sereno, una serie di attività che non vedo l’ora di riprendere e delle persone a cui tengo molto. In più, stavolta per la prima volta, porterò con me una voglia tutta nuova di casa. Quella in cui non ho mai abitato, ma che mi pare ogni volta più pronta ad accogliermi.


martedì 20 agosto 2019

Sta tutto in frigo (se è vuoto)


Ormai la fase di rientro è cominciata. L’ufficio si ripopola dei volti familiari e bruniti dei miei colleghi rilassati. Stavolta la mia estate in ufficio è stata veramente pesante. Ma è passata anche questa e tra poco mi allontanerò io per un po’.
Sono un po’ irritata. Non so perché, forse non ci sono ragioni precise e quando mi capita di solito mi passa lavando i piatti o i panni a mano o grazie a mezz’ora di pesi seguita da una doccia fredda per poi mettermi distesa sul divano, in silenzio, a pensare a come vorrei che le persone si comportassero con me. Poi mi calmo e mi dico che non ho il diritto di pretendere niente dagli altri, ma solo tener conto del loro agire rispetto al mio, e poi di fare attenzione, ricordare, non restarci male e gioire della generosità altrui. Una collega oggi mi ha portato un pensiero del tutto inaspettato e io sono sicura che non lo scorderò.

Tra qualche giorno sarò dai miei solo per un week end. Manco da molto tempo ma ormai uso le mie ferie soltanto per risolvermi la vita a Milano o andare in vacanza per conto mio. In futuro mi riserverò più occasioni per tornare a casa, magari per meno giorni alla volta. Secondo me è una soluzione molto efficace.
Nel frattempo si sta per chiudere questa ridicola e terrificante pagina politica, che è servita solo a creare un clima schifoso, tossico, un’economia stagnante e la perdita di credibilità agli occhi dell’Europa e del mondo. Se avessi un figlio sarei molto più rammaricata.

Il frigo è quasi vuoto. Mi è rimasta una mezza mozzarella, mezzo litro di latte, una cotoletta vegetale e un ultimo pezzo di cioccolato fondente. Non ho più nulla in scadenza o da conservare. Finalmente potrò sbrinarlo e regalarmi due giorni di colazione al bar, gelato a pranzo e pure a cena. Poi i miei mi tratteranno come una principessa (succede solo quando mi trattengo molto poco, altrimenti sarebbe
tutto meno enfatico...e direi che mi pare sacrosanto...) e io prenderò tutto senza fare l’ospite timida: in fondo quando mi ricapita...

Poi tornerò a Milano, lavorerò ancora per un po’ di giorni e poi andrò per la prima volta al festival del cinema di Venezia. Vedrò film dalla mattina alla sera, che poi è tutto quello che vorrei fare della mia vita invece di stare a scandire continuamente il tempo tra stati d’animo di cui non comprendo la matrice, gli umori della Storia e quelli di chi mi sta intorno e il rientro dalle ferie mie o altrui.

Fino a poco fa ero irritata. Ho dovuto lavare i piatti a mano per stare calma e sollevare un po’ di pesi per sentirmi abbastanza forte per la giornata. Poi ho ricevuto un pensiero inaspettato da una collega rientrata dalle ferie e ho percepito il suo affetto.
Il frigo è quasi vuoto. E direi che, finalmente, non manchi proprio nulla

mercoledì 14 agosto 2019

Agli ex-post l’ardua sentenza

Ieri ho compiuto 43 anni. Cominciano a sembrarmi decisamente tanti eppure degli ultimi dieci anni potrei sinceramente dire che sono volati, soprattutto se penso che a questi risale la mia definitiva trasferta a Milano, il mio contratto a tempo indeterminato, la mia prima casa di proprietà...sembra tutto così dietro l’angolo e invece di mezzo ci sono dieci lunghi anni di cose realizzate tutte per conto mio. Impressionante se penso alla svagata e un po’ incespicante che di natura mi trovo ad essere.

Su Facebook non è più visibile la data del mio compleanno, per cui quelli che mi hanno fatto gli auguri di primo mattino sono quelli che la conoscevano già e che se ne sono ricordati da soli. Poi ho postato il mio “prima e dopo” in foto dai 33 ai 43 e si sono aggiunti dei deliziosi e affettuosi auguri social e, infine, ho ricevuto altri inaspettati auguri in privato. Di alcuni conserverò per sempre il tono dolce e la sincerità.
Ci sono poi gli auguri nei quali speravo e che invece non sono arrivati. Va bene comunque, l’affetto non deve dare per scontata la reciprocità e se questa manca vuol dire che devo prendere meno seriamente il mio senso di attaccamento verso gli altri. Mi sta bene anche questa cosa qua, ma devo ricordarmi di avvertire la bambolina Piggy di non eccedere nei nostri auguri speciali...potrebbero essere fraintesi, o sottovalutati, e noi siamo due bimbe tenere che poi ci restano un po’ male...

Ieri mi ha anche scritto la solita persona ossessionata dall’idea che parli di lei nei miei post in questo blog e che dice che questo dovrebbe essermi proibito. Ha esordito con degli auguri molto cerimoniosi, che sono una persona speciale, che le dispiace che non siamo più in buoni rapporti e cose del genere. Io le ho risposto molto  gentilmente dicendole che apprezzavo molto le sue parole, che la ringraziavo ma che non avevo intenzione di ricucire i rapporti con lei (non ho nessuna intenzione perdonarle per la seconda volta ira, frasi di odio con turpiloquio nei miei confronti) lei ha risposto di nuovo adirata nei miei confronti, ripetendo il suo solito repertorio di veleno e di ordini a
non parlare di lei. Ma io non parlo di lei: io parlo di me e della mia incapacità di liberarmi delle sue manie di persecuzione. Ma ormai direi che non riesca proprio a capire questo banalissimo concetto. Poi ho smesso di leggere quelle mail che stonavano così tanto con il mio buon umore e ho buttato tutto nella posta indesiderata. Spero che basti, stavolta e per sempre.

Mi sono preparata la tortina da sola, non ho spento candeline e non ho espresso desideri, ho sollevato pesi di tutto rispetto per il mio work out mattutino e ricevuto dell’affetto più che proporzionale rispetto all’odio e alla disattenzione. Il mio bilancio ha ancora il segno più sebbene la mia età più bella rimanga ancora oggi quella dei miei trent'anni. Sì, 30 anni è stata la mia età perfetta: avevo appena conseguito il dottorato, mi trovavo bella come mai più sarei riuscita a vedermi, avevo già cambiato lavoro due volte, per mia scelta, e amavo molto.

Sarà impossibile per me fare meglio dei miei 30 anni. Ma non dispero ancora del tutto.
Ho 43 anni. Devo assolutamente trovare il tempo per ripassare di nuovo per i 30