Sola andata

Sola andata

lunedì 29 aprile 2019

È quasi tutto mezzo vuoto

Noi solitari ci riconosciamo così. Dalla panchina personalizzata. Il parchetto fuori casa, quello in cui trascorro la quasi totalità del mio tempo libero primaverile ed estivo, ha quasi sempre tutte le panchine occupate. Quelle più laterali, lontane dalle giostre o dagli spazi per i cani sono le nostre. Di noi solitari, desiderosi delle stesse cose: silenzio, spazio verde, un punto di osservazione ampio. Potrei starmene così per un giorno intero e, conoscendomi, questo è davvero strano perché so per certo che, a parità di tempo trascorso in casa avrei già aperto il frigo cinque volte sperando di trovarci chissà quale consolazione, provato a mettere ordine tra cassetti che traboccano di cose che non so come siano finite lì ma che non ho il coraggio di buttare e poi forse mi sarei guardata allo specchio per assicurarmi di non sembrare ancora troppo in carne.

Non amo stare in casa, per questo non ho mai davvero desiderato di averne una più grande: mi avrebbe dato soltanto dei problemi gestionali più complessi. Il vero salotto per me è questo parco. Non so ancora come farò a continuare a compiacermi per così poco, a non cercare più nulla e pensare che sia in fondo tutto qui, dopo un lavoro che mi stanca senza farmi crescere, i sogni che non ho più voglia di realizzare perché cominciano a farmi paura, la carenza di ferro che aggrava il mio fiato corto quando provo a correre più veloce. Ma è proprio così. Sto bene senza aver voglia di stare meglio.

Ho prenotato le vacanze ma non ne ho mica voglia, eppure sono stata una viaggiatrice entusiasta, solitaria e persino temeraria. Perché ora mi spiace così tanto sganciarmi da questo posto pure se non faccio niente di speciale? Provo a riflettere su notizie terrificanti e sento di giustificarle liquidandole come un segno necessario del tempo, come se questo bastasse per accettarle. Non mi arrabbio più quasi per nulla, al massimo provo uno sconforto a cui offro spiegazioni dal sapore quasi arcaico e non lo avrei mai pensato se solo penso alla bambina e adolescente tanto irritabile che sono stata. Oggi mi dicono spessissimo che sono dolce, ma è solo perché si sono persi un pezzo della mia vita in cui sono stata totalmente altro. È stato davvero un bene ammorbidirmi fino a questo punto? Oppure ci sarebbe ancora qualcosa che riesce ancora ad “animarmi”  come una volta?

Ma perché sto pensando a queste cose? È colpa di questa panchina. Adesso mi alzo. Sono quasi le otto e devo rientrare a casa mia che c’è blob e non voglio perdemelo. Per fortuna il frigo è vuoto, tra poco partirò per le vacanze, mi inventerò un amore. E forse anche un odio, se serve.

sabato 27 aprile 2019

una pastiera “proustiana”

Non vi è pentimento che valga a privarmi di un simile piacere. E in ogni caso ho fatto in modo di meritarmelo. È stato il mio unico pensiero durante tutto il tragitto verso casa, dopo aver visto un piccolo film francese un po’ snob sulle nuove dinamiche amorose, tema sul quale io ho smesso di avere competenze già da molto tempo. Dicevo, ho camminato in una Milano splendida, luminosissima, calda e desertica fino alla biblioteca, ho ritirato delle cose da rivedere e poi mi sono allungata fino al cinemino per il film di cui sopra. Mi ero portata dietro un po’ di cose ipocaloriche per non svenire e perché avevo intenzione di preservare un appetito sufficiente ad alimentare il desiderio. Sì, perché il piacere di cui parlo è quello che mi procura una fetta della mia pastiera scongelata al microonde e gustata rigorosamente calda. È successo alle tre del pomeriggio ed è stato magnifico. La mia pastiera mi piace più di qualunque altra mai assaggiata. E mi chiedo sempre se sia una forma di presunzione ingiustificata, visto che la ricetta è fedelmente riprodotta, oppure è perché in realtà la mia variante senza l’acqua ai fiori d’arancio faccia una differenza davvero sostanziale. Ma credo che la ragione vera sia sempre la stessa e cioè che la pastiera è fatta sempre per qualcuno che non sono io. A me al massimo restano gli avanzi, che poi congelo per farmi un regalo quando conto bene le calorie. È una cosa diversa dal preparare il pranzo per qualcuno, perché in quel caso includo una certa idea di condivisione. La pastiera no. Lei rappresenta la propensione all’altro o il peccato che presuppone un’autorizzazione gestita in solitaria.

Era squisita, morbida e profumata. Mentre affondavo il cucchiaino pensavo a come è strano che oggi faccia così caldo e che Milano sia così silenziosa e poi mi sono ricordata di una Pasqua in cui il mio papà era venuto a trovarmi qui e noi camminavamo verso la metro. Ad un tratto si era accorto di un piccolo leprotto rimasto imbrigliato in una rete verde di recinzione e l’aveva aiutato a liberarsi. È stato bellissimo vederlo scorrazzare felice lontano. Qualche giorno fa, a telefono, mi ha detto, “ti ricordi quel leprotto? Chissà che fine ha fatto adesso”. Non lo so perché mi sono un po’ commossa.
E poi mi è tornata in mente quella volta che la pastiera l’avevo fatta per uno con cui stavo ma non ero felice. Venne bruciata da un lato e io non me ne rammaricai troppo. Ora forse capisco.
Adesso mi trovo alla mia solita panchina vicino a casa, mi sento un po’ appesantita ma non abbastanza da pentirmi pensando ai miei fianchi. Preferisco ricordare ancora qualcosa. Ho fatto la pastiera anche l’anno scorso, per persone che non vedo più e a cui ho voluto un bene non confermato dal tempo, eppure ancora non ho scordato tutto l’affetto che ci avevo messo dentro. Ci sono ricordi che sono destinati a sbiadire con calma inesorabile e sono quelli che apprezzo di meno. Ma tant’è. E poi c’è la pastiera di quest’anno (e quella di oggi ne era, appunto, il suo avanzo) e ho provato ancora lo stesso piacere, stavolta aggiunto alla speranza che i suoi destinatari siano belli così come li vedo.

Sarà che ho visto un film un po’ sentimentale, che mi aiuta ad accettare la mia inattitudine ad un rapporto profondo traducendo l’affetto in un dolce, che poi diventa ricordo. Sarà l’avanzo di un piacere da consumare da sola. Sarà che Milano è bellissima oggi e invece soltanto ieri pioveva e si gelava e perciò non era il caso di scongelare la mia fetta di pastiera. Sarà tutto questo, o proprio nulla di tutto questo, ma oggi quella magnifica fetta di dolce era il mio unico desiderio. Realizzato solo grazie a qualcun altro che neppure lo sa.


domenica 21 aprile 2019

Di cosa si nutre il genio?


Appunti per Welles
...poi tornerò di nuovo a parlare di me...
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Nel novero delle poche verità incontestabili alla base del dibattito critico sul cinema c’è l’assunto che Orson Welles sia uno dei più importanti e innovativi registi del Novecento. I suoi film costituiscono un passaggio obbligato per chi di cinema vuole parlare, capire o anche soltanto godere. E questo, oggi, è fuori discussione. Ma purtroppo si sa anche che non è sempre stato così.
Nelle scienze economiche esiste una teoria, mutuata a sua volta da studi sul comportamento animale, denominata “Affamare la bestia” (“Starve the beast”), secondo la quale determinati soggetti dotati di particolari caratteristiche ad alto potenziale sono in grado di esprimersi al loro meglio soltanto in condizioni di estrema proibizione, in ottemperanza ad un principio di ottimizzazione di risorse scarse e di vantaggio comparato nelle dotazioni iniziali. In economia questo si traduce in attenzione puntuale all’uso dei mezzi di produzione, assenza totale di sprechi, utilizzo creativo delle risorse - interne ed esterne - a disposizione. 
Orson Welles è stato, rispetto a Hollywood, il prodotto forse meglio riuscito di questa teoria. Il suo talento, la sua “bulimia creativa”, il suo genio produttivo, costantemente umiliati e ostacolati dall’”Industria” sono stati paradossalmente soddisfatti proprio grazie alla fortissima penuria di mezzi e di opportunità. Un tentativo di fornire prova di questa ipotesi potrebbe essere quello di analizzare alcuni aspetti proprio di uno dei suoi film meno riusciti, a livello di critica e di pubblico e per ammissione dello stesso Welles: la “Signora di Shangai”, opera decisamente nata sotto una cattiva stella. Pare che in tutta l’America vantasse in Truman Capote il suo unico estimatore (in Europa invece fu più apprezzato), subì peraltro una gestazione lunghissima perché funestato da morti e malattie nella troupe, tagliato di quasi un’ora e mezza dalla produzione e rimontato un numero considerevole di volte senza mai tenere conto delle istruzioni fornite dal regista. In buona sostanza del film non rimane altro che una vaga approssimazione delle reali intenzioni di Welles. Ed è proprio questo che lo rende così interessante: il genio creativo rimane intatto anche quando il prodotto è stato svuotato delle sue stesse intenzioni. A confermarlo ci sono punti del film in cui l’estetica dei contrasti chiaroscurali a sostegno di una narrazione psicologica dei personaggi, l’adesione a tematiche dolenti sulla condizione umana e le sue contraddizioni, la messa in scena che omaggia una certa teatralità alla base di tutte le dinamiche umane fondate su rapporti di forza (il tribunale ma poi in altri film anche il mondo dell’editoria, della politica o della borghesia), che già rappresentano dei chiari indicatori della sua impronta del tutto peculiare e innovativa.
“Vi sono uomini che intuiscono il pericolo. Io no”. In poche parole tutte le ragioni di una disavventura e, in senso autobiografico, della condotta di una vita intera.
Ma è nei minuti finali che questa idea trova la sua forma più compiuta, quando Michael pare quasi invitare lo spettatore a scivolare assieme a lui nell’incubo della “crazy house”, laddove vertigine e insicurezza e poi figure multiple di identità indefinite e inganni rivelati lasceranno finalmente spazio alla verità. E al ritorno alla luce.
Welles è stato prima di tutto un intellettuale di solida formazione, ha fatto suo il fermento innovatore di matrice europea. È stato totalmente figlio e interprete poliedrico del suo tempo. Ma lo era anche di un luogo che a certi fermenti avrebbe contrapposto, almeno in campo cinematografico, un’idea narrativa diversa e della quale Hollywood era gelosa custode. Non stupisce dunque la costante difficoltà a finanziare i suoi film, l’intrusione esterna nella lavorazione, il costante rimaneggiamento dei suoi film fino all’incapacità di rendere immediatamente percepibile la portata innovativa del suo linguaggio filmico. Una tale mole di ostacoli avrebbe indotto alla resa chiunque. Non lui. Welles non si è mai lasciato scoraggiare dalla scarsità di risorse o dall’ostruzionismo facendo dell’ostinazione il vero motore per la realizzazione di progetti in condizioni estreme. Proprio come una “bestia affamata” che non contempla la resa.
“Vince chi gioca una giusta partita e non l’abbandona”
“Il solo modo di evitare questi guai è quello di invecchiare [...]Ma temo che morirò molto prima”
Forse nulla più di queste ultime battute del film, restituisce l’idea di insopprimibile necessità di seguire se stessi a dispetto di tutto. E di sperimentare costantemente.
Il tempo gli ha dato ogni ragione. E Hollywood gli ha restituito, con un ritardo in fondo perdonabile, tutto il dovuto


giovedì 11 aprile 2019

Oggi un post che vale per il compitino per il corso su Lynch.

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“Io...Noi, ti stiamo chiedendo di avere una mentalità aperta”
Quasi una dichiarazione d’intenti e forse un’esortazione dello stesso Lynch nei confronti di chiunque accetti la sfida di un’esperienza fortemente alienante, destabilizzante ma allo stesso tempo profondamente intima e individuale.
Per Mulholland Drive audacia narrativa, fascinazione estetica, suggestioni oniriche, turbamento irrazionale, tensione paranoica sono solo alcune tra le espressioni-chiave di più immediata ispirazione. La storia, pur nella sua disarmante complessità, è di facile sintesi. Una donna che sogna di essere una promettente attrice, tenta di rivelare l’identità di una sconosciuta. Alla fine troverà “soltanto” se stessa, i suoi sogni infranti e l’incapacità di accettare una realtà non filtrata dalla consolazione dell’immaginazione e del sogno. Sullo sfondo Hollywood, posticcia e spietata a fare da set per colpi di scena non subito chiari. Mentre il racconto si fa sempre più frammentato, ci si perde quasi subito tra numerose identità irrisolte e la sensazione costante che l’irrazionale governi e domini ogni cosa e che la narrazione individuale sia il mero prodotto di una eterna dialettica tra Caso e Necessità, in cui la volontà del singolo rappresenti solo un semplice innesco di quella lotta.
“Volevo proprio venire qui [...]. Sono due sogni ma è come se ne fosse uno [...] .Spero di non dover mai vedere quella faccia quando sono al di fuori del mio sogno”. Il sogno racchiude ciò desideriamo davvero assieme a quello che temiamo di più. Uscirne vuol dire esporsi al pericolo.
“L’atteggiamento di un uomo va di pari passo con quella che sarà la sua vita [...] Io voglio che lei pensi e che smetta di fare il furbetto con me”. Il Caso (o la Necessità?) si diverte a stuzzicare il regista facendogli credere di avere dei margini di manovra che, di fatto, non gli sono concessi.
Il regista:“Non voglio che recitiate. Aspettate di diventare veri”. Ma l’attore: “Ma recitare è reagire”. La scena del provino pare assecondare ogni cosa e mettere d’accordo tutti, ma appena fuori dal set, uno dei consulenti del regista osserva che per l’attore il copione non è più adatto.
“È lei la ragazza” ...”È una scelta eccellente, Adam”. Ma sappiamo non essere stata affatto una sua scelta.
“È tutto registrato [...] È solo un’illusione”
[...]
“Silenzio”.
La comprensione e l’essenza delle cose non sono traducibili in parole. Neppure il cinema lo pretende (si potrebbe qui azzardare una ardita similitudine col “silenzio” pronunciato da Fritz Lang nel “Disprezzo”). Il cinema si limita, appunto, a registrare illusioni.
Come si fa a parlare del cinema di Lynch senza rischiare di cannibalizzare le migliori intuizioni già al servizio delle analisi e interpretazioni più riuscite? Da dove partire per tradurre le suggestioni, la fascinazione, il turbamento, l’indecifrabile generati da tutto il “non-detto” dei suoi film? È stato osservato che i film di Lynch non vanno visti ma “usati” (Canova), quasi a definirli un’occasione esplorativa “multisensoriale”. Può allora valere anche vedere il film più e più volte per poi scoprire che in ciascuna di esse ci si troverà al cospetto di qualcosa di nuovo accompagnato da un paradosso: man mano che la trama diviene meglio comprensibile e lo snodo narrativo ritrova una sua, seppure surreale, coerenza, si viene inghiottiti in un gorgo di oscurità e irrazionalità fatta di incubi, traumi irrisolti, senso di annientamento e di impotenza verso una realtà solo fintamente rassicurante. Si potrebbe ragionevolmente affermare che tutti i film di Lynch richiedano una specie di necessaria premessa di metodo: quella di essere visti, e vissuti, più e più volte. Provare per credere. E riprovare per ricredersi.
Lynch non è un regista militante. È approdato al cinema senza prima essere stato un cinefilo. La sua “urgenza narrativa” ha origini e motivazioni estetiche e filosofiche che partono da tutt’altro, in primis il suo interesse per la pratica trascendentale. Eppure alcune questioni cruciali del contemporaneo, come ad esempio proprio quella dell’identità (il vero grande tema della modernità) o - fa impressione osservarlo proprio all’indomani della prima foto di un buco nero - l’idea che l’alterazione spazio-temporale sia la variabile endogena cruciale di un paradigma universale, fanno del suo cinema uno strumento efficacissimo anche per una chiave di lettura tutta “immanente” della società. Ma forse questo è solo un Caso.
O una Necessità

domenica 7 aprile 2019

È solo una fredda domenica di Aprile

È una brutta giornata. Sono all’ingresso di un cinema che non ha ancora aperto. Non sono neppure le due e mezza, pioviggina e fa freddo. Ho trascorso la mattina in casa tra un cartone della ghibli e le puntate sempre amatissime di vita da strega. Ora vedrò “Noi” e poi spero di trovare una buona pizzeria. Il mio Garmin mi dice che ho percorso cinque kilometri e trecento metri a piedi e così mi sono ricordata che non ho partecipato neppure quest’anno alla Milano marathon. Corro da tutta la vita ed è da tutta la vita che odio correre: ormai dovrei accettare il fatto che quel momento di estasi che raggiunge il runner, quando diventa abbastanza allenato e consapevole, io non lo proverò mai. Non è mai stato il mio sport e forse non potrò mai perdonarmi il fatto che avrei potuto investire i miei sforzi di tutti questi anni in qualcosa di divertente. A pensarci bene potrei estendere questa osservazione un po’ a tutta la mia vita senza poter sapere mai come sarebbe andata.

Ho un freddo cane. Qui in viale degli Abruzzi non c’è quasi anima viva e io credo di non aver ancora detto una parola, da stamattina, forse giusto qualcosa mentre parlo da sola senza rendermene conto. Non so neppure di preciso di cosa parli il film che sto per vedere. So soltanto che Andrea lo ha consigliato e che io mi fido di lui. Fino ad ora non mi sono sbagliata, sebbene con gli anni mi sia resa conto che quando ho avuto ragione o torto non è mai stato per sempre in entrambi i casi. Intanto, per ora, so per certo che fidarmi di lui è giusto.

Cominciano ad arrivare dei bambini un po’ chiassosi e io mi rendo conto che è una cosa bella anche non avere alcuna responsabilità, stare zitta tutto il giorno, non correre la Milano marathon senza sentirsi in colpa e cimentarsi nella visione di un horror sapendo che se non ti fidassi di chi te lo ha consigliato non lo avresti mai considerato. Ma alla fine ho imparato che scegliere sia uno sforzo sopravvalutato. Subire gli eventi non è necessariamente una modalità peggiorativa dell’esistenza. Può essere una gran fortuna, soprattutto quando si è data ampia prova di non essere dei campioni delle scelte ottimali.

Mamma mia quanti bambini! Che baccano. Meno male che tra qualche minuto il cinema apre e loro andranno tutti nell’altra sala.
Sono proprio fortunata 

mercoledì 3 aprile 2019

Come “marcia” il cambiamento?

In fondo è un po’ come me lo ero immaginato. Ormai sono tanti anni che lavoro, circa quattordici, di cui quasi dieci in amministrazione e non avevo mai aderito a nessuno sciopero tra quelli indetti prima di quello di ieri. Le ragioni sono molte ma tutte sostanzialmente riconducibili al fatto che non mi piacciono le logiche, gli obiettivi e le dinamiche sindacali che si sviluppano nella pubblica amministrazione. La mia è per lo più una forma di sdegno contro di loro. Ma quello che sta succedendo per assecondare l’inettutudine della politica nelle strategie di recupero di risorse necessarie a finanziare le sua sciocche promesse a fondo perduto (quota cento, reddito di cittadinanza tra quelle di maggiore appeal mediatico, ma non solo quelle) mi ha portato in strada assieme alla quasi totalità dei miei colleghi. È stato un bel momento di partecipazione del quale conserverò memoria. E poi ho ritrovato colleghi di altri uffici in cui ho lavorato in passato e che non vedevo da anni. Mi ha stupito che tutti loro mi hanno detto la stessa cosa: ti leggo sempre su fb e mi piace quello che scrivi. Ad oggi non ho ancora capito che cacchio scrivo di così simpatico per certe persone. Io, che sono una maldestra, timidissima, sociopatica, per lo più incapace di intercettare un uomo normale che mi ami in modo anormale e che passo la vita a portare i segni di offese e mortificazioni o a vedere film che mi portino un po’ di conforto, o almeno di confronto. Quello che rimane sono soltanto poche attività di copertura di un vuoto che spesso mi esaspera.

 Gran bella giornata quella di ieri.

Da mesi sto procrastinando un controllo medico su una questione fisica che mi lascia perplessa e mi chiedo se sia questo un atteggiamento completamente scellerato oppure se sia sufficiente non provare nessun sintomo per pensare che sia ancora tutto ok. Il fatto è che fino ad ora ho sempre avuto l’ottima scusa di un sacco di cose da fare e sono mesi che ormai dico “vabbè, se ne parla domani. Può darsi
che intanto la cosa si risolva da sola”. Sono proprio una scellerata.

È una cosa bella svegliarsi con un primo pensiero diverso ogni volta. Lo è di certo per me, che sono sempre stata vittima di inutili chiodi fissi grazie ai quali ho costruito tormenti del tutto privi di fondamento eppure pesanti come zavorre. Di solito era per qualcuno che si divertiva a farmi del mare (che novità), qualche volta per difficoltà oggettive legate al dover fare tutto da sola, o per il lavoro che non riuscivo a trovare, e poi per una cosa che non si può risolvere ma che mi è bastare imparare ad accettare come condizione in sè. Oggi quando apro gli occhi penso solo alla mia moka pronta, al libro che vorrei finire non troppo presto, alle i,prescindibili lezioni di cinema. E poi penso alla gran fortuna di non dover conquistare chi mi piace perché tanto è già impegnato e posso sognarmelo perfetto cosi come pare a me.

Ieri è stata una bella giornata. Lo ripeto perché me lo devo ricordare. Ho fatto una cosa nella quale
non credevo fino in fondo come uno sciopero eppure mi è sembrato tutto assolutamente necessario. Ho pranzato allo stesso tavolo con persone con cui ho in passato avuto un rapporto a dir poco problematico e che, riuscendo a cancellare tutto ciò che ormai è stato, mi hanno fatto ridere e riportato ad un’armonia dimenticata.

Io non lo so come avvenga davvero un cambiamento profondo. Alcuni dicono che sia repentino perché si ritiene che sia frutto di un fermento sotterraneo rimasto soffocato per troppo tempo e che cerca solo il momento adatto per esplodere. Per altri è il prodotto di un processo graduale, persino impercettibile, fatto di metodo, visione a lungo termine, concentrazione e tenacia.
Io credo che, qualche volta, il cambiamento sia semplicemente un’intuizione che sopraggiunge inattesa. Persino durante una marcia perplessa per sostenere uno sciopero. O tra persone ritrovate. O per distanze che si accorciano. Fino alla scoperta di una sorprendente normalità