Sola andata

Sola andata

lunedì 20 maggio 2019

Non me la racconto. Così forse la capisco meglio

Non aggiorno questa pagina da un sacco di tempo. In realtà non me ne dimentico mai: mi piaceva l’abitudine di raccontare le sensazioni che si affastellano senza una logica precisa nel corso di una giornata e che cominciano a sembrarmi un po’ degne del mio sforzo nel quotidiano soltanto dopo averle fissate per iscritto. È un periodo un po’ così, pieno di cose normali, senza smanie, senza “aritmie” cardiache, con equa ripartizione tra amata solitudine e amabili compagnie. Credo che sia la prima volta da tanto tempo che non mi senta tormentata proprio da nulla: non ho un ultimo pensiero della sera o uno del primo mattino che mi ossessioni, ho ancora la stessa taglia, la signora del piano di sopra non fa rumore e mi ha ritinteggiato l’infiltrazione sul soffitto, ho finalmente riparato la lavatrice con una modica spesa, vedo dei bellissimi film, seguo tutti i corsi che mi piacciono, non piango da un sacco di tempo e non porto rancore neppure verso chi mi ha umiliato. Ecco, quando sto così vorrei scrivere che sono felice, o che non sono infelice, ma non ne ho mai voglia davvero. Mi pare una cosa inutile. È come se l’assenza di tormento non avesse una sua vera dignità narrativa.

Qualche tempo fa, durante una delle lezioni sul cinema e la fotografia, Andrea ha citato un regista filippino, Lav Diaz, che fa film anche di otto ore in cui non vi è una trama. Solo una sequenza di immagini non correlate tra loro da nessuna connessione narrativa. Gli ho chiesto che senso avesse parlare ancora di cinema per una operazione del genere. Lui mi ha risposto che il cinema contemporaneo e più sperimentale qualche volta è anche volutamente antinarrativo, e da Lynch in poi questa è un’attitudine che ormai sta definendo un suo solco ben preciso. Poi mi ha detto pensarci. E io ho provato a farlo per davvero.
Sono partita immaginando una storia da raccontare e ho provato a trasformarla in una sorta di “non racconto”. Mi sono chiesta se ridurre una storia qualunque in una sequenza di immagini sconnesse tra di loro, destrutturate nel tempo e nello spazio, come mescolandole idealmente, possa continuare a possedere una sua ipotesi di rappresentazione per il solo fatto che quelle immagini conservano un
significato a sè stante e non in quanto collegate alle altre con cui compongono un vissuto preciso.
Può darsi. Può essere che se con Lynch la destrutturazione narrativa voleva dire compiere uno sforzo di decodifica per ritrovare una coerenza narrativa che poggia su un piano logico e percettivo diverso,
con Diaz il racconto si componga di “monadi”, di racconti istantanei che si risolvono in ciascuna  dalle foto poi raccolte in un film che può essere potenzialmente di durata infinita. Può darsi. È solo che io non ho voglia di sapere se sia davvero così se per averne conferma devo impegnare un tempo per ora irragionevole.

Io credo da sempre che certe esperienze possano anche semplicemente essere intuite, piuttosto che vissute direttamente. E se ci penso bene è una forma di antinarrazione pure questa: ragionare su un film proprio perché non lo si è visto e perché vederlo significherebbe soltanto ammettere con certezza che non se ne può dire nulla. Un po’ come faccio io da sempre con l’amore: mi piace soltanto quello non vissuto, di cui non posso raccontare nulla, nè le esperienze, nè se sia durato il giusto, non posso
parlare della stanchezza o del divertimento che mi ha procurato.
Di quelli vissuti potrei raccontare un mucchio di cose, dall’euforia alla desolazione, dagli episodi esaltanti alle conclusioni traumatiche o semplicemente fisiologiche. Tutti accomunati da una trama in fondo prevedibile e blindata nello schema rigido di una finitezza obbligatoria. Forse è proprio vero che il racconto così come lo conosciamo è un concetto sempre più sopravvalutato, come l’esperienza effimera, come i tempi morti, l’energia sprecata, la dispersione...
Ma come si fa a saperlo davvero fin dall’inizio? Io credo che si possa. Ne sono sicura, come lo sono dell’inutilità degli amori che poi finiscono. Non bisognava neppure iniziare.

Forse non è vero che la vita si debba viverla per raccontarla. Bisogna viverla per il motivo esattamente opposto: riuscire a percepirne senso, spessore e significato indipendentemente dalla sua effettiva traducibilità narrativa.

Quando rivedo Andrea glielo dico che poi c’ho pensato davvero a questa cosa. Ma il film di Lav Diaz  me lo perdo lo stesso



martedì 7 maggio 2019

Stabili equilibri precari

Ci sono conferme che non ho voglia di ricevere. Per me certe intuizioni devono posizionarsi nel limbo del mai confermato, delle convinzioni profonde che valgono solo per la mia personalissima esperienza e visione delle cose. Per gli altri, almeno per quelli che ai miei occhi rappresentano delle gioiose eccezioni al mio pessimismo sulla stabilità dei sentimenti, ho bisogno di essere sicura della riuscita incorruttibile di certi legami. Però poi lo so che, ad un certo punto, troverò conferma della mia amara coscienza della fallibilità di lungo termine della quasi totalità dei rapporti umani. Così mi pare sia accaduto anche per quanto riguarda la mia amica, una a cui una volta ho dedicato uno dei miei primissimi post di questo blog.
All’epoca (era il 2015) raccontavo di una madre bellissima e premurosissima, di quelle che interpretano la maternità come puro amore e non come pretesto per soddisfare delle ambizioni più o meno represse. È una donna molto bella, dolcissima, di quelle che ti pare sempre che facciamo la cosa giusta, col marito bello e col quale c’è sempre pieno accordo. Non è un fatto strano, se proprio ci penso. Le cose cambiano anche semplicemente perché i figli crescono e la voglia di uscire più spesso con le amiche diventa un atto dovuto a se stesse dopo tanti sacrifici. Oppure c’è qualcosa che inevitabilmente mi sfugge delle dinamiche affettive di lunghissimo termine e per le quali ho sempre solo avuto un sacro timore reverenziale. Il fatto è che osservandola con gli occhi di un’amica che la stima e che le vuole sinceramente bene, mi pare meno stanca ma pure meno felice di una volta. Forse la mia è solo un’impressione, falsata a sua volta da una percezione condizionata dalla mia insana passione per la vita domestica solitaria.

Io non ho mai sofferto di solitudine. Credo che sia questo il mio vero dramma: vorrei trovare l’amore incondizionato ma allo stesso tempo è questa la cosa che più mi fa paura al mondo. Non ho alcun interesse per le frequentazioni occasionali, gli incontri in chat o nei siti deputati a questo nuovo spirito degli approcci. È una roba che proprio non mi riguarda nè mi incuriosisce neppure come esperienza antropologica. L’altro dramma è quello di non pensare mai al...beh insomma ci siamo capiti. Non so cosa sia l’orologio biologico nè ho mai neppure vagamente contemplato l’idea di avere dei figli. Ho spessissimo bisogno di abbracci e vorrei avere qualcuno sempre a portata di baci senza per questo rinunciare a starmene per conto mio nella mia casa piccola a lavare i piatti a mano e con il letto sotto il tetto. Tutto qui: malinconico oltre che poco costruttivo, ma io davvero non penso che questo. Forse non ho mai capito nulla di certe porte del paradiso che non hanno mai acceso la mia curiosità al punto da decidere di scoprire cosa mi celassero.

È un maggio freddo, io sono diversa da qualche anno fa, quando parlavo estasiata della mia amica moglie e madre perfetta. Anche lei è cambiata, ma è ancora bella come allora.
Il passaggio dalla stabilità all’instabilità non è detto che imbruttisca. Anzi, forse tonifica.
Me lo devo ricordare più spesso. Così forse faccio pace con le cose che finiscono. Come certi piaceri
passeggeri che, così dicono, mi farebbero bene. Se soltanto lo volessi.