Sola andata

Sola andata

giovedì 17 febbraio 2022

La forza è dell’abitudine? Oppure no?

 Ho uno strano rapporto con l’abitudine e in generale con tutto quello che richiede un’applicazione ripetuta e duratura di certe attività. In linea di massima mi rassicura: sapere di “dover” fare una cosa, sempre e in quella precisa maniera, senza che mi sia richiesto un valore aggiunto di impronta personale, ha qualcosa di rassicurante che si sostituisce alla responsabilità di una mia scelta creativa non premeditata e dagli esiti ignoti. E poi è “allenante”, crea disciplina, agevola approfondimento e perfezionamento, pure se in mezzo si è costretti spesso ad attraversare un mare di noia e se rimane in fondo abbastanza vero che essere troppo abitudinari vuol dire rischiare di crearsi delle rigide gabbie schematiche, dei forti limiti alla fantasia e alla scelta di strade nuove, più efficaci più divertenti. Vai a sapere…

Io sono un’abitudinaria col senso di colpa, nel senso che mi sento in colpa sia quando mi ostino ad essere costante, sia quando voglio fare la ribelle e tento strade nuove di emancipazione dalla routine. Una vera fregatura, non c’è che dire. Forse la quadra si raggiunge davvero solo quando si tocca quella meravigliosa quanto rara qualità definita capacità di adattamento. Che nel mio caso significa soprattutto adattamento a me stessa. Che poi finchènon danneggio altri mi sta pure bene così: non possiedo la grazia e la lucente armonia dello stare al mondo di una Csaba e pensare che qualcuno possa trovare normale vivere con una che si sveglia alle 5 meno dieci del mattino per allenarsi e prepararsi uno stranopranzo per il lavoro è ipotesi tanto remota quanto crudele per un essere umano senza gravi colpe da espiare. Lo capisco persino io.


A volte mi capita di leggere, in realtà è una vera abitudine pure questa, i blog di mamme scrittrici/giornaliste/signore più o meno famose e i loro trucchi per riuscire stare dentro a tutto, tra famiglia, lavoro, autonomia…c’è spesso dell’autocompiacimento in questo strano equilibrismo quotidiano nel quale gran parte delle cose che sono “abituate” a fare mi risultano estranee per l’ovvio motivo che non mi trovo a vivere quella loro stessa condizione. Qualche volta avverto anche in loro la sensazione di non farcelané a continuare così e neppure a cambiare, una velata frustrazione che lamenta spesso uno scarso supporto esterno, mancanza di servizi a tutela di mamme, lavoratrici, donne impegnate. Tutte pretese più o meno legittime, credo. Non lo so davvero in realtà. Io sono cresciuta con l’idea di dover chiedere e pretendere il meno possibile dagli altri. Non so neppure se sia tutto in loro sia frutto di una scelta precisa, oppure l’ennesima’”abitudine” sociale collaudata a cui è naturale conformarsi. Non so neppure se la loro vita sia davvero più faticosa della mia, più interessante, più “sentita”, più ricca d’amore vero o se invece il loro carico di immaginazione tra quello che si è e quello che si sarebbe voluto essere sia lo stesso per me e per loro e che per entrambe la vera assoluzione sia proprio una sorta di assuefazione al dato di fatto. Come ci ficchiamo in certi percorsi? E perché li rendiamo obbligatori perseguendoli come dei soldatini? Ci piacciono davvero? Oppure semplicemente abbiamo imparato a familiarizzare così tanto con loro da trovare in questo piccolo mondo ormai conosciuto tutta la sicurezza che ci serve? Mah.


Potrei però decidere dell’altro, scegliere di rivoluzionare ogni cosa. Per esempio domani potrei svegliarmi alle 8, non preparare il pranzo, non allenarmi, consumare il mio pasto in una di quelle infime bettole vicino all’ufficio dove il sugo assume i toni del fucsia, fumare una sigaretta su una panchina di Piazzale Martini dove di solito osservo gli altri per cucirgli addosso vite improbabili. Oppure potrei accettare un incontro su Tinderandare in giro coi tacchi a spillo, mangiare una fetta carne, leggere Coelho. Mio dio no. E’ tutto impossibile. Io sono tutte le mie scelte. Le mie abitudini ormai mi definiscono in modo irrimediabile. Non c’è scampo. Devo farci l’abitudine

sabato 12 febbraio 2022

Visita al museo. Dove ho lasciato il mio migliore tempo perduto

 Ho attraversato Milano a piedi. Da casa mia al Duomo impiego poco più di un’ora a passo spedito. Un sole magnifico, tanta gente, un cielo terso. Dopo una intera mattina a cucinare e riassettare mi sono precipitata in strada col proposito di essere dove sono ora: alla cineteca di Milano, esattamente il punto di Milano più lontano da casa mia. È ormai lontano il tempo in cui mi fiondavo qui per colmare le mie lacune cinefili tra film rari e corsi che ora sono soltanto on line. Mi pare un’altra vita, un altro tempo. È straniante eppure in fondo è anche normale che certi cicli si concludano indipendentemente dagli impedimenti esterni che li hanno interrotti bruscamente. Lo so, eppure mi fa male trovarmi qui e sentirmi meno felice di come vorrei. 

Se ci penso bene sono tante le cose che ho interrotto da quando vivo qui e tutte coincidono con persone che ho perso, legami che non si sono consolidati, esperienze troncate dal caotico susseguirsi di altre cose da fare e che mi portavano altrove: i gruppi di running con aperitivi, cene, gite fuori porta, le mille palestre frequentate e le chiacchiere da spogliatoio che nessun uomo arriverebbe mai a comprendere in pieno, i tantissimi corsi serali prima di approdare a quelli del cuore che non abbandono neppure ora che sono soltanto on line, gli eventi sulla qualunque che se non sei di Milano non puoi sapere veramente di che si tratta. Tutte cose che ho interrotto così come era giusto, non per costrizione innaturale. È accaduto a basta. Senza rimpianti o malinconie. E invece tornare qui mi ha fatto male in quella maniera che sentì quando avverti uno strappo violento, come se nel frattempo avessi perso qualcosa di prezioso che mi è stato negato per sempre. Solo adesso mi rendo conto di quanta umiliazione abbia sopportato anche senza accorgermene troppo. Ho passato questi mesi a cercare di capire il senso di tutti questi obblighi e costrizioni perdendo di vista quello che davvero mi è stato tolto. E ora che mi pare di rinascere tornando qui dove ero ancora rimasta col cuore, mi pare di avvertire solo una perdita incolmabile. Che assurdo corto circuito. Che strano malessere.

Qui c’è la mostra di King Kong e la manona di Rambaldi che campeggia nell’atrio. Tra poco ci sarà suo figlio a raccontarci cose che di certo non scorderò. Credo che sia un privilegio immenso quello di poter essere qui, proprio adesso, e ritornare a “toccare” le emozioni. E invece mi arrovello su questioni astratte, su un tempo ormai perduto e che non tornerà mai più. 

Per fortuna ci sono i musei e i vecchi film  che custodiscono solo il tempo migliore. Mica quello inutile degli ultimi due anni. Quello ahimè lo abbiamo perso  un po’ tutti. Ma forse è solo che sono ancora un po’ arrabbiata. Tanto tra qualche minuto comincia la visita e mi passa tutto. Già lo so. Evviva. 

giovedì 3 febbraio 2022

L’”illuminazione” di febbraio

 C’è una luce anomala per un mese come questo e io certe cose non posso non notarle, essendo geneticamente abituata ad assistere al faticoso ma sempre affascinante passaggio dall’oscurità al graduale delinearsi dei contorni del mattino. Febbraio ha dalla sua l’inganno psicologico di essere un mese facile da superare perché più corto degli altri e poi perché capita dopo un gennaio che pare sempre essere eterno. Quante sono le sciocchezze a cui diamo il potere di condizionarci l’umore e l’atteggiamento verso le cose... Per me rimane il mese dell’assestamento: mi faccio una ragione di quello che è stato, nel bene e nel male, l’anno passato, e gennaio invece mi fa da contenitore per obiettivi e speranze per l’anno nuovo. Febbraio è il mese delle prime implementazioni, dei tentativi più sperimentali e questo in fondo me lo rende simpatico e poco giudicante. Però c’è davvero troppa luce, mi pare già primavera, quel meraviglioso periodo dell’anno in cui la cosa più importante per me è starmene al parco dietro casa a leggere sulla mia panchina preferita, mentre in questa fase di solito mi aspetta tutt’altro, per esempio una enorme corazza di pazienza e attitudine mentale all’azione. Eppure, forse, potrei anche godermi questo inatteso “non buio” che mi illude che ci sia un tempo dilatato nel quale accadono più cose. Accadono più cose…che vorrà mai dire in un periodo che dura ormai da tanto e nel quale ci è stato chiesto di fare il menopossibile e quel meno ci deve essere autorizzato assieme a mille altre restrizioni e impedimenti. Chi lo sa e in fondo che mi importa: ho il privilegio di vivere in una città che mi fa ricordare che se vivessi oggi nella mia provincia probabilmente sarei diventata matta. 

Sta per tornare San Valentino e mi fa impressione pensare a quanto tempo è che non ne festeggio uno e che per la prima volta mi pare una cosa bella, una retorica mancata, un fattore a cui riesco a non dare più alcun peso. Ecco, se dovessi pensare alla vera rivoluzione della mia vita in questi ultimi due anni direi che è questa: il radicale mutamento della mia idea di amore (o di mancanza dello stesso). Basta romanticismo, basta idealizzazioni. Per la prima volta osservo la mia condizione di persona sola come allo scampato pericolo dall’inganno delle tempeste “ormonali” e del pur umanissimo bisogno di sentirsi amati o, peggio ancora,della necessità riproduttiva. Penso, per la prima volta, che è bello non avere la responsabilità di altri che di se stessi e di riuscire a non confondere questo con l’egoismo. In realtà è esattamente il contrario. Ho sempre agito, a mia insaputa, obbedendo a questa idea. Ora lo so.


Febbraio mi ha portato per la prima volta nella casa in cui vivo da ormai dodici anni e che sto per svuotare proprio come lo era quando l’ho vista per la prima volta: in mezzo tutto un vissuto gioioso e doloroso che posso osservare chiaramente soltanto adesso, con tutta questa luce che a quel tempo non c’era, quando le pareti erano umide e piene di muffa e i tubi del bagno ad un certo punto esplosero e poi al piano di sopra c’erano sempre tante persone che ballavano continuamente e adesso non ci sono più. E poi mi ricordo di tutte le persone che ho accolto, quelle che non vedo più da tanto e quelle che non hanno significato più nulla da un certo punto in poi. Credo che tutto sia cominciato e finito sempre in un qualche febbraio di questi anni, quando la luce era ancora troppo poca e il freddo più pungente, quando le possibilità erano di più, ma pure gli errori. Adesso ho le pareti colorate e senza muffa, un bagno nuovo e dei mobili di cui sto per liberarmi perché incapaci di custodire altri ricordi. Febbraio si è fatto luminoso, così, senza avvertire, quasi a dire che cambiare alla fine non è mica una scelta. Una scelta, casomai, è non farlo e ostinarsi a cercare il buio pure quando le cose sono diventate tutte chiarissime. Bisogna approfittarne. Febbraio, forse, dura così poco apposta.