Sola andata

Sola andata

martedì 25 aprile 2023

Uno zaino è sufficiente

 Il frigo è quasi vuoto e i piatti già pronti nel congelatore, come da programma, la lavatrice è carica e soltanto da avviare, il letto rifatto, il bagno pulito, la casa quasi completamente rassettata. È quasi tutto pronto per la mia piccola vacanza via da Milano, dopo giorni densi e belli, come possono esserlo solo quelli in cui programmo, aspetto e riesco a godermi delle brevi parentesi di riposo profondo dopo periodi di profonda stanchezza. Sapevo che il 2023 mi avrebbe regalato cose inevitabilmente migliori dell’anno passato, non solo per quello che sarebbe arrivato - come il film che aspettavo o una pace domestica ritrovata, o gli altri libri di Carrere che ho colpevolmente scoperto troppo, troppo, imperdonabilmente tardi, o anche per il corso di yoga che mi ha aperto a nuovi modi di intendere il mio benessere che ho aggiunto a quello basato esclusivamente sul sacrificio e la resistenza al dolore. Sono stati giorni belli di mesi che mi sono sembrati molto generosi. E ora sono qui, con un biglietto e un albergo prenotati in una città che volevo visitare da tanto tempo, pronta per staccare da ogni cosa almeno per qualche giorno.

Ieri volevo donare il sangue, ma non mi è stato consentito perché mi è stata rilevata una forte carenza di ferro. Lo immaginavo, mi capita piuttosto spesso negli ultimi anni. Pazienza, in fondo sentirmi sempre stanca è una cosa che mi pacifica psicologicamente con i miei sensi di colpa e poi mi ha aiutato a dormire tantissimo,  come non ricordavo da anni. Tra le cose migliori di questo periodo ci sono le due volte in cui ho goduto del nuovo film di Moretti: nessun regista mi riguarda quanto lui, la sua lucida malinconia, il pessimismo irrimediabile ma sempre intriso di ironia e di umorismo intelligente, la sua concezione del cinema e quella maniera tutta sua di intendere il modo in cui le cose dovrebbero essere raccontate. È stato bellissimo ritrovarlo e riflettere su tutto quanto.

Qualche volta faccio un piccolo esperimento social. Vado a commentare quei post “divisivi” che pubblicano i giornali on line giusto per creare traffico e il risultato è che succede sempre la stessa cosa: qualche buontempone, di solito over sessanta, mi risponde piccato, poi sempre di più man mano che io rivendico la mia opinione, fino ad arrivare alle ingiurie, alle offese volgari, le parolacce, insulti di ogni genere. E tutte le volte penso che i social servano ormai solo a dimostrarmi, una volta di più, che la maturità sia soltanto molto raramente il risultato di un percorso di miglioramento dell’individui. Il più delle volte diventiamo semplicemente quello che siamo sempre stati, senza una reale evoluzione. Semplicemente ci “consolidiamo” nella nostra condizione di partenza, nella nostra natura primigenia. Tutto qui. Anzi, spesso, semplicemente, peggioriamo. Perché è più facile, oppure perché non migliorare in realtà vuol già dire peggiorare. Chi lo sa. E chi sono io per non ritenermi parte di questo meccanismo banale di sforzo mancato di allontanamento dal peggio di me?

Certe volte penso che in fondo a me ormai basta davvero pochissimo per provare soddisfazione. Potrei assicurare che un letto ben fatto, una casa perfettamente in ordine, un piatto ben cucinato rappresentino senz’altro la causa principale della mia serenità quotidiana. Almeno da quando ho capito che non vorrei che qualcun altro lo facesse per me e da quando ho imparato a godere del mio silenzio più della conversazione e ad accettare il fatto che “mi troverò sempre a mio agio e d’accordo solo con una minoranza di persone”. Per le altre sarò sempre il prodotto un po’ noioso e alquanto contorto di una mentalità poco socievole e scarsamente espansiva. La cosa non mi dispiace più da un sacco di tempo.

Devo ricominciare la cura di ferro. Lo zaino è pronto. Il congelatore è pieno di cose che mangerò al mio ritorno. La casa è pulita e l’orrendo bambino del piano di sopra è ancora un incubo relegato al 2022. Spero di vedere un bel posto. E poi di rientrare e ritrovare tutto proprio come sto per lasciarlo adesso. Sono pronta. Sono quasi pronta. Come da sempre



giovedì 13 aprile 2023

“Grazie di esserci stata”

Il mio rapporto con il lavoro non è mai davvero cambiato. Mi fa un po’ impressione affermarlo in un’epoca in cui sta diventando dilagante il fenomeno di persone più giovani di me che decidono di licenziarsi “perché la vita è una e passarne la maggior parte a fare quello che non appassiona vuol dire morire già prima di morire”. La mia reazione a certe affermazioni è sempre la stessa: concordo pienamente ma mi sfuggono le alternative valide per riuscire a vivere davvero la vita che si sogna quando il lavoro che piace poi non lo si trova. Io so soltanto che sono stata “indirizzata” fin dalla scelta universitaria al posto fisso, preferibilmente pubblico, e che al tempo mi è stato fatto pesare dai miei pure l’essermi laureata sei mesi dopo il tempo canonico. Direi che sono il prodotto quasi perfettamente riuscito di una logica piccolo borghese senza particolari ambizioni nè margini di scelta troppo estesi. In fondo mi sta bene anche così: mi ha permesso di andar via abbastanza presto, di non dover dipendere da nessuno e di usare i miei soldi per coltivare quella povera me stessa che se ne è stata zitta, ferma e in attesa per tutti gli anni in cui piangevo per gli esami di diritto e di economia che vivevo con angoscia e tremenda fatica. Va bene lo stesso, anzi, forse non avrei potuto fare che così. E poi da quando in ufficio ho la stanza singola, in una zona appartata pure dalle aree di transito, il mio posto mi pare un’area zen creata apposta per garantirmi ora di solitudine e silenzio carichi di beatitudine. Eppure qualche volta succede persino a me che qualcuno bussi alla porta per un saluto, due chiacchiere, uno spuntino da condividere. Oppure per dirmi cose belle e un po’ inaspettate come quelle di oggi.

“Sono venuto a salutarti perché hanno approvato la richiesta di trasferimento e per dirti grazie di esserci stata”. Questo mi ha detto uno dei colleghi con cui avevo legato di più fino a poco prima del covid: con lui ho condiviso lunghe chiacchierate in giro per Milano, chilometri e chilometri di passeggiate lungo la Martesana a confessarci cose come se i nostri reciproci drammi si intendessero reciprocamente sul territorio comune dei traumi mai risolti del passato. Una volta siamo persino andati assieme a raccogliere della frutta in una zona bellissima dell’Emilia dove aveva affittato una casa che usava come deposito per tutte le cose da cui non riusciva a separarsi. Ogni tanto mi capita di avere amicizie fatte così, di fiducia reciproca ben riposta e senza derive tossiche o equivoci, in cui il piacere di raccontarsi incontra quello di condividere esperienze concrete che si cristallizzano inesorabilmente nei ricordi di lungo termine. In quegli anni era anche un lettore di questo diario e così una volta si presentò addirittura con le stampe di certi miei vecchi post perché voleva analizzarli assieme a me. Mi colpì molto e un po’ mi imbarazzò: non ho mai pensato che il mio blog meritasse addirittura degli approfondimenti invece di una rapida lettura giusto per sapere i fatti miei. Siamo stati amici così, senza l’impegno della continuità a tutti i costi ma con il senso profondo del suo significato.
Poi non ci siamo più visti per tanto tempo tra covid, una nuova compagna per lui, lo smartworking unito alla soluzione part time, io che cambio la mia stanza. E poi oggi. Che viene a trovarmi con la pacata familiarità di chi ha conservato i toni confidenziali di un tempo, come se intanto non fossero passati questi anni di assenza reciproca. Solo per dirmi quel grazie così pieno e così inaspettato. 

Ho capito molto presto che non avrei mai trovato il lavoro della mia vita, più o meno quando ho scelto la mia strada sapendo perfettamente che mi avrebbe solo allontanato dal mio vero posto. Lo dico senza rimpianto perché in fondo ancora oggi non ho capito quale fosse questo mio vero posto. E poi in fondo posso vantarmi io stessa, come i tik toker contemporanei, di essermi licenziata da un lavoro (pagato il giusto e persino fisso) perché non mi piaceva e volevo fare il dottorato soltanto per ritrovare il mio adoratissimo prof di una facoltà che, è vero, non mi piaceva a sua volta ma che alla fine mi aveva dato molto. Ricordo ancora il coraggio e l’arroganza di quegli anni pazzi e sconclusionati, con quella presunzione priva di fondamento che mi sarei data altre opportunità. Sono arrivate, ma non era mica detto. Le ho desiderate? Credo di no, ma è stato divertente raccogliere la sfida e provare a cambiare.

Non lo so cosa avrei fatto se la mia vera strada l’avessi trovata davvero. Oggi non credo abbia più molta importanza, ma sono molto contenta che alla fine mi abbia condotto fino alla mia stanzetta d’ufficio, tranquilla e appartata, dove un vecchio amico e collega è passato a salutarmi per dirmi poche parole, tutte belle. E che non scorderò 

martedì 4 aprile 2023

Cattivissima me (?)

 Non credo che mi rassegnerò mai a certi lati così intransigenti del mio carattere. Forse perché in fondo costituiscono ancora la mia migliore forma di difesa verso un certo modo di relazionarmi con le persone che hanno orbitato nella mia vita, spesso non per scelta. Ci sono periodi in cui mi capita di ricordare cose di quando ero bambina: da uno schiaffo improvviso e inatteso da mia madre o dalla maestra (pare che ai tempi fosse la norma. Per me, purtroppo è stato così), al tradimento dell’amichetta del cuore o di quelli delle persone a cui ho creduto di voler bene, ai raggiri subiti a scopo opportunistico, alle prese in giro, giusto così, perché a qualcuno andava di divertirsi un po’ alle mie spalle e a certa mia ingenuità congenita. Ogni tanto, a intervalli non troppo regolari, mi torna in mente tutto questo. Tutto. E mi pare quasi di toccarla quella stranita me stessa di allora, smarrita, incredula, che spesso non capiva neppure di fronte all’evidenza, che a volte persino lo accettava come fatto normale. Credo che sia qualcosa di legato al sentire di non meritare davvero quello che sognavo di raggiungere, che poi era sempre il bene delle persone che mi piacevano. Non lo so. Sta di fatto che oggi temo di pagare buona parte di quel conto, di quel passato mai vendicato o metabolizzato col dovuto “lasciar andare” e così credo che il mio ricordare tutto sia legato a delle forme di rancore che mi piace custodire come corazze da stoccare nel mio ripostiglio dell’artiglieria della difesa. Non posso dimenticare e non ho neppure nessuna voglia di perdonare. Non credo sia molto edificante come atteggiamento, eppure ancora non mi riesce di definirlo propriamente una colpa. Anzi a dirla tutta, più mi pare cattivo il mio atteggiamento verso certi ricordi e più prezioso mi sembra il valore della mia dignità recuperata. Potrei cominciare dalla sensazione peggiore che abbia provato nella mia vita: l’assoluta assenza di dolore per la morte del fratello di mio padre. Ad un certo punto della sua vita ebbe ad avere parole e comportamenti così schifosi nei confronti della mia famiglia, ma soprattutto nei miei confronti (per invidia legata a favorevoli questioni economiche che mi riguardavano) che non ho mai dimenticato e per le quali, quando è morto prematuramente e tra atroci sofferenze per una grave malattia, d’istinto ho solo pensato che non avevo alcun motivo per rammaricarmene. E così capita che a volte mi spaventi io stessa della mia totale incapacità di perdonare. Poi però non trovo ragioni sufficientemente valide per cambiare. E’ grave? Credo che lo sarebbe se sentissi di non essere capace di voler bene. E invece non è così.

Ci sono persone per cui farei tutto il possibile pur di vederle crescere, migliorare, raggiungere ogni obiettivo da loro desiderato. E questo malgrado non ci siano vincoli di parentela né scopi secondari. Cosa decide davvero il nostro avere cura dell’altro? È davvero possibile arrivare ad amare l’intera umanità semplicemente ammettendo la fallibilità di tutti, della nostra per prima, perdonando, dimenticando, ricostruendo un legame nuovo? Io non ne sono capace. Non più. Forse non mi interessa come una volta, quando la paura della solitudine mi rendeva meno schiacciata dalle parole e dai gesti che però dentro di me già respingevo come estranei e svilenti.

In questo momento sono in casa, rientrata dal lavoro da meno di un’ora, dove tutto è in ordine e in frigo ci sono già pronti i pasti per domani da portare al lavoro, la wishlist di MUBI che mi aspetta con film che volevo recuperare da tempo, con la coscienza pulita di sapere che  stamattina mi sono allenata senza risparmiarmi e con il piacere un po’ bambino di avere a disposizione un altro cestino pieno di fragole. E sento che non potrei desiderare altro. Non è sempre stato così. Ma non è mai stato meglio di così. In passato ho trascorso questi momenti condividendoli con persone che non vedo più da tempo, sostanzialmente per le ragioni di cui sopra.

Qualche volta tra questi strani ricordi di “raccordo” col presente spunta pure quella volta che andai a prendere Pablito al gattile. Sono sicura che se lo avessi tenuto con me a Milano staremmo ancora assieme. Quella volta che mi scelse saltandomi addosso era un micino piccolo piccolo e con me c’era uno che non vedo ormai da anni e al quale all’epoca volli un gran bene. Eppure, per motivi che non ho scordato neppure stavolta, Pablito rimane l’unico tra quei due di cui senta ancora adesso una mancanza inconsolabile. Vedi alle volte i legami…