Sola andata

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lunedì 21 ottobre 2019

Equilibri(sm)o psicologico

Credo che funzionerà sempre così. Che io funzionerò sempre così. Fino alla fine dei miei giorni mi barcamenerò tra l’adesione fideistica alla disciplina, intesa come metodo e continuità perseguiti con una pervicacia ottusa, e un comportamento così “sbrodolone” da farmi pensare che solo un pietoso angelo custode riesca salvarmi dalle trappole dell’esistenza per consentirmi di sopravvivere a me stessa. A corollario di tutto questo c’è l’idea che questo sia il solo modo sensato per me di stare al mondo. E finché cocciutaggine e provvidenza saranno dalla mia parte io vado avanti così.

Sto usando i miei ultimi giorni di ferie dell’anno per sistemare un po’ di cose di ordine pratico, provare a riposare un po’ e recuperare qualche film che non avrei scelto se avessi avuto meno tempo a disposizione. Ieri mi sono imbattuta in un documentario sul metodo terapeutico di Jodorowsky: un connubio tra psicoanalisi e pratiche rituali estremamente ardite (tipo fare un dipinto col sangue del mestruo, farsi sotterrare simulando il proprio funerale, aiutare un balbuziente a guarire vestendolo da marinaretto per poi tenerlo a battesimo come adulto virile cospargendolo di vernice dorata e sangue, far camminare camminare una coppia in crisi in strada con delle catene per dimostrare che una relazione è ormai arrivata al capolinea...) che hanno ottenuto, sui pazienti intervistati, dei risultati a dir poco sorprendenti. La logica che anima questo percorso sta nell’idea che siamo noi a dover codificare l’inconscio e non il contrario e che la vera guarigione da un trauma debba passare attraverso una qualche forma di amore universale. Io sospendo ogni giudizio ma, comunque la si pensi, sforzarsi di sviluppare un pensiero laterale rimane una forma di apertura estremamente utile. Io resto “illuminista”, in realtà non credo neppure nel valore terapeutico della psicoanalisi perché non riconosco in questo il suo vero scopo. Ciò che si propone la “Psicomagia” di Jodorowsky, è quello di proporsi come un metodo, a metà tra la psicoanalisi, appunto, l’arte e pratiche rituali catartiche che coinvolgono il corpo e le sue risorse inespresse. Alla base di tutto c’è la convinzione che il lavoro sull’individuo sia solo una parte di un modello culturale basato sull’amore universale.
Sì...tutto molto bello...

Io non mi sono mai chiesta se sono o meno il prodotto di traumi di cui ho rimosso la natura e il ricordo o semplicemente il frutto di qualcosa di innato, se delle “strozzature” esistenziali mi hanno reso altro da ciò che avrei voluto o se mi è piaciuto diventare proprio così come sono. Forse non ho neppure voglia di saperlo e in fondo mi vado benino anche così come, probabilmente, “non” dovrei essere. Forse mi basta il malumore di un periodo che so che passerà e la mera accettazione di tutto quello che non posso controllare, mi bastano i miei meccanismi di autodifesa automatici, l’accettazione di una certa soglia di dolore, il rifiuto e la delusione come fatti della vita assieme alla convinzione che poi si trasformeranno in sensazioni sopportabili. A volte la faccio ancora più facile e mi dico che la vera terapia siano un po’ di sport praticato sempre (pare che i miei ormoni della felicità  arrivino solo così) e riuscire a non far caso ad un sacco di cose. Io ho risolto con la terapia della “disciplina sbrodolona”. Almeno fino a che la salute, e un angelo custode assai paziente, me lo lasceranno fare...




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