Sola andata

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domenica 21 aprile 2019

Di cosa si nutre il genio?


Appunti per Welles
...poi tornerò di nuovo a parlare di me...
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Nel novero delle poche verità incontestabili alla base del dibattito critico sul cinema c’è l’assunto che Orson Welles sia uno dei più importanti e innovativi registi del Novecento. I suoi film costituiscono un passaggio obbligato per chi di cinema vuole parlare, capire o anche soltanto godere. E questo, oggi, è fuori discussione. Ma purtroppo si sa anche che non è sempre stato così.
Nelle scienze economiche esiste una teoria, mutuata a sua volta da studi sul comportamento animale, denominata “Affamare la bestia” (“Starve the beast”), secondo la quale determinati soggetti dotati di particolari caratteristiche ad alto potenziale sono in grado di esprimersi al loro meglio soltanto in condizioni di estrema proibizione, in ottemperanza ad un principio di ottimizzazione di risorse scarse e di vantaggio comparato nelle dotazioni iniziali. In economia questo si traduce in attenzione puntuale all’uso dei mezzi di produzione, assenza totale di sprechi, utilizzo creativo delle risorse - interne ed esterne - a disposizione. 
Orson Welles è stato, rispetto a Hollywood, il prodotto forse meglio riuscito di questa teoria. Il suo talento, la sua “bulimia creativa”, il suo genio produttivo, costantemente umiliati e ostacolati dall’”Industria” sono stati paradossalmente soddisfatti proprio grazie alla fortissima penuria di mezzi e di opportunità. Un tentativo di fornire prova di questa ipotesi potrebbe essere quello di analizzare alcuni aspetti proprio di uno dei suoi film meno riusciti, a livello di critica e di pubblico e per ammissione dello stesso Welles: la “Signora di Shangai”, opera decisamente nata sotto una cattiva stella. Pare che in tutta l’America vantasse in Truman Capote il suo unico estimatore (in Europa invece fu più apprezzato), subì peraltro una gestazione lunghissima perché funestato da morti e malattie nella troupe, tagliato di quasi un’ora e mezza dalla produzione e rimontato un numero considerevole di volte senza mai tenere conto delle istruzioni fornite dal regista. In buona sostanza del film non rimane altro che una vaga approssimazione delle reali intenzioni di Welles. Ed è proprio questo che lo rende così interessante: il genio creativo rimane intatto anche quando il prodotto è stato svuotato delle sue stesse intenzioni. A confermarlo ci sono punti del film in cui l’estetica dei contrasti chiaroscurali a sostegno di una narrazione psicologica dei personaggi, l’adesione a tematiche dolenti sulla condizione umana e le sue contraddizioni, la messa in scena che omaggia una certa teatralità alla base di tutte le dinamiche umane fondate su rapporti di forza (il tribunale ma poi in altri film anche il mondo dell’editoria, della politica o della borghesia), che già rappresentano dei chiari indicatori della sua impronta del tutto peculiare e innovativa.
“Vi sono uomini che intuiscono il pericolo. Io no”. In poche parole tutte le ragioni di una disavventura e, in senso autobiografico, della condotta di una vita intera.
Ma è nei minuti finali che questa idea trova la sua forma più compiuta, quando Michael pare quasi invitare lo spettatore a scivolare assieme a lui nell’incubo della “crazy house”, laddove vertigine e insicurezza e poi figure multiple di identità indefinite e inganni rivelati lasceranno finalmente spazio alla verità. E al ritorno alla luce.
Welles è stato prima di tutto un intellettuale di solida formazione, ha fatto suo il fermento innovatore di matrice europea. È stato totalmente figlio e interprete poliedrico del suo tempo. Ma lo era anche di un luogo che a certi fermenti avrebbe contrapposto, almeno in campo cinematografico, un’idea narrativa diversa e della quale Hollywood era gelosa custode. Non stupisce dunque la costante difficoltà a finanziare i suoi film, l’intrusione esterna nella lavorazione, il costante rimaneggiamento dei suoi film fino all’incapacità di rendere immediatamente percepibile la portata innovativa del suo linguaggio filmico. Una tale mole di ostacoli avrebbe indotto alla resa chiunque. Non lui. Welles non si è mai lasciato scoraggiare dalla scarsità di risorse o dall’ostruzionismo facendo dell’ostinazione il vero motore per la realizzazione di progetti in condizioni estreme. Proprio come una “bestia affamata” che non contempla la resa.
“Vince chi gioca una giusta partita e non l’abbandona”
“Il solo modo di evitare questi guai è quello di invecchiare [...]Ma temo che morirò molto prima”
Forse nulla più di queste ultime battute del film, restituisce l’idea di insopprimibile necessità di seguire se stessi a dispetto di tutto. E di sperimentare costantemente.
Il tempo gli ha dato ogni ragione. E Hollywood gli ha restituito, con un ritardo in fondo perdonabile, tutto il dovuto


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