Sola andata

Sola andata

giovedì 11 aprile 2019

Oggi un post che vale per il compitino per il corso su Lynch.

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“Io...Noi, ti stiamo chiedendo di avere una mentalità aperta”
Quasi una dichiarazione d’intenti e forse un’esortazione dello stesso Lynch nei confronti di chiunque accetti la sfida di un’esperienza fortemente alienante, destabilizzante ma allo stesso tempo profondamente intima e individuale.
Per Mulholland Drive audacia narrativa, fascinazione estetica, suggestioni oniriche, turbamento irrazionale, tensione paranoica sono solo alcune tra le espressioni-chiave di più immediata ispirazione. La storia, pur nella sua disarmante complessità, è di facile sintesi. Una donna che sogna di essere una promettente attrice, tenta di rivelare l’identità di una sconosciuta. Alla fine troverà “soltanto” se stessa, i suoi sogni infranti e l’incapacità di accettare una realtà non filtrata dalla consolazione dell’immaginazione e del sogno. Sullo sfondo Hollywood, posticcia e spietata a fare da set per colpi di scena non subito chiari. Mentre il racconto si fa sempre più frammentato, ci si perde quasi subito tra numerose identità irrisolte e la sensazione costante che l’irrazionale governi e domini ogni cosa e che la narrazione individuale sia il mero prodotto di una eterna dialettica tra Caso e Necessità, in cui la volontà del singolo rappresenti solo un semplice innesco di quella lotta.
“Volevo proprio venire qui [...]. Sono due sogni ma è come se ne fosse uno [...] .Spero di non dover mai vedere quella faccia quando sono al di fuori del mio sogno”. Il sogno racchiude ciò desideriamo davvero assieme a quello che temiamo di più. Uscirne vuol dire esporsi al pericolo.
“L’atteggiamento di un uomo va di pari passo con quella che sarà la sua vita [...] Io voglio che lei pensi e che smetta di fare il furbetto con me”. Il Caso (o la Necessità?) si diverte a stuzzicare il regista facendogli credere di avere dei margini di manovra che, di fatto, non gli sono concessi.
Il regista:“Non voglio che recitiate. Aspettate di diventare veri”. Ma l’attore: “Ma recitare è reagire”. La scena del provino pare assecondare ogni cosa e mettere d’accordo tutti, ma appena fuori dal set, uno dei consulenti del regista osserva che per l’attore il copione non è più adatto.
“È lei la ragazza” ...”È una scelta eccellente, Adam”. Ma sappiamo non essere stata affatto una sua scelta.
“È tutto registrato [...] È solo un’illusione”
[...]
“Silenzio”.
La comprensione e l’essenza delle cose non sono traducibili in parole. Neppure il cinema lo pretende (si potrebbe qui azzardare una ardita similitudine col “silenzio” pronunciato da Fritz Lang nel “Disprezzo”). Il cinema si limita, appunto, a registrare illusioni.
Come si fa a parlare del cinema di Lynch senza rischiare di cannibalizzare le migliori intuizioni già al servizio delle analisi e interpretazioni più riuscite? Da dove partire per tradurre le suggestioni, la fascinazione, il turbamento, l’indecifrabile generati da tutto il “non-detto” dei suoi film? È stato osservato che i film di Lynch non vanno visti ma “usati” (Canova), quasi a definirli un’occasione esplorativa “multisensoriale”. Può allora valere anche vedere il film più e più volte per poi scoprire che in ciascuna di esse ci si troverà al cospetto di qualcosa di nuovo accompagnato da un paradosso: man mano che la trama diviene meglio comprensibile e lo snodo narrativo ritrova una sua, seppure surreale, coerenza, si viene inghiottiti in un gorgo di oscurità e irrazionalità fatta di incubi, traumi irrisolti, senso di annientamento e di impotenza verso una realtà solo fintamente rassicurante. Si potrebbe ragionevolmente affermare che tutti i film di Lynch richiedano una specie di necessaria premessa di metodo: quella di essere visti, e vissuti, più e più volte. Provare per credere. E riprovare per ricredersi.
Lynch non è un regista militante. È approdato al cinema senza prima essere stato un cinefilo. La sua “urgenza narrativa” ha origini e motivazioni estetiche e filosofiche che partono da tutt’altro, in primis il suo interesse per la pratica trascendentale. Eppure alcune questioni cruciali del contemporaneo, come ad esempio proprio quella dell’identità (il vero grande tema della modernità) o - fa impressione osservarlo proprio all’indomani della prima foto di un buco nero - l’idea che l’alterazione spazio-temporale sia la variabile endogena cruciale di un paradigma universale, fanno del suo cinema uno strumento efficacissimo anche per una chiave di lettura tutta “immanente” della società. Ma forse questo è solo un Caso.
O una Necessità

2 commenti:

  1. Lucia, scrivi davvero bene, scrivi da critica (militante o meno) al punto che fatico a capire quello che scrivi (per limiti miei, senza ironia).

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    1. Grazie! Ma se fatichi a capire allora il limite è mio, non tuo

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