Sola andata

Sola andata

lunedì 3 febbraio 2020

Che paura

Penultimo giorno a casa. Domani sera sarò di nuovo a Milano. E poi forse riuscirò a tornare qui ad aprile. Credo di aver riposato, di certo ho fatto un po’ di sport, visto i miei cari, mangiato bene e dimenticato per un po’ almeno qualcuna delle mie ragioni di tristezza. In questi pochi giorni di “vita da nido” c’è stato soltanto un unico grave imprevisto che mi ha procurato uno spavento enorme e che ho provato a gestire nella maniera che ho potuto. Tutto è poi finito per il meglio ma se dovessi coglierlo come un monito per ritarare le mie intenzioni future, allora penserei che mi sia davvero richiesto di cambiare di molto la mia prospettiva.

È successo questo.
Primo pomeriggio di due giorni fa. Io ero nella mia mansarda e avevo appena terminato una delle mie solite sessioni sul tapis roulant. Di solito faccio immediatamente una doccia bollente e ho la musica ad un volume così alto che se mi chiamano dal piano di sotto non sento nulla. Invece stavolta ho aspettato un po’, mi sono distesa a terra in silenzio per cercare di riportare il mio battito cardiaco ad un livello normale. Ero molto stanca, molto sudata, ma tranquilla e piuttosto soddisfatta per tutta quella fatica. All’improvviso sento urla indecifrabili dal piano di sotto. Non mi rendo subito conto della gravità, poi ad un certo punto “Non si sveglia! Non si sveglia! Muoviti, vieni. Lucia! Lucia!”.
Io per qualche secondo non riesco a muovermi, sento che sono terrorizzata, credo di aver capito ma ho paura. Una paura matta. Poi mi alzo, sono ancora tutta sudata, vado verso la camera da letto dei miei e c’è mia madre che dice cose sconnesse ad alta voce e accanto a lei il mio papà che non risponde ai comandi. Io chiamo il 118, ripeto tre volte l’indirizzo alla persona che mi risponde e che mi chiede cose semplici che però mi paiono tanto inutili e intanto penso “non verranno in tempo, siamo al sud, qui la sanità non funziona, proprio come tutto il resto”. Papà non reagiva a nessuna sollecitazione. In attesa del soccorso ho chiamato anche amici e parenti che sono corsi immediatamente. Ma è arrivata in tempo pure l’ambulanza. La dottoressa ha subito capito che si trattava di un coma diabetico (il mio papà è insulinodipendente da 41 anni) e che se avessimo aspettato altri dieci minuti non ce l’avrebbe fatta. Aveva la glicemia a 29 e il minimo dovrebbe essere 100.  Dopo pochi minuti dall’iniezione il papà si è svegliato, ha parlato e la piccola folla attorno al suo capezzale ha esultato.
Io mi sono calmata ma intanto morivo di freddo perché il sudore dell’allenamento mi si era gelato addosso. Quando tutto è rientrato sono salita nella mia mansarda, ho fatto una doccia bollente e ho provato, per la seconda volta, a far tornare al suo livello normale il mio battito cardiaco.

Domani tornerò a Milano. Come sempre i miei mi diranno che devo fare qualcosa per farmi trasferire perché loro non possono stare da soli per molto tempo ancora. Ora hanno anche delle ottime ragioni concrete per perorare più efficacemente la causa.
Stavolta credo che me ne starò zitta e non dirò come al solito che voglio stare ancora a Milano e che mi pare una grossa ingiustizia dovervi rinunciare. E credo anche che comincerò a cercare risposte diverse a domande che, fino ad ora, non mi ero mai seriamente posta. Forse un giorno mi sembrerà persino giusto così 

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