Sola andata

Sola andata

sabato 24 febbraio 2018

Mi impegno, ahimè, solo dal “Novecento”

In realtà avevo una scusa valida soltanto le prime due volte. Dopo no. Ho saltato gli ultimi quattro allenamenti del sabato nonostante il fatto che soltanto la metà di tutte queste assenze fosse davvero giustificata e che per me sottrarmi a degli appuntamenti fissi rientra tra le condotte da non contemplare assolutamente mai. Però stamattina c’era una tale pace qui in casa che non mi pareva vero di poter godere di tutto questo silenzio per pensare ai fatti miei, leggere, cucinare, buttare via cose...che mi è parso ovvio desiderare di rimanere dove fossi. E così ho fatto, badando a mettere a tacere ogni senso di colpa e pure a tenere conto del fatto che ad un certo punto si sarebbero svegliati i due piccoli diavoli che cavalcano sulla mia testa. Mi è andata di lusso perché la pace assoluta si è interrotta solo ad ora di pranzo.

Lo faccio spesso, quello di troncare di netto con ciò che ritengo consolidato e destinato a perpetuarsi all’infinito. All’improvviso succede che non lo faccio più, sebbene non sussista una vera ragione che ne decreti la conclusione. Quello del non portare a termine le cose non è un mio naturale atteggiamento e non so bene spiegare le ragioni di certa mia incapacità a restare stabilmente parte di contesti che mi riguardano e di cui percepisco legami e significato. Ad un certo punto smetto di esserci e se dovessi elencare in ordine di importanza i miei difetti peggiori metterei questo al primo posto. La sola spiegazione razionale che potrei dare a questa strana forma di autotutela sta forse nella paura dell’abbandono e così, prima che tutto finisca quando non lo immagino, interrompo quando decido di essere pronta alle mancanze. Ma mi auguro di “interpretarmi” male e che forse mi andava soltanto di esercitare una qualche forma sporadica di disobbedienza.

Oggi in tutta Italia ci sono state manifestazioni contro il fascismo. Pare impossibile e invece tocca rifare pure questo. Anche quello di scendere in piazza è una cosa che non faccio più e mentre piegavo le lenzuola finalmente asciutte mi tornavano in mente certe scene della seconda parte di Novecento, quando Bertolucci disegna in modo secondo me perfetto il tipico esemplare di fascista: un omuncolo dalle ambizioni non proporzionate alle sue qualità e alla portata umana, arrogante, carico di un odio generalizzato, pusillanime e corrotto. Mi sono chiesta per quale strano meccanismo un uomo debba compiacersi di definirsi fascista sapendo davvero cosa questo voglia dire...

Che film Novecento! Rivederlo oggi mi avrebbe forse assolto in parte dalla mia latitanza dalle piazze...mi è tornata in mente pure la scena finale, metafora definitiva dell’eterno conflitto tra mondi contrapposti ma destinati a rimanere sempre affiancati: i due “nati assieme”, simboli dell’eterna lotta tra capitale e lavoro continuano ad accapigliarsi fino alla morte, che poi in realtà tale non sarà per entrambi perché il capitale sotto al treno ci finisce per davvero, il lavoro invece si mette per il lungo sui binari, proprio come faceva quando era bambino e il treno gli passava sopra lasciandolo intatto. Credo che sia il finale più ottimistico di sempre e che faccio mio, con buona pace di un mondo abbastanza cambiato da allora ed in cui il capitale e il lavoro hanno sembianze e armi di lotta molto meno riconoscibili.

Chi lo sa, forse avrei dovuto semplicemente essere in qualche piazza pure io, invece di starmene qui, attaccata al termosifone, a disattendere ad ogni forma di impegno, a ricordare frammenti di un film che raccontava tutta un’altra Italia, mentre mi trovo piegare lenzuola sperando che quelli del piano di sopra facciano piano almeno per le prossime due ore.
Non mi sento molto colpevole. E temo di sbagliarmi di grosso proprio per questo



Nessun commento:

Posta un commento