Sola andata

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domenica 20 gennaio 2019

Fin dal primo respiro, mon amour


Stavolta sono compitini. Al corso sulla Nouvelle Vague ci hanno detto di scegliere un film e di parlarne a modo nostro. Io un tentativo temerario lo faccio. Che può mai succedermi...Allora, vediamo un po’...

 Sono essenzialmente due i titoli che primi fra tutti mi tornano in mente quando si parla di Nouvelle vague: “Fino all’ultimo respiro” e “Hiroshima non amour”, visti in periodi differenti sia per età che per maturazione personale. Lo preciso perché credo che conti molto il tempo in cui certi film decidono di proporsi nella nostra vita quando sono persino capaci di assecondare mutamenti di percezione profondi. I due citati film credo siano degli ottimi esempi di tutto questo, ma se di “Fino all’ultimo respiro” non si può che evidenziare soprattutto la volontà, del resto per niente celata, di un rovesciamento delle tecniche del cinema classico - oltre alle suggestioni di una trasgressione sia formale che concettuale relative all’idea di intreccio narrativo - è con “Hiroshima non amour” che si arriva davvero ad avere esperienza completa della potenza deflagrante di un modo così nuovo di raccontare la Storia, l’individuo, la contemporaneità, la dinamica dei contrasti e la cosiddetta “storia degli effetti e delle determinazioni”  (Gadamer).
Il film trova nel pretesto del racconto di un incontro d’amore, in apparenza fugace, tra un’attrice francese ed un architetto giapponese politicamente impegnato, l’intento di fornire, tra l’altro, una riflessione sulla necessità della memoria e del ricordo per formare la coscienza di ciò che siamo, per poi ribadire che proprio attraverso il costante corto circuito con la necessità della rimozione e dell’oblio siamo in grado di proteggerci da traumi e dolori troppo forti. Basterebbe anche soltanto soffermarsi sull’incipit folgorante: il tempo dell’amplesso equivale a quello di una lunga sequenza di fotografie, manichini, frammenti di documentari sugli effetti della bomba atomica, mentre una voce narrante accompagna quel lungo segmento raccontando l’orrore assieme ad un tormento atavico e irrisolto, evocando mancanze e ricerca costante di un oblio consolatorio.

 Ci sono frasi che richeggiano come il suono malinconico di un canto religioso antico “non è rimasto altro”, “quattro volte al museo”, “tu non hai ancora visto niente” e che sembrano poggiarsi sulle immagini di quella lunga carrellata, come a fare da legante tra sensazioni, ricordi e mero racconto dei fatti. Il film è l’incontro di due mondi che si confrontano a dispetto di ciò che è stato ma anche una riflessione sul ruolo delle arti visive, dalla fotografia, al cinema, ai documentari e alla loro capacità di essere non soltanto custodia di memoria, ma anche di ricostruzione ed interpretazione della storia stessa, proponendosi come archivio di verità, oltre che di finzione. Nel film tutto questo accade passando per due soli personaggi, di cui non a caso non conosciamo i rispettivi nomi e di cui la parte più debole è proprio la fragile donna francese, con i suoi traumi, i suoi ricordi tormentati e indefiniti. Eppure, per la Storia, è lei a rappresentare il mondo dei vincitori. Non parla il giapponese, lui invece parla bene anche il francese. “A Nevers non tornerò mai più. A Nevers sono stata più giovane che mai”, come a offrire un messaggio critico ma al contempo amorevole al cinema di una volta, ormai incapace di diventare adulto.

 Poco dopo, quando quell’amore clandestino ansima per diventare dell’altro, lui le dirà “Tra le migliaia di cose della tua vita io scelgo Nevers” a testimoniare ancora una volta l’importanza del passato, per quanto doloroso o sbagliato, per diventare esattamente ciò che si è: soggetti d’amore. Ciò che unisce davvero i due amanti è proprio la condizione del ricordo. Particolarmente evocativa, infine, la scena dell’anziana donna che in un luogo pubblico si frappone tra i due amanti, dopo una notte in cui hanno deciso di non vedersi più, che parla con l’uomo nella loro lingua, escludendo di fatto l’amante francese dalla loro conversazione. Una distanza fatta di lingua e di storia non comuni. Che può voler dire molto. O forse proprio nulla.

4 commenti:

  1. Devi presentare quanto hai scritto nel post?
    Per quello che vale il mio giudizio è un intervento interessante.

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  2. Si, la redazione legge gli elaborati di chi vuole proporlie se piacciono li pubblica sul sito. Io l’ho fatto, mi hanno detto che è piaciuto, consigliandomi solo di evitare la prima persona per rendere più incisiva la trattazione. E che me lo pubblicheranno 😊 ma loro sono molto gentili con me 😇

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  3. Ma no, scrivi molto bene: non è gentilezza.

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