Sola andata

Sola andata

venerdì 1 aprile 2016

Pablito (che cosa sei...che cosa sei...) (o chi?)

Era il 13 giugno del 2013. Avrei giurato molto di più. Quella mattina ero contenta e tanto curiosa. Avevo chiesto al mio amico Paolo di accompagnarmici, che da soli queste cose non si fanno. Mi ero imposta di non immaginare nulla, soprattutto di non avere pretese estetiche. Doveva essere tutto una sorpresa, come quando si diventa genitori.
Avevo promesso al signor Franco, uno dei tanti anziani che, per arrotondare la pensione, vengono in agenzia a portare gli atti da registrare, che avrei preso uno dei micini salvati dall'associazione a cui appartiene anche sua figlia.
Entro nell'abulatorio veterinario, dalla piccola gabbia sgusciano fuori due mici gemelli e uno di loro mi salta addosso con la determinazione di chi vuole assolutamente essere il prescelto. È stato molto più facile di quanto pensassi. Fu lui a scegliere me. La figlia di Franco mi regalò un topolino di pezza e la sportina per il trasloco. Fu così che il mio sfortunato micino  abbandonato in un cassonetto di San Donato ebbe una casa e tante mensole su cui saltare e da cui far precipitare i ninnoli accuratamente scelti a rappresentare la mia estetica domestica.
Aveva meno di due mesi e io non mi ero neppure ancora dotata di una lettiera per una dignitosa accoglienza. Così io e Paolo andiamo alla Coop e prendiamo tutto quello che serve al nuovo arrivato, oltre ad un bel traspostino fucsia per quelli che sarebbero stati dei viaggi abbastanza frequenti.

Pablito è rimasto con me un anno, poi, una delle volte che tornai giù a casa con lui mi resi conto che era davvero una crudeltà quella di tenerlo rinchiuso in un bilocale, solo tutto il giorno, senza mai uscire, mentre ora nella casa di giù scorrazza felice per il giardino, socializza con i tanti mici dei miei, fa la pennica con mio padre, con cui ha un rapporto molto più speciale che con me. Quella volta, ormai due anni fa, me ne tornai a Milano da sola, mentre lui prendeva immediatamente possesso di tutto laggiù, soprattutto del cuore dei miei familiari. Io ne sono stata felice, pure se ogni tanto penso a come era vivere con lui, che aveva trovato quella maniera strana di aprire i cassetti della cucina, che non ha smesso mai di rubarmi gli elastici dei capelli e nascondermeli dietro ai mobili, di salire e  scendere mille volte e senza sosta dalla scala del soppalco, di farmi le fusa tutte le volte che mi vedeva scrivere al computer. Era un'adorabile canaglia. Tutte le volte che ci rivediamo si lascia prendere in braccio, Mi mordicchia il collo e mi illude che sa bene chi io sia, ma a me dà sempre l'impressione che mi voglia ringraziare per avergli donato un vita da gatto e non da pesce rosso a cui sembrava destinato nel mio posto senza sole milanese.

Domani lo rivedo e questo fatto aggiunge sempre tanta allegria al mio tornare a casa. Chi lo sa se se la ricorda veramente la sua vita precedente. Non può aver dimenticato momenti fondamentali come gli addominali della mattina che faceva assieme a me imitandomi benissimo, o il rito serale della corsa verso la porta appena sentiva il rumore delle chiavi.
Chi lo sa se se lo ricorda perché lo chiamai Pablito.

Ma in fondo che importanza ha, quello che conta è che lui fa parte della mia vita anche così, senza che ci ostacoliamo a vicenda, ritrovandoci se e quando è necessario. Lui con me non ci può stare, io con lui non ci so stare, lui di me si ricorda, ma forse è solo che a me piace pensare che sia così. Io lo cerco, ma poi lo lascio andare. Perché è meglio, perché sarebbe peggio se così non fosse.
E nessuno ricorda perché l'ho chiamato così. 

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