Sola andata

Sola andata

mercoledì 26 luglio 2023

Quando c’è la nebbia non si vede. Ma si “sente”

 La chiamano “Brain Fog”. E’ una specie di fiacchezza, di infelicità strisciante non riconducibile a vere patologie o sindromi. Credo che si tratti di una condizione esistenziale più o meno passeggera, ma forse anche semplicemente caratteriale, di cui probabilmente facciamo esperienza un po’ tutti, prima o poi, durante la vita. Credo sia normale nelle persone più anziane e in quelle di indole particolarmente malinconica e oserei pensare che a qualcuno piaccia pure un po’: l’infelicità “gestibile” secondo me non è mai vera infelicità perché se non accompagnata dalla disperazione e dalla paralisi esistenziale il più delle volte ci rende solo più acuti, sensibili e recettivi. E questa è una cosa proprio bella dello stare al mondo.

Forse in tutti questi giorni in cui non ho aggiornato il diario e dormito quasi niente (pure se vivo senza caffè da più di dieci giorni), mentre ho sviluppato una dipendenza per una serie stupenda, di cui divoro stagioni intere, letto col contagocce un po’ di buoni libri, mi sono lasciata accompagnare da questa specie di “nebbia” quasi adottandola come magnifico alibi per l’età di mezzo che mi sento addosso come un vestito comodo ma che ancora fa difetto.

Sono stati giorni strani e affascinanti quelli di questo luglio dal meteo pazzo e dispettoso che però ha risparmiato Milano dall’afa irrespirabile degli anni scorsi. E’ successo al prezzo di temporali pericolosi e dannosi, ma temo che a questo dovremo abituarci. Cosa è successo nel frattempo? E’ successo che non ho mai smesso di programmare viaggi verso luoghi a cui vorrei destinarmi entro la fine di quest’anno, che ho postato una storia di me in costume nella mia camera e non ho mai avuto tante visualizzazioni e reazioni prima di questa: forse è successo per la curiosità di verificare l’efficacia dei miei sacrifici quotidiani con i pesi e la corsa, o magari per testare il coraggio di una quasi 47enne che ancora si permette di mettersi in mostra così. Chissà che cosa incuriosisce davvero di qualcuno con cui in fondo abbiamo poco o nulla a che fare? 


Per il resto mi scopro felice per cose sempre più piccole e irrilevanti, tipo svegliarmi sapendo che in estate al mattino c’è un programma alla radio che trovo bellissimo senza una vera ragione se non quella legata alla simpatia spumeggiante dei tre ragazzi che lo conducono. Pare assurdo ma quando comincio la giornata sapendo che li ascolterò cambio tutto: ritmo, stato d’animo, reattività per le mie azioni ordinarie. Senza di loro la mia “brain fog” avrebbe di certo un preoccupante sopravvento. E così quando poi la trasmissione termina e io continuo ad essere felice perché ci sono stati loro ad aiutarmi a ripartire, penso che sia come una specie di miracolo il fatto che qualcuno che neppure sa che esisto abbia contribuito al mio star beneChe bello poter godere della compagnia che consideri la migliore possibile al netto di eventuali incomprensioni, timidezze e disagio.


Intanto anche luglio ormai gioca le sue ultime carte senza ancora svelarmi quali servirebbero a me per condurre il gioco da qui a dicembrePazienza. Lnebbia in fondo mi è sempre piaciuta. E poi per vederci chiaro c’è sempre tempo. Il problema, semmai, è il coraggio di riuscirci davvero

giovedì 13 luglio 2023

Luglio, col bene e qualche scoglio

 E’ una sensazione strana quella di trovarmi a Milano in questa estate rovente nella quale non mi sono ancora mai concessa di vedere il mare: fa un caldo indicibile ma la citta è ancora piuttosto brulicante di lavoratori che, nella loro auto senza altri passeggeri, si incolonnano tra via Mecenate e viale Lombroso procurandomi sempre un po’ di perplessità sulla reale possibilità che un giorno delle modalità più ecologiche di spostamento saranno applicate con efficacia reale. Io ho l’abbonamento annuale ai mezzi pubblici e mai mi sognerei di perdermi il mio quotidiano percorso a piedi di quaranta minuti verso l’ufficio, tra l’altro dopo un allenamento cardio con pesi che mi infliggo ad ogni alba in cui mi è concesso aprire gli occhi. Lo so che la mia è una specie di follia masochistica senza altre razionali spiegazioni, eppure rimane un fatto che le ricadute di certe mie abitudini abbiano un impatto sull’ambiente sul quale nessuno potrebbe muovere la minima critica. Ma vabbè, non volevo fare la parte di quella che finge di fare la bizzarra virtuosa che nessuno potrebbe mai riuscire ad imitare. La verità è che sono io stessa schiava delle mie abitudini e quelle, si sa, son dure da cambiare per chiunque.

Delle mie ferie ancora quasi intatte mi piace la possibilità che posso continuare a concedermi sulla loro possibilità di utilizzo: le alternative sono tante ma tutte convergono verso l’intenzione di fare un viaggio lontano in un posto caldo proprio quando qui comincerà a far freddo oppure optare per un’esperienza legata ad un “ritiro” yoga in uno di quei luoghi ameni che ti conciliano col tuo spirito grazie al tono lieve di chi ti sussurra in ogni istante “va tutto bene” pur senza sapere niente di te. Credo che il bello sia proprio questo: trovo divertentissimo informarmi ogni giorno su mete differenti e allo stesso tempo visualizzarmi in ciascuna di queste esperienze, confermando l’idea che il viaggio è prima, e forse soprattutto, nella testa. E poi c’è questa cosa che da quando la mia casa è tornata ad essere il posto tranquillo che non era lo scorso anno, quando rientro e me ne sto nel mio piccolo salotto, dopo una doccia gelata, con in mano un gigantesco frappè ghiacciato e il film programmato già da prima di uscire al mattino, mi chiedo davvero cosa potrei desiderare di più. Le giornate di luglio sono state fino ad ora tutte così, parlando poco e immaginando un futuro, in fondo molto prossimo, pieno di ipotesi che neppure hanno una vera smania di conferme.

Fino a 5 o 6 anni fa ancora pensavo che sarebbe arrivato il tempo in cui avrei riconosciuto il momento in cui mi sarei sentita pronta per incontrare chi fosse destinato a me, il tutto sulla base di una idea che trovo tuttora molto convincente e cioè che la capacità di amare davvero qualcuno passi per una maturità raggiunta a tutto tondo, una percezione quanto più estesa possibile delle esperienze che si vivono, delle cose che ci accadono attorno, come il frutto di un percorso di autoconsapevolezza, di uno sforzo, di una concentrazione che richiedono necessariamente tempo e impegno. Una cosa simile l’ho sentita dire pure a Califano e Remo Remotti, due che per indole e temperamento non potrebbero essere più diversi da me, eppure (anzi forse per questo) li considero due maestri di pensiero assoluti. L’idea vale al netto della eventuale necessità di rispondere ad un orologio biologico che, invece, spesso ha tutt’altra scadenza. Ma io ho la “fortuna” di non averlo mai sentito e quindi non ho mai neppure avuto fretta. Oggi, che tutto mi è un po’ più chiaro di allora, che io mi sono più chiara di allora, mi chiedo come ho fatto a non capire che la mia vita non poteva essere altro che questa e che non solo non è una colpa, una mancanza di completezza o una triste condizione, ma semplicemente la cosa che desideravo davvero senza ancora saperlo tanto chiaramente chiaramente come adesso. Potrei sbrigativamente raccontarmela affermando che gli altri mi hanno soltanto illuso e poi deluso, ingannato, non apprezzato…ma non sarebbe la verità. Mi farebbe comodo, ma non sarebbe onesto perché, ahimè, quello che ormai sento profondamente è che il giusto uso della mia energia è purtroppo in grado di contemplare la frequentazione solo di un numero limitatissimo di persone e che sempre di più mi piace esercitare la mia capacità di ascolto e di visioni alternative del mondo attraverso la radio o la musica. Dopo soltanto silenzio. Perché dovrei costringere altri ad assecondare tutte queste “limitazioni” alla condivisione?

 

Una volta a Zanzibar uno che stava lì con la moglie e un bambino appena nato mi propose di passare in camera mia. Non è stata l’unica esperienza sgradevole di questo tenore durante i miei viaggi in solitaria. Eppure non ho mai smesso di continuare a desiderare di essere ovunque.  


Milano a luglio è più bella che negli altri mesi. Ne ho solo approfittato. 

lunedì 3 luglio 2023

La sostanziosa forma di un grazie dato con gusto, in tempo, con cura

 


Ci sono rimasta un po’ male, ma forse fa parte di quelle lezioni che dovrei imparare, piuttosto che attribuire la responsabilità a un certo tipo di reazioni deludenti. Ci penso più spesso del dovuto forse perché alla fine vivo un periodo abbastanza sereno, non sono affaticata e neppure affranta per una vita che non mi restituisce quel poco che riesco a darle. Eppure ci sono delle cose che dovrei aggiustare per proteggere il valore stesso dei miei piccoli gesti. La premessa è questa: qualche volta ho il timore che mi si legga troppo chiaramente in faccia che lavoro senza trovare bello quello che sto facendo. Non ho mai pensato che sia necessario amare il proprio lavoro eppure l’idea che gli altri lo percepiscano mi mette fortemente a disagio lo stesso. Ovviamente faccio tutto quello che devo, non mi lamento mai per niente, ma credo che sia del tutto evidente che la mia dimensione emotiva e di partecipazione attiva sia direi del tutto irrilevante. Lo accetto, come accetto tutte le cose che non mi appartengono per innata propensione ma che non posso cancellare dal mio quotidiano. Forse la vera consolazione sono i complimenti dei contribuenti, così delicati e spassionati che davvero non so spiegarmi che tipo di immagine io restituisca a loro. Insomma, questa è la mia condizione per un numero importante di ore delle mie giornate. Qualche volta mi è successo, quasi a voler rinnegare o attutire questa impressione agli occhi delle persone con cui ho a che fare, di far trovare al mio capo, posizionato sulla scrivania, un pezzo di crostata. E’ capitato diverse volte. L’ultima volta però non mi ha detto neppure grazie. Mi sono detta che le ragioni potevano essere tante: lo ha scordato, oppure si è reso conto che lavoro solo per lavorare e che non è corretto tentare di dare un valore aggiunto posticcio al mio non essere esattamente una rampante entusiasta, oppure – ed è stata questa l’ipotesi che più mi ha procurato sconforto – comincia a darlo per scontato o peggio come un atto dovuto, senza apprezzare davvero il mio gesto. 


In realtà non credo davvero che abbia molta importanza indagare le ragioni di un grazie mancato, perché io amo da sempre preparare cose da far assaggiare agli altri ed è già questo il mio appagamento, eppure questo fatto mi fa riflettere sul senso stesso del ricevere. Le prime volte era stato delizioso, inviandomi persino i video della figlioletta che mi ringraziava mentre assaggiava il mio dolce. E adesso neppure un grazie. Fa un po’ impressione e la cosa mi colpisce per questo. La lezione è che devo smetterla di portare torte a chi smette a sua volta di averne piacere. Che non mi pare poco, anzi mi pare una gran bella lezione per l’evoluzione del mio comportamento.


Forse non è vero che sia poi un periodo così sereno. E’ soltanto un periodo in cui non ho grossi guai da risolvere. E non è proprio la stessa cosa. E forse è proprio per questo che mi capita sempre più spesso di pensare a cose accadute tantissimo tempo fa e di come all’epoca non mi rendessi minimamente conto di quanto stessi sopportando senza una reale necessità ma solo per compiacere qualcun altro, che una parola detta male ti può rompere dentro in un modo così irreversibile che preferisci pensare di aver capito male, piuttosto che urlare e spaccare tutto senza indulgenze. E poi penso pure a quello che ho detto e fatto io senza riuscire a perdonarmi neppure oggi che ho fatto di tutto per rimediare. E così ho pensato a quanto sia importante che le cose siano sin da subito molto chiare, prive di ambiguità che feriscono e poi distorcono i fatti per sempre. Non volevo un grazie. Ma forse mi era dovuto lo stesso. Anzi, sicuramente mi era dovuto. Ma vabbè…