Sola andata

Sola andata

sabato 23 novembre 2019

Casa è dove dormo tanto e bene. O no?

Stento quasi a credere che sia stato possibile. E invece è successo davvero. E per ben due volte di seguito.
Ritornare a casa per una manciata di giorni ha ancora il potere di riparametrarmi e dare un freno a dei ritmi che non so come modulare diversamente a Milano, quando sono sempre alle prese con le mie “tegole del contingente”. Quello che però stento a credere è semplicemente questo: riesco a dormire tantissimo. Credo che l’ultima volta che mi sia riuscito di farlo per nove ore di fila avessi cinque mesi. Pare una cosa minima e invece per me è un miracolo di quelli seri per una insonne cronica che non arriva alle quattro o cinque ore di dormita tormentata e interrotta. Questo è quanto mi riesce di fare ormai da tanto tempo lassù al nord. Forse è solo un patto tacito con me stessa: voglio fare troppe cose - assieme a quelle che devo - e siccome ho una capacità organizzativa quanto meno perfettibile, garantirmi più ore possibili di tempo vigile è diventato un fatto necessario. Ma mi stanco sempre di più. Sento che troppe cose mi sfuggono di mano, le tollero meno, mi sento sempre meno all’altezza di tutto. E così stare qui giù a casa, decontestualizzarmi, non vedere l’ufficio e non dovere affrontare una scrivania che non riesco a mettere in ordine (che pare niente e invece è uno dei miei principali drammi esistenziali), prendermi una pausa da questioni che mi sfuggono di mano e da tutto quello che vorrei fare senza riuscire a trovarne la maniera, mi fa dormire bene. Mi pare tutto così lieve quando torno qui per qualche giorno.

Ma ormai non ci casco più. Tornare è una delizia che rimane tale fin quando son sicura che Milano mi richiamerà per tempo al suo ordine. E questo lo accetto perché ancora mi pare giusto. Perché ancora ricordo il motivo per cui ho preferito andar via piuttosto che provare a resistere qui, a cercare una qualche ragione inattaccabile per non andar via. Non mi basta dormire bene un paio giorni per pensare di risvegliarmi in un posto davvero capace di riaccogliermi. Non mi basta neppure pensare
che a Milano c’è ad attendermi un lavoro che non riesco ad amare, in mezzo a persone (non tutte, ma parecchie) che non sceglierei per nessuna ragione al mondo di frequentare, che dormo poco e che la
sera quando rientro tardi ho sempre paura e poi che ho troppe cose da fare e che da sola è bello ma irrimediabilmente faticoso. Eppure so che sentirei ancora moltissimo la mancanza di tutto questo e che il benessere passeggero dei pochi giorni trascorsi in questa casa così grande e comoda sia solo una tentazione ingannevole non prorogabile a lungo. So che, prima o poi, sarò costretta a tornare per tantissime ragioni che poco o nulla hanno a che fare con la leggerezza di una piccola vacanza da ospite privilegiata. Mi pare ancora una cosa così sbagliata. Ma come fanno gli altri “emigranti” ad essere così certi della necessità di tornare là dove sono nati? Perché trovano il fatto così scontato? E perché io invece no? È davvero sufficiente sentire di stare un po’ meglio per un po’ di tempo per esser certi di poter stare davvero bene per sempre? Io lo so che la risposta è quasi certamente no.

Però ho dormito così bene. Ci si abitua così presto a cose come queste. È così facile, in certi posti, smettere di stare svegli...





domenica 17 novembre 2019

Promemoria (delle cose da non ricordare)

È tutto il giorno che ci penso. Forse era solo un modo di dare senso al tempo impiegato in un’attività ingrata come le faccende domestiche. Ma no, in realtà ci penso da una vita e poi periodicamente approfitto di episodi scatenanti per ritornare sulla questione cercando sentieri meno battuti. Tutto è (ri)cominciato con la trasmissione dell’alba di oggi alla radio. È andata così: da qualche settimana viene proposta una rubrica in cui si intervistano, separatamente, i componenti di una coppia che dura da molti anni per capire quale possa essere il segreto degli amori longevi. Le interviste sono centellinate e spalmate su più puntate. Quella di oggi era l’ultima. Il finale lo racconto dopo. Ora mi preme dire un’altra cosa che mi serve per mettere in chiaro un paio di punti.

In uno dei suoi film più belli Woody Allen fa una lista delle cose per cui vale la pena di vivere e così anche io, quando sono molto triste, provo a stilare la mia personale scena di “Manhattan” e a segnare su un foglio tutti gli ottimi motivi per cui stare al mondo sia in ogni caso fantastico. Di solito funziona quasi subito perché mi rendo conto che la lista si allunga molto rapidamente. E così dopo pochi minuti poso la penna e penso che ha senso continuare a credere che “la felicità non è una truffa”, nonostante non abbiamo ancora tutte le prove della sua specchiata onestà.
Ma oggi è stato diverso. Oggi è stato il contrario. Oggi mi sono chiesta cosa metterei in una lista che contenesse le cose per cui NON valga la pena di vivere. Mi sono seduta, ho preso la penna e mi sono concentrata proprio bene. Niente. Non mi veniva in mente niente e mica perché sia preda di chislsà quale euforia entusiastica da Teletubbies...anzi, mi riconosco come sempre persona tendenzialmente tristissima e per nulla ottimista, ma per fortuna queste continuano a non essere delle ragioni sufficienti per non continuare ad affannarmi a pieni polmoni.
All’improvviso mi è venuta in mente. Sì, credo che ci sia in effetti una ragione per cui non valga la pena di vivere. È la sensazione drammatica di aver sprecato il proprio tempo quando ormai è troppo
tardi. Ma persino io non faccio fatica a capire che si tratti di uno di quei paradossi “autoassolutori”
per i quali il rimedio è dato dalla scadenza dei termini di applicazione dello stesso. Come fai a pensare di non voler più vivere per quello che hai ormai già vissuto? Non si torna indietro e farla finita dopo sarebbe solo una beffa ulteriore. A pensarci bene, che razza di guaio. Eppure per me rimane un fatto drammatico. E allora come la metto adesso?

Qualche anno rimasi molto colpita da una lettera che l’astronauta Parmitano aveva scritto alle sue bambine. Le esortava a cimentarsi anche nelle cose che non amavano e che non trovavano divertenti perché è proprio in quelle che si scoprono le cose più sorprendenti anche di se stessi. Credo che il suo intento fosse quello di far comprendere lo stupore che può celarsi nelle cose complicate o meno immediatamente seduttive o che semplicemente non sono in linea con la nostra natura. Una cosa simile stava scritta nell’autobiografia di Agassi, “Open”, che è la storia di uno dei più grandi campioni di tennis del mondo che ha fondato la sua grandezza proprio grazie all’odio profondo per
questo sport. Curioso davvero.. Ricordo che pensai che certe lezioni hanno senso quando si
percepisca il tempo esclusivamente come proiezione in avanti e perciò ammetta come dato anche il fallimento e le sue incognite. Potrei accettarlo. Sì, in fondo questa concezione di un tempo mai davvero perduto quando si procede per tentativi mi convince. Quasi del tutto.

La puntata di stamattina che concludeva quella intervista ai due coniugi di lunghissimo corso raccontava questa cosa qui: i due si erano sposati illibati. Durante il viaggio di nozze lei contrasse una grave infezione alle parti intime che costrinse la coppia a non aver rapporti per molti mesi successivi al matrimonio. Lei ad un certo punto dell’intervista ha raccontato di aver sentito il suo novello sposo, dire a voce bassa,  “era meglio che non mi sposavo” e che fu proprio in quel momento che lei disse a se stessa “dedicherò tutta la mia vita a fargli cambiare idea”. E così ha fatto.
E io non lo so com’è, ma è da stamattina che penso che se dovessi pensare alla sola ragione per cui penserei che non valga la pena di vivere sia una cosa del genere: spendere una vita intera a convincere qualcuno che fa bene ad amarci. E non mi serve a niente neppure sapere che sono felici da. 52 anni. Proprio a niente. Ma in fondo chi l’ha vista mai una lista di cose per cui non valga la pena di vivere. Per fortuna

domenica 10 novembre 2019

Metro. E tu che misura di unità usi?

Se ci penso bene non è poi così grave. Anzi, direi che mi rende persino ragione di una convinzione che cerca inutilmente smentite. Tutto è cominciato dalla metro. Da quando non guido più, circa dieci anni, girare per Milano per me significa coprire lunghissime distanze a piedi, con autobus che cerco di usare con parsimonia perché attendere alla pensilina significa condividere lo spazio con qualcuno che mi fuma accanto, la metro che detesto perché mi pare una discesa agli inferi, non prende la radio e mi impedisce di godermi la morfologia mutevole dei quartieri che attraverso. Ma tutto questo disagio mi appare nulla rispetto a tutto il tempo di vita che ho risparmiato nella non ricerca di parcheggio. Se mai dovessi tornare al mio paesello di sicuro riprenderei a guidare e a ricordare con struggimento i bei tempi nella linea gialla che in dieci minuti mi portava da casa mia (periferia estrema a sud di Milano) a piazza Duomo. Ed è per questo che la metro, nonostante il disagio che mi procura, rimane il mio “luogo comune”, capace di contenerne a sua volta tanti altri. Come i manifesti di “Tinder” sulla bellezza di essere single, che poi è in realtà un’affermazione tutt’altro che comune.
Ricordo che la prima volta che ne ho visto uno mi sono chiesta il motivo per cui non spingessero sull’idea che fosse un sito per persone che non hanno intenzione di essere sole e che vogliono incontrare qualcuno proprio perché single, secondo un’accezione comune atavica, non è bello. Poi ho sorriso, forse perché confortata dal fatto che quella dello star soli può davvero essere una condizione auspicabile e non dettata da ragioni come la sfortuna, un brutto carattere, caratteristiche estetiche non in linea con i canoni o per insufficienti occasioni di incontri efficaci. Tinder risponde piuttosto all’esigenza di moltiplicare l’occasione di conoscersi facilitati da un metodo molto rapido e potente di trovare persone che ci assomiglino e che scegliamo, non perché siamo dei disperati che nessuno vuole. È proprio cambiata l’ottica. Star soli perché autonomi, risolti o semplicemente nella fiduciosa attesa dell’incontro giusto a tempo debito è finalmente qualcosa di socialmente accettato e anzi addirittura figo. Che bello, sapevo che prima o poi qualcuno mi avrebbe capito.

Non ho mai usato Tinder nè nessun altro sito del genere. Resto ferma sull’idea che l’incontro della
vita non vada cercato con metodo ma debba capitare e che questo avvenga soltanto quando riusciamo a diventare esattamente ciò che ci è dato di essere come individui. Altrimenti il rischio è assestarsi su cose che passano, incontri anche belli, divertenti, formativi, interessanti, passionali...ma passano. Inevitabilmente.

Credo che sia sbagliato definirsi single soltanto per scelta o per disgrazia. Si può esserlo anche per decisione, quella presa quando capisci che le strategie di seduzione valgono per il tempo della conquista e poi si svuotano per obiettivo ormai raggiunto, o quando ti rendi conto che i “vediamo come va” sono una base di partenza già cosi fragile che ti andrebbe di stringergli la mano e dirgli che quella che è appena passata fa più al caso suo di te. E soprattutto che la solitudine è una condizione necessaria per crescere e non una cosa di cui avere timore.

Ieri ho visto un film che mi ha un po’ affaticato. Si intitola “La belle Epoque” e parla di un uomo sposato da molti anni con una donna, che pare non amarlo più, che rivive il giorno in cui si è
innamorato di lei per ricordare che cosa ha provato e perché è accaduto. L’idea mi è sembrata bella, il film è scritto bene eppure io non ho ben capito che intenzione avesse veramente, visto che alla fine non mi è chiaro se per far perdurare un amore sia necessario il ricordo di ciò che lo ha generato, oppure ritornare a quello che si era quando è nato, oppure se sono necessarie le condizioni storiche che lo hanno favorito, se è una mera suggestione ma in realtà ciò che è stato non può continuare ad essere nella stessa forma delle origini. Oppure se il protagonista in realtà non si sta rinnamorando di sua moglie ma della donna che lo sta aiutando a ricordarla, che è giovane, bella, affascinante...ma un’altra donna. Non l’ho capito e questo per me è già una risposta sufficiente sulla questione.

Di certo tra poco uscirò e prenderò la metro. Mi soffermerò su quei volti giovani e sorridenti. E penserò che hanno ragione loro. Poi, come quasi tutti, passeranno al torto




sabato 2 novembre 2019

Di post in post (ex ante vs ex post)

Ogni tanto mi lascio tentare. Quando mi capita fingo di pentirmene e di ripetermi che non ha senso ripescare nel passato e costatare quanto, in questi anni, abbia riscritto le mie certezze senza mai ammettere che si trattasse di “incoerenza di convenienza”. Ho riletto un post dei primi di novembre nel quale dicevo di aver riletto un post di un anno prima e non potevo non ridere di questa mia ossessione per ciò  che è stato, anche perché non sono una malinconica, non vorrei tornare indietro neppure di un secondo per rivivere un momento già esistito o modificarne gli esiti. Invecchiare mi piace, e questo nonostante  mi ostini a vestire come una ragazzina, a trovare molto più interessanti quelli più giovani di me, anche se continuo a pensare che sono stata proprio come volevo essere solo nel breve tratto di esistenza in cui ho avuto trent’anni. Non è questo il punto. Io guardo al passato soltanto per capire perché sentivo le cose proprio in quella maniera, perché ho creduto così fermamente a certi miei stati d’animo, sentimenti, modi di pensare...e oggi, invece, quasi niente mi appare sensato.

Ho vissuto senza tv per otto anni senza mai avvertirne la mancanza e pensando che non sarebbe mai ritornata in casa mia. Non è stato così. Sono due anni che me la ritrovo in casa, eppure rimane accesa solo per blob o il venerdì sera per propaganda live Sono stata vegetariana per un numero incalcolabile di anni. Lo sono anche adesso, ma due o tre volte l’anno ho necessità di mangiare pesce altrimenti i miei valori non si sistemano. Ho adorato persone di cui pensavo di non volere, o potere, mai fare a meno e invece è successo che, pur non odiandole per nulla, non facciano più parte della mia vita e io sono ancora qui, addirittura tutta intera. Non ho rimpianti, non mi sento una banderuola solo perché ho cambiato punti di vista, sentimenti e sensazioni. Riesco a dare ragione di questi cambiamenti e credo che il punto sia proprio questo: alla fine riesci a darti una spiegazione del perché tutto doveva andare proprio così e mi pare che questo sia un modo proprio sano di evolversi. Poi ci sono pure i punti fermi che nella gara col tempo potrò, giocoforza, soltanto confermare. Per esempio so per certo
che sarei stata una cattiva madre e che in fondo sia stato un bene non aver avuto l’occasione di tentare di dimostrare il contrario. Ci sono questioni per cui l'esperienza può non costituire l’approccio dimostrativo più efficace.

Ho passato due giorni a fagocitare serie tv. Pure questo avevo giurato che non sarebbe mai successo, accompagnata sempre dalla convinzione che la sala sarebbe stata la mia sola modalità di fruizione di film e che le serie macinate su un tablet non avrebbero mai meritato le mie serate sul divano davanti alla piadina e alla mela già sbucciata. E invece è esattamente quello che faccio da poco più di un mese a questa parte. Del resto a cinema non faccio che dire di spegnere il telefono e di rammaricarmi per tutte le interruzioni indebite di emozioni da parte di un pubblico sempre meno composto. Lo ha detto pure Scorsese: i film si possono vedere ovunque, basta che siano belli. Mi salvo...ma con riserva stavolta.

È così, sono cambiata e lascio che tutto intorno a me lo faccia. Assecondo i tempi che forse la sanno
 più lunga di chiunque altro. Poi, nella sostanza, faccio le stesse cose, mi affeziono nella stessa
maniera e ho la mia solita maniera da emisfero destro dominante di ordinare i pensieri . È solo che prima se ne stavano ferme. Adesso si muovono. E mentre lo fanno passano da un post all’altro. E io, finché loro lo vorranno, ce le porterò.