Sola andata

Sola andata

giovedì 30 aprile 2020

Armi vitali

Comunque secondo me non è stata solo fortuna. In tutto questo assurdo periodo non ho fatto che ripetermi che in fondo è stata anche una preziosissima occasione per riparamentrare tutto quello che erroneamente si dava per assodato e che nei fatti non funzionava. Tuttora rivendico questa esperienza come tra le più preziose della mia vita, pur nel più totale rispetto del dato oggettivo di una tragedia di proporzioni cosmiche. Ciò che considero fortuna è lo star bene, dover rendere conto soltanto a me stessa, essere tranquilla e pacificata in questa solitudine un po’ ovattata. Alla fortuna ho la presunzione di associare anche il piccolo merito di pianificare una forma personalizzata di benessere quotidiano. E questo richiede impegno e disciplina, perché sottovalutare il potere infestante della pigrizia è uno di quei rischi ad altissimo potenziale da cui raramente si esce salvi. Per questo per me è stato vitale: continuare ad alzarmi presto, pulire casa, mettermi a posto, salutare il micio della dirimpettaia che mi aspetta alla finestra, fare sempre qualcosa di buffo per cui ridere di me stessa, mangiare un pezzo di cioccolato fondente e la curcuma, non pretendere di piegare correttamente le lenzuola con gli angoli, non avere piante da far morire, vedere almeno un film al giorno, voler bene a qualcuno a distanza con pensieri benevoli e attenti, scrivere una cosa qualsiasi, sollevare pesi e stancarmi più che posso.

Ieri ho postato una foto una po’ vezzosa su Instagram che però non ho avuto il coraggio di mettere anche su fb. Chissà perché ho questo pudore differenziato a seconda delle piattaforme utilizzate. Strano davvero.
Ieri mi raccontavo del momento preciso in cui ho capito quanto contasse il cinema per me non tanto, o non solo, come forma insostituibile di diletto quanto, soprattutto, di comprensione e scoperta di me e come chiave di lettura del mondo. Dicevo che fu necessario il furto di un film bello, seppure non fondamentale per capirlo. Che modo bizzarro di prendere coscienza di una passione.
Oggi invece riflettevo su quello che può fare un libro letto al momento giusto e mi davo conferma del fatto che per me questo libro rimane, oggi come allora “Lettere morali a Lucilio”. Non è il mio libro preferito eppure per me  risulta ancora come quello più importante. Pure questo è curioso.

Ho cominciato l’anno correndo per dieci km. Era un’alba gelida e silenziosissima e io salutavo con riconoscenza quest’anno così “insospettabile”. Da quando ho smesso di correre i circuiti cardio + pesi sono la mia sola attività “allenante” e di produzione di ormoni del benessere, di controllo della bilancia e anche la migliore formula per chi, come me, ha il fiato troppo corto per essere davvero una buona runner e poco ferro nel sangue per andare più veloce. Non lo avrei mai accettato se non ne fossi stata davvero costretta.

Non è solo questione di fortuna. Trasformare un vincolo, o un evento spiacevole e inatteso, in opportunità richiede impegno, voglia e attenzione. Perché la verità è che tutti i mali vengono per nuocere. Qualche volta però si può decidere di contraddirli. E con armi spesso davvero imprevedibili.


mercoledì 29 aprile 2020

A ciascuno il suo (di proiezioni e ricreazioni)


Che bello rientrare a casa dopo una lunga passeggiata dal lavoro, come nei lontanissimi giorni di ordinaria routine, e sotto uno splendido sole. Come è strana la normalità quando ti è negata per tanto tempo. Pensavo a queste cose mentre attraversavo via Mecenate, osservando un timido traffico che comincia ad impadronirsi di nuovo dello scenario urbano. Sono rientrata e su rete quattro c’era un film delizioso con Doris Day e Rock Hudson e, anche se lo conoscevo già, l’ho rivisto molto volentieri. Mi ha fatto ritornare al tempo esatto in cui il cinema ha cominciato ad impossessarsi di me.


Sì perché io non ho cominciato da bambina a vedere film in quantità tale da plasmare in questa maniera una personalità o un modo di pensare. Non sono nata in una famiglia di cinefili e non vi erano sale cinematografiche nel mio paese. Sono arrivata relativamente tardi ad appassionarmi così tanto come oggi al cinema. Se dovessi stabilire il periodo preciso in cui ho cominciato a considerarlo un parte essenziale della mia vita forse partirei dall’avvento del vhs. Ero adolescente e cominciai a collezionare quelle in allegato ai quotidiani. Feci mia l’intera collana d’autore che proponeva l’Unità (giornale allora diretto da Veltroni), quell’appuntamento rappresentava una specie di iniziazione verso una cosa che subito capii che mi riguardava.
Poi un giorno successe una cosa molto spiacevole che mi fece capire proprio bene quanto davvero amassi quel modo di investire il mio tempo e vedermelo restituire con intensità potenziata. Successe questo: vennero i ladri a rubare tutto quello che era in casa. Quello stesso pomeriggio avevo appena visto  il VHS di “Hannah e le sue sorelle”, della citata collezione dell’Unità. Mi ero detta che lo avrei rivisto di nuovo per quanto mi era piaciuto e così non tolsi dal videoregistratore la mia amata videocassetta. I ladri portarono via anche quello e io, su tutto, mi rammaricai solo per la mia collezione - privata di un film che avevo appena avuto il tempo di amare. Non mi perdonai mai di non averlo messo al suo posto. Sì, credo che sia stato proprio allora che mi sono resa conto che avevo scoperto che del cinema avrei fatto diverse ragioni e motivazioni di piacere, consolazione, comprensione, sguardo alternativo del mondo, immaginazione, ma anche rabbia, malinconia e sofferenza che sempre accompagnano nuovi approdi di conoscenza. Avevo capito che, con la dovuta attenzione e capacità di selezione, avrei trovato un po’ delle risposte cercate, e che mi sarei data l’occasione di formare un gusto rivolto a sviluppare un pensiero che non fosse soltanto critico ma anche creativo.

Questo per me rappresenta il cinema. Una scoperta non subíta da una condizione spontanea quanto piuttosto perseguita, intercettata e poi coltivata con la stessa ansia febbrile che si prova quando si vuol colmare subito una lacuna involontaria.
Mi piacerebbe poter dire di aver visto tutto, di avere al mio attivo tutto il cinema d’autore, quello di ogni genere, quello mai uscito in sala e che è il vero pane dei nerd più impallinati...ma la verità è che se avessi ragionato così forse non avrei soddisfatto la ragione profonda per cui ho imparato ad amare il cinema e cioè quella di toccare le corde più profonde della parte meno “dominabile” e interpretabile di me. Quando scelgo un film ho necessità di pensare che questo contatto stia potenzialmente per avvenire. Non mi interessa essere una mera accumulatrice di storie che non raccontino anche me. Ho nostalgia di tutto ciò che non ho ancora visto e che forse mi aspetta, ma sono felice di ciò che è già stato e che mi sono regalata quando ormai ero già strutturata per una ricezione consapevole e da modulare alla mia sensibilità. Mi chiedo sempre se i miei idoli di sempre da Allen a Bergman, passando per l’amatissimo Moretti a Wilder, Polansky, Hitchcock... Kubrick...sarebbero stati gli stessi se il mio imprinting avesse avuto una base di partenza differente. Non saprò mai se ho deciso davvero io il mio gusto oppure no.

Ecco, per me amare il cinema, e chi mi aiuta a comprenderlo, è soprattutto questo. E non so che fine avrei fatto senza rendermi conto giusto in tempo di questo.
Uh...poi “Hannah e le sue sorelle” me lo sono ricomprato in dvd. Assieme a una collezione altrettanto bellissima.
E tu? Sei nato con una passione? O come me sei rinato trovandone una quando potevi ormai decidere in tutta coscienza?

lunedì 27 aprile 2020

Metto in lista

Era l’ultima fetta. Ho appena fatto colazione con la cheese cake più buona che abbia mai fatto da quando mi cimento nelle mie creazionii cremose e molto consolatorie. Le colazioni degli ultimi giorni hanno raggiunto dei livelli di sofisticazione che riserverei solo ad un amore molto solido. E invece questa cura è stata tutta per me. Caffè, cheese cake e poi una bevanda chiamata Golden milk: latte, curcuma,  zenzero e cannella. I miei ultimi giorni di questa fase 1 hanno il sapore di un ritiro spirituale che ha funzionato fin troppo bene. Se dovessi farne un bilancio mi ritroverei con un utile netto “spaventosamente” alto.
Io alla vita di prima temo di non aver più voglia tornare. Capisco le legittime esigenze di chi ha bisogno di ritrovarsi fuori, di lavorare, andare dal parrucchiere, abbracciare chi ama, tubare...Ma io vorrei starmene ancora un po’ qui. Prometto che non darei fastidio a nessuno, che non mi lamenterei neppure una volta, neppure per il vicino fesso. Io il mio rientro alla vita non riesco proprio ad immaginarmelo.
Pensavo più o meno a queste cose proprio poco fa, davanti alla mia fetta di torta, col profumo di cannella che mi distendeva i nervi e il caffè che mi restituiva al mondo dei vivi. Da ieri sera si sa che da lunedì prossimo si tornerà lentamente alla “normalità”, pur con tutti i nuovi limiti a cui temo dovremo abituarci per sempre, e io ho pensato che perlomeno devo fare in modo di farmi trovare pronta e non perdere l’occasione irripetibile di trovare finalmente il mio centro pure mentre mi “rimetto” al mondo. Ma da dove comincio? Forse da una lista. Sì, non sono Foster Wallace ma una lista essenziale, ben ponderata potrebbe costituire un orientamento di massima abbastanza efficace. Potrei metterci dentro le cose certe e che mi riguardano da sempre assieme a quelle a cui voglio assolutamente tendere prima di definirmi davvero felice. Cosa potrei mettere dentro una lista delle priorità per ripartire senza inciampare al primo metro?

- Fare colazione con calma, col servizio buono, gli integratori e la curcuma corretta al cacao. Mi hanno spiegato che è un antiossidante così miracoloso che pare che pure i pensieri conservano la loro freschezza.
- Pensare a qualcuno con profondo affetto. Anche se volessi non riuscirei a sottrarmi da questo. Che bello
- Mettere per iscritto almeno una sensazione. Ogni giorno. A volte non è così scontato. Ci sono giorni in cui non ho provato nulla ma è troppo difficile mettere per iscritto questo stato d’animo. Spero che non mi succeda mai più
- Provare a piacermi come quando avevo trent’anni. Ero troppo gnocca...ma ci provo lo stesso
- Trovare qualcuno da amare e non temere di dovere aspettare mentre questo purtroppo non accade. Nel frattempo esiste l’immaginazione, la pazienza, la fiducia che anche i miracoli accadono
- Pretendere di essere l’unica scelta possibile. Non “semplicemente” la prima. Questa è la sola pretesa che ho nella vita. Ci potrebbe anche stare...
- Ridere da sola per quasi tutto quello che penso e per come vedo me stessa. Fin troppo facile
- Guardarmi indietro solo per pensare che in fondo mi è andata di lusso. Grazie a chi mi ha deluso e tradito. Non erano giusti loro e non lo ero neppure io
- Trovarmi sempre così buffa. E come potrei prendermi più sul serio di così?
- Continuare a vivere a Milano fino a che mi è possibile. Potendo scegliere certo che sì

Ho finito la cheese cake. Era sublime eppure si trattava di una versione light. Chiunque penserebbe che non può dare la stessa soddisfazione di quella ipercalorica con la panna, lo zucchero e la Philadelphia. E invece questa era allo yogurt greco magro, la ricotta e il miele. La base era senza burro e dolcificata con la stevia. E giuro non ho rimpianto quel macigno indigeribile della ricetta classica neppure per un secondo







venerdì 24 aprile 2020

La realtà da mettere in lista

Alla fine ha funzionato. Come molti ho perso il conto dei giorni in cui vivo così, in questa bolla domestica in cui è facile avere il controllo di tutto perché è davvero poco quello che è rimasto da gestire. Da quando mi è stato impedito di andare in ufficio ho provato ad immaginare la mia vita solitaria e domestica con lo spirito di chi in fondo ha sempre desiderato una cosa del genere. Sapevo fin da allora che non avrei sofferto, non mi sarei annoiata, che tutto quel tempo in più a disposizione sarebbe stata l’occasione per fare meglio o cose nuove, che le ragioni di amarezza sarebbero state dettate da ragioni diverse dall’isolamento, tipo un vicino rumoroso che ho imparato a perdonare, o il suono continuo delle ambulanze, o la preoccupazione dei miei genitori che ora più che mai spingono per farmi tornare a casa (“Lucia, ma ormai che ci fai ancora lì in quella scatola di tonno, in un posto che non è più così sicuro, dove non puoi più fare quasi nulla...”).

Per quel che mi riguarda potrei andare avanti così ancora per un sacco di tempo. La mia ossessione per le liste ha pagato: ne avevo stilata una che includesse attività imprescindibili a cui mi sono scrupolosamente attenuta, e poi ho trovato il tempo per sperimentare in cucina ricette complicate o molto sane, per pensare alle persone a cui voglio bene, per riprendere interessi sopiti, per allenarmi un po’ meglio. E per immaginare cose che vorrei che accadessero ma che di fatto non stanno né in cielo né in terra e che non hanno diritto alla loro realizzazione per quanto sono campate in aria. Ed è giusto così.
La chiamano comfort zone, credo per far sentire in colpa chi non si riconosce in un consesso in cui riesce ad incastrarsi solo al prezzo di uno sforzo enorme. Per me è semplicemente l’occasione preziosa di essere se stessi senza sentirsi costretti a dare un contributo fattivo di restituzione alla società.

Ho avuto anche io dei momenti di crisi in questo periodo e sono stata felice di andare in ufficio per un giorno e starmene lì, pure stavolta tutta sola, in quello spazio familiare quanto quello di casa mia. Ho amato le volte che potevo starmene al supermercato a scegliere con cura tutto quello che volevo e camminare per tutta via Mecenate in un silenzio che non conoscevo, in un’atmosfera così rarefatta che mi sono chiesta per tutto il tempo cosa mi rendesse interessante Milano quando non era così.

Ieri, dopo una bellissima lezione on line sul cinema russo (i corsi di cinema sono un’altra delle ragioni per cui lo stare a casa non mi è penoso per nulla) mi hanno telefonato ben due dei miei compagni dei tempi in cui quei corsi li seguivo “in persona”. Mi hanno chiamato a distanza di un paio di minuti l’uno dall’altro e mi è sembrata una coincidenza assurda e simpatica. Mi è parso di capire che per loro l’isolamento è invece davvero molto duro. Ho lasciato che mi raccontassero la loro condizione, i problemi e le difficoltà che io non ho e neppure potrei immaginare di poter risolvere. Mi sono resa conto che a parità di condizioni la vera differenza la fanno il carattere e lo spirito di partenza. E poi che, forse, i problemi che ti trovi a gestire sono spesso quelli che arrivano a causa di carattere e spirito di partenza. No, questo credo sia vero solo in minima parte.

Ma che ne so, io sto ancora abbastanza bene in questa strana condizione di autenticità spontanea e le sole paure che ho sono le modalità con cui affronterò il ritorno alla situazione precedente, quando rimetterò in conto anche la possibilità di un incontro - ma purtroppo anche il contrario - e quando la lista delle cose da fare si aggiungerà a quella delle cose da sopportare, quando l’immaginazione non si accontenterà più semplicemente di se stessa ma avrà pure pretese di realizzazione.
E poi soprattutto, chi lo sa se il mio primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera continuerà ad essere quello attuale, oppure, ragionevolmente la smetterò anche stavolta.

giovedì 16 aprile 2020

Quella parete troppo sottile

Ormai le tengo per quasi tutto il giorno. Le mie cuffie bluetooth, ultimo regalo di Natale del mio ex collega che ha fatto in tempo ad andare in pensione prima che il mondo piombasse in questo isolamento un po’ demenziale, sono ormai una protesi quasi fissa. Durante questo mese di vita, quasi totalmente claustrale, per godere in pieno della pace che da sempre associo allo stare dentro casa a pensare ai fatti miei ho dovuto imparare gli orari dei miei terrificanti vicini di casa, quelli che non conosco ma che forse neppure si rendono conto del rumore che fanno tra, litigi furibondi, musica a volume massimo e oltre, conversazioni notturne vita skype con un tono di voce cosi alto che forse dal Sud America sentirebbero anche senza telefono...io associo la civiltà esclusivamente alla sensibilità verso il prossimo e, per la mia esperienza, il posto in cui vivo non costituisce per niente un bell’esempio. Ma non importa, ho deciso di considerare questa condizione un po’ faticosa adattandomici e provando a razionalizzare, comprendere, esercitare la pazienza e la calma. E sospirando.
Una delle soluzioni sono state appunto le cuffie grazie alle quali riesco ad alterare il mesto contesto in cui mi trovo a vivere in certe ore del giorno ascoltando bella musica, film che ho felicemente riscoperto e seguendo gli amati corsi on line. Ho preso anche dei tappi per le orecchie per non svegliarmi di soprassalto durante la notte. Insomma ancora resisto, sebbene il dubbio che troppo spesso l’umanità mi appaia detestabile e noiosa finisca col prevalere sul contrario. Ma forse è solo perché in fondo ne faccio parte anche io e poi non ho voglia, ora, di avvitarmi nei miei paradossi insolubili in un momento in cui faccio i conti con limiti di scelta particolarmente stringenti.

Malgrado tutto, stare a casa mi piace ancora. Continuo a vivere il conflitto di un periodo oggettivamente terrificante con la piccineria della mia serenità ombelicale, quella fatta di cose che finalmente riesco a portare a termine come voglio io, rispettando tempi e ritmi totalmente miei, di lontananza dalle persone che non mi piacciono (che tanto quelle che mi piacciono le trovo qua sopra e va bene lo stesso), da un lavoro che per fortuna mi serve soltanto per vivere e giammai per sviluppare in qualche modo una passione. Il mondo fuori mi ha sempre spaventato è inutile che la metto in qualche altra maniera. I solitari come me una vita così l’hanno sempre sognata. Sono quelli che si accontentano di osservare lo spettacolo, o la tragedia, della vita leggendo libri o intossicandosi di film dalla mattina alla sera, quelli che non hanno bisogno di parlare tanto e che hanno così paura di essere traditi che preferiscono evitare di volere troppo bene pur di non rischiare mai più l’esperienza. Sono quelli che non metabolizzano mai bene un’offesa e neppure l’indifferenza. Sono quelli che hanno imparato a trovare comodo, o inevitabile, abituarsi a rinunciare.

Quando provo ad immaginare cosa mi accadrà davvero quando tutto questo sarà finito, ammettendo che sarò tra le fortunatissime persone ancora in buona salute e con il proprio lavoro, mi pare ad un tratto tutto così estraneo.
Ritornare a percorrere tutti i santissimi giorni via Mecenate, timbrare il cartellino, ritrovare la mia scrivania, gli odori tipici dell’ufficio, tutte le persone, la biblioteca, la spesa alla Coop, Porta Venezia e gli altri luoghi di una città in cui ho trovato normale vivere...non me la immagino proprio la vita di prima ripresa come se nulla fosse stato nel frattempo.

A quest’ora c’è ancora un bel silenzio. Tra le cose che ho imparato c’è che il vicino terrificante del Sud America non si sveglia prima dell’una e così associo questo momento della giornata a quello della meditazione e delle riflessioni. Le stesse che mi portano a dire che tutta la mia vita precedente in fondo non ha fatto che oscillare tra falsi obiettivi e autentica inclinazione ad osservare il mondo, piuttosto che percorrerlo davvero.
Il frigo è quasi vuoto, non faccio la spesa da due settimane, in questo momento il silenzio è rotto solo dal suono dell’ambulanza.
Quasi quasi è meglio quando il sud americano sta sveglio...

domenica 12 aprile 2020

Pasqua come puoi

Sono anni e anni che per me le feste comandate sono fatte così. C’è un patto con i miei nel quale si stabilisce  che Natale e Pasqua sono momenti in cui io non mi sposto da dove sono per poi prendere le ferie quando tutti rientrano e tornare giù. Il fatto di non essere credente da tanto tempo aiuta, pure se di fatto soprattutto certe ritualità gastronomiche mi sono sempre parse un importanteelemento da preservare, se non altro perché mi conviene. La mia Pasqua sarebbe stata all’incirca quella isolata che mi accingo a fare anche in condizioni normali.
In passato ce ne sono state alcune che ho trascorso compitamente sola, di solito inaugurandole con una bella corsa, un pranzo molto studiato, l’immancabile pastiera e l’inevitabile uovo “solidal” della Coop. Ma ne ricordo una che invece ho trascorso in compagnia di una persona a cui ho voluto tanto bene e di una passeggiata in mezzo al tantissimo verde che questo lato della periferia milanese custodisce. Per me le feste sono solo questo: pace solitaria o stessa pace ma condivisa con persone precise.

Dunque nessun cambiamento traumatico per la giornata di oggi, anche se il senso e la modalità con cui vivrò l’isolamento hanno stavolta una scaturigine non del tutto dettata da intenzioni personali. Intanto un cambiamento drastico già c’è. È la prima volta che manca la pastiera: quella che preparavo aveva destinazioni d’uso anche per l’ufficio o per amici che avrei visto a pasquetta o immediatamente dopo. Stavolta ho preparato solo una cheesecake molto leggera e fresca che non mi ha impegnato molto e che mi pare più che sufficiente per onorare questa domenica di riflessione lieve E poi non ho neppure l’uovo. Ho scordato di comprarlo e la sola cioccolata che ho in casa sono delle praline che ho portato dall’Islanda. La cioccolata rimane cioccolata e le sorprese sono davvero tali quando non te le aspetti, non se sai dove trovarle. Insomma, continuo a vivere questa condizione così profondamente atipica con una serenità che, paradossalmente, mi spaventa un po’,  perché mi fa pensare di essere una persona orribile che riesce bastare a se stessa e che trova sufficiente il semplice pensare con affetto alle persone o raccattarle sui social per dire loro che le si vuol bene. Ma questo è.
Il problema più serio che ho avuto fino ad ora  è il vocione notturno di quel buontempone del mio vicino sudamericano che mi fa svegliare tutta spaventata: ho messo dei tappi per le orecchie, mentre rifletto mesta sul fatto che la sola presenza umana che percepisco fisicamente è una presenza fastidiosa. Curioso davvero.

Che poi mi chiedo cosa ci sia davvero da festeggiare. Pure per un credente. Qui in Lombardia le cose vanno parecchio male. E questo proprio mentre io mi alzo la mattina, ancora in salute, con la dispensa ancora piena di caffè e di miele, con Internet, la musica, i libri, i film e la cyclette. E proprio mentre sono felice di non subire la mancanza di nessun amore lontano, o di bambini che non vanno a scuola e che si fa fatica a gestire e far crescere come si deve, o di un affitto che non si riesce a pagare. E mentre i miei giù in Campania se la cavano per fortuna anche senza di me.
Tutto questo proprio quando penso che la capacità di adattarsi a tutto sia una gran fortuna, ma in fondo pure un gran bel guaio.
Sono già le dieci del mattino di una Pasqua così uguale e così diversa da quelle che mi ero scelta. Credo che trascorrerò quel che ne resta ad immaginare la sorpresa che mi sono persa per il mio uovo mancato. E poi a chiedermi se, per una volta, sarei riuscita a non rimanerne delusa.
Buona pasqua

giovedì 9 aprile 2020

Una questione di Volontè

“Ho scelto questo perché ho ricordato che una volta abbiamo parlato di quanto ti piacesse la classe operaia va in Paradiso. Uno dei protagonisti di questo libro si chiama proprio Lulù”. Mi disse più o meno queste parole quella volta che, invitandolo a pranzo, mi aveva portato in regalo un libro di Pino Cacucci. Trovai molto tenere, e frutto di una attenzione e una cura non comune, le ragioni di quella scelta e non altre.

Proprio ieri quel libro mi è piombato tra le mani, in uno di quei momenti in cui mi relaziono con la mia casa con lo spirito di un esploratore. È stato così che mi sono ritrovata catapultata in quel tempo strano, ormai di un po’ di anni fa, quando frequentavo con molta assiduità la palestra vicino al mio ufficio. Quella con la sauna al piano di sotto. Ci conoscemmo così: lui aveva occupato il mio tapis roulant, o meglio, quello che io ero solita usare, essendo un po’ abitudinaria e pedante. Ne fui contrariata ma mi allenai lo stesso in qualche modo. Subito dopo andai in sauna e poi nella sala relax per riprendermi. Fu lì che lo ritrovai e cominciammo a chiacchierare senza una ragione precisa. E fu in quel momento che gli perdonai il “furto” a sua insaputa del mio attrezzo. Lo ritrovai ad aspettarmi all’uscita della palestra. Era un uomo abbastanza più grande di me, molto affascinate e semplice allo stesso tempo, che da quel momento avrebbe fatto in modo di trovare sempre del tempo per me, per tutto il periodo che io gli concessi.

Il suo film preferito era “Fino all’ultimo respiro” e quando vide la mia edizione speciale con il booklet me la invidiò molto (ma non ebbi lo stesso il coraggio di regalargliela), il suo libro più amato era “viaggio al termine della notte” e la cosa che più mi piace ricordare è proprio quella sua specie di smania nel suggerirmi cosa leggere o ascoltare. E anche la sua curiosità per la mia vita, come ero capitata a Milano, che cosa sognavo davvero. Aveva preso l’abitudine di chiamarmi durante il tragitto dal lavoro o quando fumava il suo unico sigaro della giornata perché, diceva, così univa due cose belle in una volta sola. Gli piaceva passare il tempo assieme sulla panchina vicino casa mia, a chiacchierare o anche a stare in silenzio e poi si faceva giurare sempre che non avrei mai usato la bicicletta per girare in città. Non mi fece mai mistero di essere sposato e che in fondo ciò che gli dispiaceva davvero era di non essere nè felice nè infelice con sua moglie (non ne parlava mai male nè con sdegno, ma avevo come l’impressione che non sapesse più cosa dire di lei) e io, forte del mio categorico “non desiderare l’uomo d’altre” non ambivo a successive evoluzioni di quello strano legame che un po’ mi lusingava è un po’ lo consideravo la mia piccola vita separata dal resto.
Funzionava così da quando era cominciata: lui mi cercava e io lo ascoltavo, mi divertivo, imparavo, notavo con piacere la sua attenzione ai dettagli. E poi riprendevo con le mie questioni altre, quelle in cui c’era posto solo per me.

Poi un giorno ho smesso di rispondere alle sue telefonate. Perché era giusto così.
Oggi Volontè avrebbe compiuto 87 anni. Rimane per me il più grande attore che l’Italia abbia mai avuto. Lo dico da tanto tempo. E ancora me lo ricordo bene

martedì 7 aprile 2020

Il valore aggiunto del sottrarre

Cos’altro aggiungere? Direi nulla ormai. Se un passo in avanti si può fare ormai può essere fatto giusto per sottrazione. Come si aggiorna un diario in cui le giornate si articolano nel perimetro ristrettissimo di una casa molto amata ma piccolina piccolina, che affaccia al pian terreno di un cortile anonimo delimitato da altre tredici casine?  Non so immaginare cosa stia accadendo altrove e come stia mutando lo spirito di ciascuno, man mano che i giorni passano e si consolida l’abitudine alla restrizione della libertà di movimento oltre ad una certa difficoltà nel gestire tutte le “esternalità negative” che questo fatto comporta.
Posso dire di quello che accade a me, che come sempre sono monotona, abitudinaria, appassionata di metodo più che di contenuto. Continuo a trovare naturale la mia sveglia delle cinque, l’acqua a temperatura ambiente, la quantità industriale di caffè, fiondarmi da subito sui ricordi che fb mi restituisce per questi ultimi undici anni. E poi ci sono le pagine che mi assegno la sera prima del mio libro di turno, ovviamente gli allenamenti. E, sempre ovviamente, un film o una serie. Solo adesso mi rendo conto che in tutto questo lasso di tempo mi capita anche di non parlare mai. Non una parola. Penso, faccio cose. Ma non parlo mai.

Quando cucino sperimento ricette che hanno l’ambizione di dare lo stesso appagamento della versione tradizionale ma con criteri di drastico alleggerimento: si tenta di dimostrare che il gusto e l’estetica siano pressoché invariati pur osservando un utilizzo virtuoso degli ingredienti utilizzati per la composizione delle pietanze. Funzionano.
Verso le quattordici la mia cucina viene inondata di sole e così spalanco tutto e sistemo la sedia in mezzo a tutta quella luce. Di solito ascolto musica e me ne sto in quella posizione, con gli occhi chiusi e,  credo, un sorriso ebete che il micio della mia dirimpettaia deve aver notato.

Il pomeriggio è un po’ più duro. Credo che cominci a pesarmi molto proprio il fatto di non dire mai nulla, ma lo stesso non mi viene voglia di chiamare nessuno. E così capita che mi metta a leggere un po’ di articoli e pure i commenti spesso assurdi che li condiscono. Oggi ho litigato in modo molto acceso con un signore non giovane che esprimeva giudizi intollerabili sul fatto che la Mannoia abbia un fidanzato molto più giovane di lei. L’ho fatto nero come non sarei stata capace di fare se l’avessi avuto di fronte. In fondo meglio di niente. Ma non mi presterò più a queste bassezze.

Mi sono ripromessa pure di non usare mai espressioni come “giorni sospesi” o “resilienza” e di continuare a buttar via almeno un oggetto ogni giorno.

Devo scegliere un nuovo libro da leggere tra quelli comprati da tanto tempo e mai aperti. E poi devo camminare per dieci minuti sui tacchi alti: prima d’ora non ho dato loro neppure una possibilità. Non ricordo neppure in che occasione ho comparto delle scarpe simili. Questo è stato il mio pretesto per decidere che darò vita a tutte le cose accantonate e dimenticate prima del loro utilizzo e che le terrò con me fino a quando mi avranno lasciato qualcosa di sè che mi sia preziosa per conoscere me. C’è un tipo di usura che si determina per mero non uso. E questo mi pare un gravissimo spreco. Succede anche con certe parti di noi stessi che dimentichiamo ci appartengano o che ci sembrano sbagliate senza prima riconoscerle come nostre.
Ho tutto qui. Ciò che mi resterà sarà tutto il mio necessario



venerdì 3 aprile 2020

La prima cosa che farò non è la prima. In compenso è l’unica

Mi viene ancora naturale rispettare gli orari: svegliarmi presto e scansionare il mio tempo come per seguire una ideale tabella di marcia. Credo che sia molto importante. Continuo a non annoiarmi e a trovare questa assurda condizione anche come un’occasione per soffermarmi su questioni che di solito tendo a rimuovere grazie a pretesti più o meno validi. A parte questo, ritrovo purtroppo conferma di un certo pessimismo che da sempre mi accompagna visto che non mi basta pensare a quanto io sia una persona fortunata, con i miei pochissimi meriti e la relativa facilità con cui, fino ad ora, mi è stato concesso di stare al mondo.

Vivo la mia casa notando con stupore alcune sconosciute variazioni di luce durante il giorno, leggendo, ascoltando musica, scovando nei cassetti, rivedendo film che si rivelano essere un’autentica riscoperta. E poi cucino cose pescate da un sito per salutisti secondo il quale se non hai la farina d’avena non sei nessuno, ma le ricette sono divertenti e molto gustose. Cambiare alimentazione, continuare a muovermi è necesssrio non tanto per stare in forma, ma per sviluppare degli ormoni fondamentali per il buonumore e per ossigenare il cervello.
Insomma, la verità è che non faccio nulla per il prossimo, riesco ancora a divertirmi con attività ricreative semplici ma efficaci, non ho nostalgie che mi annientano e non passo tutto il tempo a chiedermi quale sarà, parrucchiere a parte, la prima cosa che farò quando tutto questo sarà finito. Ecco, se c’è una cosa che ho davvero imparato da tutta questa esperienza è proprio la mia inattitudine a connettermi profondamente con il battito del mondo. Temo che questa esperienza mi punti l’indice per inchiodarmi al fatto, per me profondamente sgradevole, che non smetterò mai di considerare la vita del singolo come l’unico vero atto politico possibile, pure quando mi sento in colpa per questo e se sento che in fondo è un principio che non sta in piedi neppure su un piano strettamente logico, oltre che etico. Alla fine ho il timore tutt’altro che infondato che la quarantena faccia male pure a chi se la vive con serenità ma vorrebbe coltivare una sensibilità un po’ diversa..

Ieri ho fatto la spesa e c’erano tante persone che lo facevano in coppia. L’Europa mostra la sua “evanescenza” come progetto non meramente economico. I miei vicini di casa urlano sempre e alla radio sorrido a testimonianze di convivenza che rivelano legami inesistenti o, peggio, tossici. Come si fa a pensare che vivere da soli non sia la cosa più bella del mondo?

Invece la qualità dei miei sogni non cambia mai. Le poche cose che desidero davvero sono rimaste intatte, sempre uguali a se stesse, per nulla rimpiazzate da questo cambiamento drastico del mio quotidiano e di certo pure della storia a venire,  ma ai miei occhi ancora “transeunte” rispetto alla fissità di un sentiero che sento come profondamente mio.
Ecco. Ora ho capito. La quarantena mi serve solo a questa cosa qui. A stabilire il confine netto tra ciò che sento da sempre come imprescindibile e l’adattamento un po’ approssimativo ad un mondo in cui mi lascio contenere senza troppa convinzione. 


giovedì 2 aprile 2020

Soufflé. Tanto per cominciare. E poi continuare

Il soufflé è in forno. In casa c’è un profumo di vaniglia e limone che mi mette pace. Si tratta di una versione light a base di yogurt greco che avevo voglia di fare da un sacco di tempo. Il soufflé richiede un po’ di abilità e attenzione e pure una certa propensione al rischio di fallimento a cui bisogna essere predisposti.

I giorni passano ancora sereni. Fin dall’inizio mi ero ripromessa di non modificare le mie routine, che posso continuare a conservare in nome di uno schematismo rassicurante dove poter stabilire i confini nei contenere imprevisti e opportunità. Continuo a svegliarmi alle cinque e a prepararmi come se ci fosse la possibilità che venisse a bussare alla porta l’uomo della mia vita. Cerco di non impigrirmi continuando ad allenarmi con quelle disgraziate dei tutorial che seguo, non smetto mai di leggere e ho deciso di vedere solo film che rappresentino una sfida piuttosto che un divertimento. E poi butto qualcosa ogni giorno: faccio una specie di decluttering non troppo traumatico ma ugualmente liberatorio.

Per me è ancora tutto ok. Mi piace molto l’applicazione ottusa di un comportamento che mi pare utile. Ma so quanto sia dura per moltissimi, per ragioni emotive, di salute, economiche, logistiche...perché per molti la piena espressione di sè passa attraverso l’interazione umana. Poi però penso pure a tutti quelli con cui ho rapporti di mera ipocrisia cordiale e che in genere mi affaticano molto, a chi mi ha ferito più o meno consapevolmente, a chi mi è antipatico e che mi fa piacere non dover incrociare in questi giorni. Penso a chi in questa fase non mi ha contattato e a chi insospettabilmente l’ha fatto proprio grazie a giorni come questi. La distanza sociale per me è stata soprattutto rivelatrice. Per il resto non mi stanca per niente.

Il soufflé al miele e allo yogurt greco è quasi pronto. Credo di meritarmelo. Se non altro perché non mi lamento mai. E poi perché addirittura mi permetto di essere serena. E perché mi è ben chiara la differenza tra la mia condizione di persona sana e naturalmente solitaria e l’enorme folla di fragilità eterogenee che in questo assurdo periodo stanno vivendo una specie di inferno a gironi indefiniti.
E perché quando si tornerà alla vita normale sarà tutto più difficile anche per quelli come me che alla vita normale associano un’idea di sforzo innaturale.
Il soufflé è pronto. È leggerissimo e profumato. Proprio come vorrei che fosse qualsiasi altra cosa