Sola andata

Sola andata

lunedì 29 novembre 2021

Capire. Senza pensarci

 Credo che capiti a tutti, prima o poi, di avere la sensazione che tutto appaia nella prospettiva adatta da avere una spiegazione più convincente delle centinaia di volte in cui tutto sembrava vano e insensatoE’ un po’ come se durante il tempo vissuto fino a quel famoso momento noi ci fossimo mossi a caso o per tentativi maldestri soltanto per riuscire a trovare quella giusta angolazione, il punto di vista perfetto per far tornare almeno parte dei conti con noi stessi. Probabilmente è solo ciò che mi piace pensare in questa parte della mia vita, annidata in uno scorcio di tempo profondamente anomalo e diverso da tutto quello a cui ero abituata, barcamenandomi tra una quotidianità che amo e in fondo mi gratifica e l’oceano di banalità a cui assisto continuamente nella contrapposizione tra pro vax e no vax e temi annessi. Io trovo tutti equamente colpevoli nelle modalità con cui affrontano le discussioni, con cui si violenta il concetto stesso di approccio scientifico, l’inquadramento della questione, che è anche – inevitabilmente – politica e sociale…nessuno capisce davvero l’altro e nessuno lo ascolta davvero. Una babele inutile e dannosa che rappresenta il mio unico rammarico di questi tempi. Direi che in fondo mi va pure di lusso.

Ieri ho visto due film al cinema. Uno più bello dell’altro ed entrambi illuminanti quando si vuole fare i conti con la propria storia senza mettere troppi filtri. Si può sempre ripartire se di tutto il male che ci sentiamo addosso, o intorno, lo usiamo così creativamente da trasformarlo nella nostra risorsa principale. Questo ho capito ieri. E così ho pensato a cosa fare di tutto questo mio sentirmi sempre così storta e inadeguata per chiunque e in qualunque caso. Forse non troppo, eppure mi basta per sentirmi in pace tutte le volte che penserò che non vorrei mai fare a meno delle mie albe, delle mie sessioni di allenamento antelucane e della mia insonniaperché tutto quello che ho imparato ad accettare e ad aggiustare di me l’ho fatto in quelle stranissime ore lì. Ho capito che la solitudine è una pesantissima e dolorosissima esperienza che ad un certo punto compie la strana magia di trasformarsi in una condizione preziosa e unica a cui difficilmente rinuncerei adesso. Ho capito che nessuna coppia, tra quelle fino ad ora conosciute, è come sogno io che dovrebbe essere una coppia, eppure per loro è ok, quindi è giusto e fa parte della natura delle cose che io non sia espressione di quella realtà.  E poi ho capito che sarei stata una buona mamma di bambini che non sarei stata capace di amare, come moltissime donne che conosco diventate madri senza la reale volontà di esserlo. Per quanto mi riguarda, non si cancella un vissuto che non posso cambiare e che mi ha segnato senza darmi scelta. Ho pure capito che mi piace essere innamorata e che amare invece diventa, alla fine, quasi sempre un noioso “accollo” : i grandi amori, ai miei occhi, sono soltanto quelli implosi sotto il peso della loro stessa grandezza per poi adattarsi alla pacata tranquillità di legami altri che di quell’antico struggimento conservano solo un malinconico ricordo. Sono felice di non avere un marito, meno di non avere un innamorato da ricambiare. Ma mi reputo salva lo stesso. Ho capito l’importanza di liberarsi, anche in modo drastico e netto, di persone che ci tolgono luce, che non sono interessanti. Un bagaglio inutile a cui ci si adatta troppo spesso solo per educazione. E poi ho capito che sono un’ottima cuoca, ancor più brava da quando ho imparato a godere del cibo senza timori, neppure quelli di una bilancia, che mai è stata così generosa com me come in questi ultimi anni folli. E poi ho pure capito che sono più bella oggi di vent’anni fa. Ma tanto.


Tra qualche giorno andrò a casa per un po’. Spero di fare un giro per i vicoli di Napoli senza troppi problemi e pure di andare a vedere il mare e immaginare di poter scegliere con più libertà quanto tempo restare lì e quanto a Milano. E poi mettermi in ascolto. E provare a capire qualcos’altro. Così, come se non lo volessi davvero.

lunedì 22 novembre 2021

A passeggio. Est, dintorni, sotto. E dentro

 È andato tutto bene. Sono tornata solo da qualche ora in una Milano umidiccia e grigia, molto più di Budapest dove le giornate sono state luminose e clementi anche nella temperatura. Sono felice. Non mi concedevo un piccolo viaggio da troppo tempo e ormai non ne potevo più delle solite chiacchiere sterili sul green pass, la pandemia, i contagi e tutte le legittime preoccupazioni di un tempo che ha il fiato troppo corto per riuscire a parlare d’altro. Eppure credo sia altrettanto legittimo chiedersi quanto conti davvero pensare solo ed esclusivamente alla salute per trovare che sia sufficiente questo perché valga davvero la pena di vivere. Budapest è una bella città in cui non ho avvertito la stessa ossessione pandemica e in cui le suggestioni visive e gli spunti  sono stati sufficienti per valorizzare i giorni che ho impiegato a cercare di scoprirla per costruire un’esperienza da portare a casa. 

Di quest’ultimo scorcio d’anno mi porto dentro anche altre cose magnifiche: l’ultima prova d’autore di un immenso Zerocalcare, un po’ di film belli, mancanze che ho trasformato in ricordi sani come desideri che si credono realizzati soltanto perché hanno smesso di essere delle smanie. Considero conquiste pure queste, mica solo le mail di quello che crede di sentirsi in diritto di scrivermi cose equivoche solo perché non lo mando al diavolo e manco capisce che se ho imparato ad amare la solitudine è proprio perché ho passato i miei anni migliori ad evitare con malinconica rassegnazione i tipi come lui. Mica perché non li ho trovati…ma quando mi libererò di “campioni” simili?

A Budapest ci sono un sacco di musei, ma non c’è stata partita con l’ospedale sotterraneo antiatomico: una simulazione esatta di quello che accadeva lì sotto, con tanto di manichini, sangue, stazioni radio, dispense, aerei militari durante i tempi delle sperimentazioni atomiche è rimasto segretissimo fino all’inizio degli anni 2000…pazzesco. Mi muovevo tra quei corridoi e i manichini provando a capire quale dei due regimi che si sono avvicendati abbia fatto più danni in quel lembo di territorio così limitato eppure così  nevralgico sul piano strategico.

Ho camminato molto, fatto la classica crocierina sul Danubio, mangiato abbastanza bene, dormito, come sempre, molto poco. Rientrare a Milano mi è dispiaciuto. In tv c’è la Benedetta che per la trecentomillesima replica soffrigge l’aglio con gli spinaci a cui aggiunge ricotta e uova: una cosa che faccio da tutta la vita senza dirlo a nessuno perché di più imbarazzante per banalità c’è solo la zuppa di latte. Poi per carità, le voglio bene lo stesso eh…

Anche il 2021 si prepara ad essere dignitosamente dimenticabile, proprio come i suoi ultimi fratelli immediatamente precedenti. Detta così pare una cosa brutta e pure un po’ ingrata. E invece no. Il mio bilancio rimane positivo nelle non negatività che mi ha riservato questo tempo assurdo e carico di incertezze. C’è una pace che richiede un tempo non negoziabile e che è fatta di solitudine, rinuncia, poca ambizione, osservazione e scarpe comode. Più passa il tempo e più sono riconoscente di una vita così agevolmente controllabile e non accompagnata male. 

In questi giorni non ho cucinato, mi sono coccolata e ho assecondato ogni mia voglia dettata dal momento. Neppure mi sono chiesta se lo meritassi davvero. L’ho fatto e basta. Mi ci sono abituata? Per fortuna no, ma è stato bello scoprire che sono brava a farmi la corte meglio di chiunque altro fino ad ora incontrato nella vita. Budapest è una bella città che sa meritare il grande senso di pace che solo un fiume maestoso e placido come il Danubio è in grado di regalarle. È corteggiamento pure questo. Ce lo meritiamo.


venerdì 12 novembre 2021

A bordo del mio diario

 Giorni faticosi questi. Però belli: era un sacco di tempo che non avevo giornate così piene al punto da non farmi mai avvertire quel disarmante senso di noia o di indolenza inconcludente. Ho adottato il metodo del diario: annotare minuziosamente tutte le attività imprescindibili programmandole per orario ed obiettivi. Una roba che manco i militari. Però funziona. E’ bello monitorare ogni cosa, riuscire ad avere il controllo almeno di quello che ci interessa profondamente e che non vogliamo disperdere nell’indulgenza del “vabbè dai, sarà per un’altra volta”, “lo faccio domani, non ne ho voglia adesso” “non mi va più. Non ce la faccio. Sono troppo stanca” e tutta quella pletora di scuse validissime per allontanarci dagli obiettivi che riteniamo importanti ma penosi. E’ importante riconoscersi il merito di essere stati diligenti, è una cosa appagante indipendentemente dal risultato conseguito. Detto questo, la sera mi ritrovo ad essere sempre più stanca: ieri ho persino scordato di avere una lezione on line che in altri tempi mai avrei potuto saltare. Per fortuna ci sono le repliche altrimenti starei qui a morire tra un insopprimibile senso di colpa e la sensazione indelebile di fallimento esistenziale. Rientrare a casa e chiudere la porta a giornate come queste è il momento più felice e liberatorio di sempre e così pure tutti ipiccoli rituali applicati subito prima di abbandonarmi sul divano rappresentano momenti di gioia purissima: La bella luce del mio grande specchio in bagno riflette ogni volta un viso stanchissimo (ma che ha ripreso a truccarsi bene, rossetto compreso) che si impone un bel sorriso prima di togliere ogni traccia di eye liner e mascara per riproporre un viso al contempo più bambino eppure più segnato dal tempo. Poi ci sono le prelibatezze del frigo: tutto già pronto e solo da scaldare. Una tuta molto comoda, la copertina termica e il cuscino con i noccioli di ciliegia riscaldato per dare sollievo alla cervicale. Ecco, tutto questo è il mio premio per giornate intense come queste ma nelle quali, per una volta, non sono più le emozioni a dettare le regole ma un bisogno più concreto di lucidità e voglia di fare. Sì, credo che la vera grande novità di tutto questo periodo che forse si spinge ad abbracciare l’intero anno e oltre sia stata questa: il bisogno di innamorarmi (o di credere di sentirmi tale) non ha più la priorità di prima. Non credo ci sia una risposta univoca a questo strano cambiamento di approccio e di sguardo: forse il frequentare molto poco e solo persone con cui non ci sarebbero mai derive amorose, forsesemplicemente gli anni che passano hanno alterato la carica ormonale. Oppure, ancora, la scoperta di un lato di me che avevo trascurato. In fondo cosa vuol dire, veramente, cercare l’amore ma poi non desiderare un matrimonio, dei figli, una vita sessuale regolare, accettare l’idea di sopportare le reciproche debolezze e imperfezioni quando la passione cede il passo alla routine? In questi giorni mi viene solo da pensare che in realtà non ho mai desiderato altro che imparare a stare proprio come sto adesso. Che mi importa dello struggimento quando posso vivere una vita tranquilla? In fondo la sola cosa che non mi ha deluso mai è stata l’innamoramento platonico fine a se stesso, quel vagheggiamento infantile infarcito quasi del tutto di immaginazione e la garanzia di un tempo ridotto tra tutto questo e il disinteresse completo per chi inevitabilmente si sarebbe rivelato essere tutt’altro.

Sono giorni faticosi e belli questi, nati dentro un anno meno assurdo di altri eppure a suo modo più memorabile, senza un volto su cui inventare baci belli e impossibili, sogni proibiti accanto a strategie di conquista mai attuate e neppure quell’ oscuro senso di abbandono figlio di una solitudine scioccamente temuta.

Bella la storia del diario delle cose da fare per ottenere ciò che si vuole. Come se fosse davvero la prima volta che tengo un diario su cui dare conto dei fatti miei, io che mi segno tutto da sempre. Eppure mi pare di avere come l’impressione che nulla sia più come prima. Tutto si è trasformato in me così, all’improvviso, senza una progressione graduale. E mi piace, mi sta bene. Ma che mi sia scordata della lezione di cinema di ieri sera non me lo posso perdonare. Ecco una voce nuova, tra le vecchie cose importanti da conservare per mantenere la rotta, da aggiungere al mio diario. Non tutto è da perdersi. Neppure quando è tutto che cambia.

venerdì 5 novembre 2021

Quel saluto mancato di un’amica “mancante”

 Erano già un po’ di mesi che non ritrovavo i suoi post mentre scrollavo rapidamente le pagine di fb. Mai banale, forse un po’ troppo malinconico negli ultimi tempi, ma sempre appassionato e acuto. Come solo un bravo prof di filosofia riesce ad essere. Lo conobbi a Suzzara, curava il “palinsesto” delle proiezioni di un cineforum in cui teneva anche delle bellissime lezioni introduttive: l’idea era indicare la lettura di un libro associato ai film che trattavano le stesse tematiche. Diventammo subito molto amici: i miei mesi a Suzzara sono stati un bel ricordo anche grazie alle lunghe passeggiate pomeridiane sempre più frequenti a chiacchierare di cinema e un po’ delle nostre reciproche faccende,e poi le gite fuori porta offrendomi l’opportunità di una guida “colta” in quel territorio meraviglioso che si confonde con l’Emilia. Fino a seguirlo nei suoi affollati seminari che tenevaanche nei paesini limitrofi e che lo avevano reso uno degli intellettuali più stimati della zona. Patrizio mi ha accordato la sua amicizia con una generosità che non ho mai scordato. Poi sono andata via per trasferirmi a Milano e ci siamo persi in quella maniera che ormai conosco bene quando la prossimità delle relazioni viene interrotta. Per la verità una volta è pure venuto a Milano ma non mi riuscì incastrare i miei impegni con la possibilità di salutarlo. E’ così purtroppo, non sono mai stata brava a conservare le amicizie fuori dal contesto in cui sono nate. Poi un giorno, molti anni dopo il mio approdo milanese mi scrisse un sms carico di tutto il dolore che un uomo possa provare. Si era ammalato gravemente e lo aveva appena scoperto. Il fatto che si fosse ricordato di me, dopo tutti quegli anni e che sentisse il bisogno di informarmi mi fece gelare il sangue. Ci siamo ritrovati su fb, ritrovando la stima, la familiarità dei modi e la reciproca comprensione di un tempo. I suoi studenti continuavano ad amarlo e la sua attività divulgativa si era conservata fertile e appassionatacosì come la ricordavoCol tempo le sue cure mi erano sembrate farsi molto pesanti e invasive e intuivo che il lockdown lo aveva devastato. Poi ha smesso di scrivere. Ma io non ci fatto caso proprio subito. E’ morto nell’aprile scorso, ma io me ne sono resa conto soltanto pochi giorni fa. Ci sono i saluti di tutti quelli che gli hanno voluto bene e stimato e poco prima aveva scritto un paio di brevi post in cui accennava di non farcela più. Sapevo che sarebbe successo prima o poi e questa notizia, per quanto mi addolorasse molto, l’ho accolta senza lo stupore di chi non si capacita di una morte prematura. Però ho subito ripensato ai suoi racconti di allora, ai libri che mi ha prestato, ai film che mi suggeriva come se fossero beni di prima necessità, ho ricordato il suo orgoglio quasi fanciullesco con cui mi raccontava di come soltanto in quella porzione di territorio potesse prodursi il parmigiano reggiano e in nessun altro posto. E poi mi ricordo di un suo pianto, una sera,davanti ad una cioccolata calda mentre mi raccontava di una questione molto personale e ho pensato a quanta enorme fiduciami aveva accordato, pur senza conoscermi da molto tempo. Ad un tratto mi sono resa conto di quanto poco la meritassi e che quella volta che venne a Milano avrei dovuto impegnarmi per incontrarlo almeno per un saluto veloce. 

Ci sono aspetti della mia vita che mi pare di vivere senza la giusta intensità, come se non riuscissi a calibrarne la reale portata. Un mio amico mi dice sempre “Lucia, ma come fai a sopravviverti!”, alludendo al mio modo a volte “barcollante” di risolvermi il quotidiano. E’ vero. Vivo di piccoli “refusi” non solo di scrittura ma pure di condotta e in fondo credo che resterà sempre questa la mia cifra. D’altra parte se sono ancora qui a raccontarlo forse vuol dire che funziono lo stesso anche così.

Però ci sono distrazioni e distanze che non posso perdonarmi, checonsidero delle colpe gravi, come quella di non riconoscere l’affetto sincero delle persone speciali che la buona sorte ha voluto concedermi e che, bontà loro, hanno conservato un ricordo bello di me. La gratitudine non è un’opzione, va applicata con cura. Credo che lui non abbia avvertito davvero il peso delle mie mancanze e che abbia continuato a pensare a me con affetto fino alla fine. Eppure io sento di essere stata mancante nei suoi confronti.

Ora che è tardi e che la solitudine da pandemia aveva reso ancora più dolorosa la sua malattia sento che la mia disattenzione è stata un’occasione perduta di vicinanza. Nelle sue ultime foto a fargli compagnia c’era solo un piccolo cagnolino a cui dedicava un sorriso malinconico e riconoscente. Quasi quanto quel piantostruggente di tanti anni fa. Tutto passato. E chiedo scusa.