Sola andata

Sola andata

domenica 29 marzo 2020

Io che resto a casa. E tutto il resto

Per me si conclude soltanto oggi la mia prima settimana di reclusione. Ho tirato fino all’ultimo in ufficio per garantirmi camminate e ritmi cadenzati da obblighi e pochi tempi morti. Poi anche io mi sono allineata all’esercito dei reclusi perenni. Una settimana in cui non sono uscita neppure per la spesa o per concedermi qualche minuto ad osservare uno scenario diverso dal mio cortile. Ho seguito alla lettera i dettami della massima rarefazione sociale. Proprio come dovevo. E volevo. Ricorderò questo arco di tempo soprattutto per quello che ho scelto di non fare.
Ecco cosa non ho fatto:
- Non impastato nulla. Anzi non ho mai acceso il forno neppure una volta. Non sono caduta nel trappolone delle gare di panificazione che hanno dominato i social a colpi di panetti di lievito sempre più introvabili. Anzi non ho cucinato quasi mai e ho riscoperto l’enorme godimento che deriva da un panino farcito bene
- Non ho videochiamato nessuno, né mi sono attaccata al telefono per ammorbare qualcuno o esorcizzare la solitudine
Ed ecco quello che ho fatto perché ho scelto di evitare qualcosa di più intuitivo:
- Ho usato lo streaming con enorme parsimonia e riscoperto i favolosi dvd di una videoteca di cui vado giustamente molto fiera. I dvd sono dotati quasi sempre di preziosissimi contenuti speciali che valorizzano i film con un’aneddotica che spesso mi ha appassionato più dei film stessi. Avevo scordato quanta delizia nel trovarsi al cospetto di una parete in cui l’offerta è già quella che hai deciso tu e in cui devi solo scegliere tra cose che sai già che ti riguardano e che puoi ora ritrovare o riscoprire. È un’esperienza che stavo colpevolmente perdendo in nome di un’offerta più variegata ma anche più dispersiva e meno “liturgica”
- Mi sono allenata con il programma più pesante che ho. Al mattino presto, assieme a quella disgraziata americana del video che solleva con me pesi e fa affondi con una leggiadria che io non sarei capace di imitare neppure in assenza totale di gravità.
- Ho tenuto la casa pulita senza cadere vittima di smanie da perfetta casalinga che pulisce sul pulito. Ho buttato un po’ di cose e messo dei quadretti nuovi che attendevano da tempo una collocazione alla parete
- Ho letto un libro bello che mi aspettava da troppo tempo, ma sono stata abbastanza pure sui social, sia per cercare di essermi simpatica che per ricevere conferma che le persone che mi piacciono stanno bene
- Ho trovato delle scarpe col tacco alto che credo di non aver mai indossato in tutta la mia vita. Di certo non posso averci camminato sopra per più di tre passi.

Ecco. La mia settimana è andata così. Buona salute, molta calma, tanto silenzio, meno pensieri negativi e qualche nuova ipotesi. Qualche piccola mancanza, ma forse mi sono sbagliata.

Ho il frigo quasi vuoto. Tra tre o quattro giorni mi toccherà necessariamente uscire. Pare che a certe cose si smetta presto di essere pronti. Così come bisogna essere predisposti ad una vita simile alla settimana appena trascorsa.
Forse una chiave per ripartire potrebbe essere provare a pensare cosa farò di nuovo quando ritornerò alla mia vita di sempre. Chi lo sa, forse potrei partire proprio da quei tacchi riapparsi all’improvviso dall’angolo buio di uno spazio popolato soltanto da scarpe per passi veloci. Oppure deciderò di non riprendere a cucinare: credo che non mi sia mai davvero piaciuto e di averlo sempre fatto pensando a qualcuno. E questo è concettualmente sbagliatissimo. Oppure può darsi che non riprenderò ad andare al cinema neppure quando riapriranno le sale.
Forse troverò normale starmene da parte anche quando non mi sarà più richiesto. Chissà. In fondo il bello di un tempo vuoto come questo è che ha creato un bello spazio per accogliere qualsiasi possibilità. E a me questa pare ancora una preziosissima occasione per evitare di farci stare cose ormai vecchie o inutili novità

giovedì 26 marzo 2020

Non è questo il punto. O perlomeno non lo sono io

Ci pensavo già da un anno. Passavo giorni interi a chiedermi come avrei potuto fare, se potevo permettermi di farlo, che conseguenze avrei avuto, se ne avevo davvero bisogno oppure si trattava solo di un capriccio in un momento di stanca. Ho pensato per un sacco di volte alla possibilità di un anno sabbatico. Un anno tutto per me, ad occuparmi di cose che mi piace fare senza altro obbligo che assecondare un programma rigido ma totalmente indipendente. Sarebbe stata la mia terza esperienza di vita totalmente slegata da tutto, senza dover rendere conto di niente ad altri che a me stessa. La prima volta in cui ho assaporato questo stato di grazia è stato esattamente venti anni fa, in una torrida e magnifica estate in cui rimasi da sola a casa per tutto agosto per finire la tesi. Attrezzai il freezer con dei panini, scatolette e nulla più. Sveglia alle sette, colazione, mezz’ora di allenamento (a casa vanto una palestra che rimpiango molto) e poi scrivevo la tesi per tutto il tempo che potevo. Così fino al tassativo orario delle 19:00, orario in cui mi dedicavo ad attività dilettevoli o innaffiavo le piante. Andavo a dormire non più tardi delle 22:30. Finii nei tempi la mia tesi, che mi valse pure la lode ma questo, ormai, non conta più se non come prova assurda di una mia intelligenza scientifica che ancora non mi posso spiegare. Conta solo che fu l’estate più bella della mia vita. La mia prima esperienza di totale solitudine prolungata si rivelò essere la cosa più bella della mia vita.

È successo ancora a cavallo tra il 2007 e il 2008, periodo in cui il mondo piombò in una delle più tremende crisi economico finanziare della storia. Io avevo intanto fatto cose “gloriose” come licenziarmi dal mio primo lavoro e concluso un dottorato che in alcun modo mi avrebbe visto proseguire una carriera accademica. Sono rimasta a casa per circa nove mesi. Facevo essenzialmente due cose: fingevo di preoccuparmi di un lavoro che non trovavo. E per il resto del tempo passavo la mia vita in mansarda a vedere film tutto quanto il giorno, scrivevo e correvo sul tapis rouland. Avrei continuato volentieri fino alla fine dei miei giorni se, nel frattempo non avessi vinto il concorso che mi vede qui a Milano da dieci anni.
Ovviamente oggi la mia gratitudine è infinita per evidentissime ragioni, eppure qualche volta ancora ci penso a cosa sarei diventata se invece dello scientifico avessi fatto il classico e invece di economia avessi fatto lettere classiche. Forse avrei fatto una fine bruttissima, valorizzando il mio lato sognatore e  svagato...no, non me la sarei proprio cavata, ne sono quasi certa.

Oggi, un agente esterno del tutto inaspettato asseconda a sua insaputa un progetto che non sapevo come realizzare: io volevo passare un po’ di tempo chiusa in casa a fare quello che mi pare, senza il senso di colpa, gli obblighi di un quotidiano da società organizzata, senza alcuna responsabilità se non il mio ascolto interiore. Io questo volevo. Non ho mai chiesto altro. Ho già ribadito tante volte che la solitudine non è per me fonte di alcuna disperazione, che coltivo affetti molto profondi anche senza la necessità della presenza fisica, che non mi manca l’avere dei figli e men che meno un marito.  Ho già detto tutto questo senza trovare minimamente sbagliato o egoistico un simile atteggiamento. Per me tutto questo è solo una magnifica e irripetibile occasione. Perché sono adulta, ma non vecchia, perché non sono vittima di dipendenze che mi creano inquietudini, perché non ho fragilità che richiedono cure dall’esterno. Perché me lo posso permettere. Perché sono capace di allenarmi pure in una casa piccola come questa. Perché non sono una smaniosa...

Ma non è questo il punto. Il punto non sono io. E per quanto possa dirmi accontentata da una situazione così assurda, ma che pure ho tanto vagheggiato per la mia personale condizione, spero che tutto finisca prima possibile. Pure il mio stato di grazia. Mi pare più che giusto


sabato 21 marzo 2020

Caffè inespresso

Sono al mio terzo caffè e non sono neppure le otto. Il Nescafè ha il suo limite nella rapidità di preparazione. È raro che abbia ancora la pazienza di preparare la moka quando mi alzo. Ma adesso che ho molto più tempo riprenderò questa sana abitudine in nome di un piacere meglio definito.

Sono cinque anni che Pablito è in “comodato d’uso” dai miei. Un po’ di anni fa decisi che avrei potuto convivere con un micio, nonostante all’epoca non stessi in casa praticamente mai. Erano anni in cui Milano era una fonte inesauribile di spunti, di cose da fare e da vedere, eppure l’idea di avere qualcuno di cui occuparmi e con cui condividere uno spazio senza l’obbligo del confronto e del dialogo era una cosa che mi affascinava moltissimo. E così, assieme ad una persona a cui tenevo molto, andai a prendere Pablito. Ci siamo tenuti assieme per un paio d’anni, ma non direi che abbia funzionato: lui era troppo solo e la poca compagnia che riuscivamo a farci credo che lo offendesse persino un po’. Capii ad un certo punto che il mio esserci così poco era una grave mancanza di rispetto nei suoi confronti. Così, al quarto viaggio che facemmo assieme per andare dai miei, decisi che lo avrei lasciato lì, tra presenze costanti e attente, molto più spazio, possibilità di uscire e frequentare gli altri mici del giardino. So di aver fatto la scelta giusta, anche adesso che credo che ci divertiremmo tantissimo assieme durante questa reclusione in fondo ancora molto piacevole per me. L’ho detto tante volte, non soffro mai lo star sola, ma forse è solo perché ho trascorso tutta la vita a dialogare con entità astratte e immaginarie di cui ho creduto sempre di percepirne moniti, risposte, suggerimenti...ancora riesco a capire quanto sia folle tutto questo, ma tant’è. Sono altre le mancanze che avverto e che forse non colmerò mai.

Ho amato Milano dal primo momento che vi ho messo piede, anche quando ne ho colto l’arroganza, i ritmi eccessivi, il senso di superiorità nei confronti del sud (pure quando lo nega). Scoprire il meglio di questa città mi è sempre sembrato un modo astuto di assorbirne metodi e caratteristiche. Al netto di tutto il resto. E so di aver fatto bene. Anche adesso che è tutto cambiato così repentinamente. Anche adesso che mi sento offesa da medici prepotenti che ancora rivendicano primati inesistenti e trasmissioni che denigrano risultati e qualità della mia gente. Anche adesso che persino il mio sentimento sta cambiando verso questa città.

L’altra sera il mio papà al telefono, mentre gli parlavo dello smacco ai medici del Pascale, mi ha detto: hai visto che anche tu vuoi bene alla tua terra...
Io non ho mai odiato la mia terra. È solo che a Milano mi è sempre sembrato di stare un po’ meglio. Solo questo. È un’altra cosa. Ma adesso, che per sentirmi vicina alle persone mi basta una connessione, che per i miei amatissimi corsi di cinema pure si è risolto con delle ottime versioni on line, e così pure per vedere i film quando i cinema non ci sono o sono chiusi...adesso, che la geolocalizzazione non fa più alcuna differenza mi chiedo che senso abbia ostinarsi a restare qui. Il mio lavoro è lo stesso ovunque, in qualche modo - prima o poi - potrei riuscire ad essere trasferita. E soprattutto, se poi torno a quello che più di tutto mi sta a cuore, in quanto sfondo fisso della mia esistenza, non ho trovato qui l’amore della vita e perciò direi che già questa potrebbe essere una ragione valida per decidere di scappare via. Scherzo, ma neppure troppo...

Non avevo mai pensato ai miei ultimi anni in questi termini. Forse quando tutto questo sarà finito tornerò a pensare di stare nel posto giusto, che non riterrò che sia ormai giunto il momento di tornare a casa mia. Forse sono solo un po’ delusa da certe dichiarazioni espresse con tanta leggerezza, superficialità e scarsa empatia.
Oppure, molto più semplicemente, la solitudine fa brutti scherzi pure a chi pensa di non temerla o addirittura di amarla.
Meglio metter sù una moka...








lunedì 16 marzo 2020

Come cambiano le cose sempre uguali?

- Sappi che non ti fa onore
- Cosa?
- Questo tuo silenzio prolungato proprio in un momento così straordinario, assurdo, fuori dalla possibilità di previsione di un uomo mediamente informato
- Cioè ritieni che il mondo stia aspettando una qualche mia dichiarazione in merito?
- Ma figurati...il mondo...non fa ridere neppure come battuta detta da una stordita...però qualche appunto, uno straccio di traccia di quello che sta accadendo, giusto per tenere aggiornata me, potevi metterli assieme. Dai, raccontami cosa ti succede e come hai stravolto le tue abitudini
- In realtà il punto è questo. In meno di un mese il mondo è cambiato semplicemente passando da una fase in cui si ragionava di muri da costruire, di distanze tra popoli, di liberismo sfrenato, di tagli a scapito dei servizi e dello stato sociale, della morte del sistema educativo...ad un mondo che all’improvviso  si misura proprio con le ricadute, più o meno dirette, di tutti questi fattori in campo
- Bah...non esagerare adesso. Io volevo sapere i fatti tuoi soltanto. Come trascorri questi giorni?
- Che ti devo dire, io sono il solito dato statistico poco significativo. Continuo ad andare in ufficio a piedi perché sono ancora fortemente condizionata dal monito del mio Garmin a camminare per dieci km a piedi. Lo faccio attraversando strade completamente desertiche. Faccio la spesa in orari in cui il resto del mondo è rivolto altrove, vedo film mentre pedalo, leggo libri dimenticati da troppo tempo, cucino cose improbabili illudendomi che le preferirò a quelle saporite...insomma vivo come ho sempre fatto ma con l’aggiunta della paura del contagio. E certi dettagli possono cambiare tutto pure se ti trovi a fare le stesse cose. Credimi.
- Credi di poter resistere così per altro tempo?
- Dici a fare quello che sempre ho fatto più la paura e l’isolamento? Non saprei. Forse posso accettarlo come parte di un destino necessario. Francamente soffrirei di più a dover gestire dei bambini tutto il tempo, ouna convivenza problematica. Sai quanto detesto i conflitti e temo che situazioni atipiche come questa possano alimentarne di molti.
- Magari invece è motivo di legami che si rafforzano
- Sì, in realtà un po’ di persone che non vedo da tempo mi mancano molto e non vedo l’ora di rivederle
- Quindi mi pare di capire che per te non è cambiato quasi nulla, che sei solo un po’ più isolata di prima - quando già potevi concorrere alle Olimpiadi sociopatiche - e che hai paura di ammalarti proprio perché non rimani tutto il tempo a casa ad aprire un frigo che non ti restituisce mai quello che vorresti
- Eh..sì...questo è...
- Ok...solo qualche consiglio di quelli che tanto detesti. Concentrati meglio sul poco che puoi fare, sii creativa, cucina qualcosa di elaborato e impegnativo. Non temere il vuoto.
Stavolta ti perdono. Ci saranno altre occasioni per rimproverarti del tedio che mi procuri così spesso.
- Grazie per la comprensione. Non ti deluderò stavolta


Che parole si usano per descrivere un tempo come questo? Sono giorni che ci penso e che mi confronto con la difficoltà di raccontare la banalità apparente di un quotidiano “contingentato” eletto a condotta collettiva. Nessuno poteva prevederlo. E quando è successo nessuno poteva rendersi conto della rapidità di propagazione di un fenomeno simile unita all’enorme difficoltà di contenerne l’ulteriore diffusione. È un vero trauma collettivo da cui verremo fuori senz’altro cambiati. Forse è per questo che faccio così fatica quando provo a prendere nota di quel dato, insignificante  rispetto alle statistiche generali, che sono i fatti miei

lunedì 9 marzo 2020

“Inganneremo il tempo ed il dolore” ...”perché stare da soli, a volte, fa paura” (a volte)

Se mai avessi potuto immaginare quello attuale come uno scenario possibile sono certa che lo avrei scelto a mia condizione d’elezione. Se qualcuno mi avesse detto “devi stare in casa tua tutto il giorno perché è la patria che te lo chiede e non per la tua smania di rompere il patto sociale” avrei pensato “che fortuna! Non solo non devo sentirmi in colpa ma passo addirittura per un’eroina altruista che sacrifica la sua mondanità per il bene comune”.
Chi mi conosce da tanto tempo sa che parlo sul serio e che ogni mio sforzo di sfuggire alla seduzione della solitudine è unicamente dettato dalla convinzione che sia doveroso nella vita scegliere persone a cui voler bene, ascoltarle, imparare e restituire loro qualcosa di bello di noi. Ma, appunto, questo per me è un preciso esercizio di volontà.
Quasi mai uscire di casa ha rappresentato un gesto spontaneo o dettato da un intimo bisogno. Sono una persona solitaria. In parte per natura e in parte per esperienza elaborata in tal senso. Se mi avessero concesso di lavorare da casa, piuttosto che incrociare la collega che pare mi passi davanti apposta per non salutare mentre a me verrebbe solo da dirle che sono dieci anni che manco mi ricordo come si chiama e che il suo sedere intanto è raddoppiato, o del collega che pensa ad alta voce per tutto l’orario di lavoro impedendomi ogni concentrazione. E poi la schiscetta da preparare e l’aria condizionata mai giusta per tutti e il bagno in condivisione...

In più dieci anni che vivo qui sono stata al Just Cavalli solo una volta: un’intera notte in occasione di un blitz dell’agenzia delle entrate...una roba raccapricciante. Non stare in casa per me ha senso solo per andare a stare dentro un cinema o in posti che lo rappresentino, andare a correre all’anello di Linate, leggere al parco fuori casa in estate. In questo momento nulla di tutto questo è fattibile e così stare in casa per me non rappresenta un’esortazione proveniente dall’alto o un obbligo, ma una condizione esistenziale liberamente perseguita, quando non addirittura desiderata.

In questo momento Mentana fa presente che l’indice di wall street ha raggiunto i livelli della profonda crisi del 2008, la Lombardia è blindata e probabilmente entreremo in una recessione economica che imporrà nuovi assetti produttivi e cambiamenti che nè la politica, nè i militanti ambientalisti, nè i modelli culturali attuali sono stati in grado di imporre. Ci riuscirà un virus e a me questo pare davvero un fatto emblematico. L’epifania di un nuovo mondo potrebbe ripartire dalla rivoluzione operata da un organismo primitivo!

Ieri ho visto in tele il racconto della storia d’amore tra Pino Daniele e la sua seconda moglie Fabiola Sciabbarrasi, una donna bellissima ancora oggi, dalla quale ha avuto tre figli. La lasciò per una donna meno bella con la quale ha trascorso i suoi ultimi due anni di vita. È da ieri che penso a quella storia, a come sia stato possibile allontanarsi da una donna così affascinante.
È un fatto strano, ma è così: provo a tenermi bene informata sull’evoluzione di questo virus, mi indigno per come le cose vengono gestite male dalle amministrazioni, provo a ragionare su questa fase e a quello che sarà. Eppure, fondamentalmente, non riesco a smettere di pensare al programma di ieri e al fatto che gli amori devono avere per il loro epilogo la stessa cura che hanno avuto alla nascita. Forse sono io a non aver mai capito come funzionino certe cose.
“Avevamo perso la sintonia. Ad un certo punto l’equazione non dava più risultati”. Però fu proprio lei ad ispirargli “amore senza fine”e pure “Che male c’è” e alcune delle migliori canzoni romantiche arrivate dopo il periodo aureo degli anni ‘80 per la rabbia verso una città che ha amato. E che pure poi ha lasciato. Forse è davvero questo il destino di certi grandi amori: deflagrare spargendo ovunque i frammenti di quella storia immortale, mentre loro sono già pronti a risorgere altrove. Mi darò tutto il tempo che serve per accettarlo. Anzi forse mi manca davvero poco.

Intanto il mio presente mi avverte che siamo entrati in una fase storica molto complicata in cui ci viene chiesto di partecipare facendo il meno possibile, stando a casa, possibilmente da soli, a guardare la tv e mangiando cose fatte in casa.
Mi si chiede di vivere in accordo con la mia natura. In fin dei conti direi di aver vissuto tempi peggiori


mercoledì 4 marzo 2020

lasciarsi “influenzare”

L’impegno di un diario che non ha l’ambizione di essere quotidiano, ma abbastanza frequente da lasciare traccia di fatti utili come materiale di riletture e interpretazioni, trova in questo periodo degli approdi quanto meno scontati. Vivo immersa da giorni in una specie di bolla che tiene sospesa una umanità suddivisa tra catastrofisti terrorizzati che passano tutto il loro tempo ad avere paura immersi in un isolamento sempre più rigido e persone più ragionevoli che tentano di adottare tutte le  cautele mentre provano a continuare a vivere coltivando interessi e fatalismo. Io ho deciso di assecondare questa seconda forma di eroismo a buon mercato: mi lavo proprio come ho sempre fatto, mantengo una prudente distanza dalle persone, perché di solito non ho la voglia irrefrenabile  di buttarmi addosso a chiunque, starnutisco persino nei fazzoletti anche se mi sarebbe consentito di farlo pure sul mio braccio, non frequento luoghi affollati perché mi piace mangiare a casa mia, non vado a messa e per fare sport non ho bisogno della palestra. L’unico posto a cui ho dovuto rinunciare è la sala cinematografica, la stessa in cui negli ultimi anni ho dovuto chiedere sempre di tenere spento il cellulare, mentre le mie piattaforme sull’ i pad mi consentivano visioni illimitate da qualunque punto della mia casa e nel più perfetto silenzio e benessere. Vorrei poter dire, sulla scorta di un comune sentire, che questo è un periodaccio. E di fatto lo è. È solo che la mia epica individuale, come spesso accade, rimane disallineata a quella collettiva fin quasi a contraddirla del tutto. Che colpa ne ho? In realtà anche io risento di alcune fondamentali mancanze, come gli amatissimi corsi sul cinema che continuano ad essere posticipati, le biblioteche chiuse, la vitalità di certe strade che ora vedono negozi chiusi e poco movimento. Ma in qualche modo sono persuasa che si tornerà alla normalità e a nuovi assetti. Resterà ciò che davvero conta, migliorerà la sua qualità, si troveranno nuove strade.

Io vivo la condizione privilegiata di chi fa un lavoro non soggetto all’aleatorietà di eventi come questo: continuo a lavorare anche col pubblico come se non avessi gli stessi rischi di un ristoratore. E mi sta bene. Ma allora perché mettere in ginocchio intere categorie produttive senza preoccuparsi delle ricadute irreversibili che questo potrebbe comportare? Ma certe domande possono solo attendere i fatti al netto di ogni più plausibile congettura.

La mia vita ai tempi del corona virus ha cambiato di pochissimo i suoi capisaldi irrinunciabili, continuo a non aver paura e provo a riflettere un po’ meglio sul senso del mio ostinarmi a vivere in questa città che reagisce alle cose in un modo così differente dal mio. Non ho imparato nulla? Oppure qualcosa è davvero cambiato? Possibile che a casa mia non potrei vivere come faccio qui? Forse non è il caso di chiedersi tutte queste cose proprio adesso. Sono sicura di aver ancora bisogno di stare in questa città a sentirmi fuori luogo molto meglio che in qualsiasi altro posto al mondo