Sola andata

Sola andata

giovedì 27 giugno 2019

Di rigide visioni schematiche. E di singhiozzi senza controllo

È una serata fresca qui in Grecia. A Milano invece danno 40 gradi e a me sono bastati per farmi venire i brividi. Non ho l’aria condizionata in casa e credo di dover ancora riprendermi da quella sera del 2017 durante la quale non sapevo dove sbattere la testa per evitare di assistere da viva alla mia liquefazione.
In questo momento sono in una enorme sala piena di tavoli, con la musica classica, qualche bambino che gioca sui divanetti e delle persone molto rilassate che bevono degli aperitivi di cui non saprei dire molto, nonostante facciano parte del mio pacchetto a consumazione illimitata. Non mangio nulla fuori pasto, nè bevo mai succhi, aperitivi o alcolici. Le mie giornate hanno trovato molto presto un loro schema rigido nel quale sono solita ingabbiare le mie certezze tenute assieme dal senso di colpa. E così mi sveglio ancora molto presto, vado a nuotare e a chiacchierare col micio di spiaggia , faccio colazione, ritorno in acqua, vado in palestra, leggo, compro piccoli ricordi totalmente inutili da portare agli altri e trascorro molto tempo sul divano su cui sono ora, soprattutto guardando film su Netflix. E poi continuo ad osservare gli altri, con i loro silenzi e la loro eccessiva  sedentarietà, faccio caso a quello che scelgono di mangiare, come trattano i bambini, cosa leggono al mare. Stamattina c’era una bambina russa buffissima e molto piccolina che giocava tutta sorridente in spiaggia Aveva un singhiozzo molto persistente che non le è passato per tutto il tempo che è stata lì. L’ho rivista questo pomeriggio e il signghiozzo non le era ancora passato e mi sono chiesta come fosse possibile che nessuno provvedesse ad aiutarla...

Non saprei dire perché e come questo genere di questioni mi spingano proprio in questo momento a ricordare che una volta, il mio amatissimo e indimenticato prof di economia, durante il dottorato, mi disse che sarei stata una eccellente sociologa. A quel tempo pensai che questo la dicesse lunga su quanto mi ritenesse promettente come economista.
Ma non mi offesi. Il suo papà era un famoso sociologo, morto proprio l’altro ieri e la cosa mi ha fatto
effetto per una ragione molto tenera. Quando già vivevo a Milano mi ritrovai ad essere sua amica su fb. Lui era già un ultra ottantenne, ma con lo spirito, il temperamento, la curiosità e l’entusiasmo di un ventenne. Mi disse che mi trovava divertente e interessante e che gli avrebbe fatto molto piacere conoscermi. Così si fece promettere che appena sarei tornata un po’ a Napoli ci saremmo conosciuti di persona e mi avrebbe portato a pranzo. Così fu. Si rivelò raccontatore formidabile della sua vita straordinaria, ricca di aneddoti contro il fascismo, la vita accademica costellata di successo e prestigio fin da quando si aventurò a fare ricerca in America con progetti grossi poi realizzati (fu anche un nome di spicco della famosa scuola di portici). Io non facevo che notare a come fosse diverso da suo figlio eppure, mentre lo ascoltavo, pensavo che tutta la stima che negli anni avevo riposto in quest’ultimo avesse delle ragioni molto fondate proprio in un padre così. È morto quasi centenario, ma sono quasi certa che se ne sia andato con lo stesso spirito fanciullesco, pionieristico, sensibile al cambiamento e stupito dalle novità con cui lo avevo conosciuto io in età già così avanzata. Non credo che l’augurio di riposare in pace gli sarebbe risultato davvero gradito.

Ora sono qui, sul mio divano dei film del pomeriggio. Ho appena detto all’animatore che non avrei
giocato a tombola. L’aria è fresca e la serata mi pare ancora più bella se soltanto penso al caldo che ho evitato a Milano. Tutto secondo gli schemi. Mi rimane solo da sapere se alla bimba russa sia passato finalmente il singhiozzo. Ma forse per lei non era mica un problema quanto lo è per me. Per me che manco ce l’ho mai il singhiozzo...



martedì 25 giugno 2019

Vacanza con troppo giudizio...

Fa davvero caldo qui in Grecia. Per il resto mi pare tutto molto armonioso, piacevole, comodo. A parte una leggera scottatura è tutto come avrei voluto: la struttura che mi ospita, il cibo, l’acqua cristallina, la tranquillità che cercavo, i massaggi che mi sono concessa, la palestra per espiare una parte delle colpe...è tuttto giusto. La cosa veramente bella è che si è evitato l’effetto “carnaio”: ci cono piscine in diversi settori del complesso E diversi ristoranti tra cui scegliere liberamente il proprio menu all inclusive, il servizio è differenziato in modo da accontentare chi vuole la piscina e la musica a palla, chi invece l’animazione e chi, come me, vuole solo stare tranquillo e in pace.

 Passo gran parte del mio tempo nelle varie terrazze, alternando la lettura distratta di un libro all’osservazione (invece) attenta delle persone che condividono il mio spazio. No, non lo faccio per impicciarmi. No, è che trovo che sia davvero una cosa molto interessante per me. Vorrei capire cosa racconta davvero il silenzio prolungato tra due persone sedute assieme di fronte ad un aperitivo, o come mai due giovani e bellissimi genitori si trovino ad avere due figli troppo grassi rispetto a loro, vorrei capire come fanno due nonni così anziani a gestire il nipotino troppo vivace e piccolo che hanno deciso di portare in vacanza con loro, o che cosa abbia spinto il marito a venire a cena almeno venti minuti prima di sua moglie e suo figlio. Vorrei capire perché non trovo invidiabile nessuno di loro e che genere di sciatteria si manifesti davvero in quello che vedo.

Come mi succede di fare a Milano, e in qualunque altro posto, continuo a svegliarmi all’alba, faccio una rapida doccia e corro in spiaggia sperando di rivedere il micio incontrato il primo giorno. Fino ad ora c'è sempre stato. Poi faccio una colazione a base di uova e anche di cioccolato, ritorno al mare e me ne sto quasi sempre in acqua. Continuo ad osservare la gente e a non trovare quello che cerco in nessuno di quei volti. Ma comincio a pensare che questo sia solo un problema mio...

Sto proprio bene qui, forse dovrei mangiare meno gelati e uscire a fare delle escursioni. O semplicemente non congetturare sulle vite di persone che in fondo non conosco.

Sto bene qui. Ma mi manca Milano. Milano mi manca sempre. Assieme a tutti i suoi volti. Quelli che mi sono scelta senza che mai mi venisse neppure la minima voglia di giudicarli per quello che non riescono ad essere.

giovedì 20 giugno 2019

Bagaglio leggero. E fardelli di sola andata

Mentre scrivo sono sul treno che mi porta a Malpensa. Vado per un po’ di giorni in Grecia. Ho bisogno di mare e di riposo come non mi succedeva da anni eppure non è stato un anno faticoso o angosciante: sono stanca senza capire davvero bene il perché...usura degli anni a parte. Ho lasciato la scrivania un po’ in disordine ma stranamente abbastanza sotto controllo. La casa invece è tutta pulita e profumata, mancava solo l’insalata da finire e per non buttarla c’ho fatto colazione con la pizza avanzata da ieri. Sono riuscita a limitarmi al bagaglio a mano come mi piace molto fare ormai da qualche anno. Di contro sono rammaricata di perdermi alcune cose belle che avrei voluto fare a Milano, ma so che ragionando così finirei per non allontanarmi mai da questa città adoratissima.

Ma sì, ci sta una breve vacanza proprio adesso.

"Ti lascio perchè ho finito l'ossitocina". Così si intitolava lo spettacolo di una piccola compagnia di teatro che ha il suo laboratorio creativo nella stazione di Porta Vittoria, giusto sopra ai binari verso cui mi direziono cosi spesso nel mio abituale percorso per andare al lavoro. Chi, come me, fa della "volatilità" affettiva una specie di ossessione esistenziale non poteva non far caso ad una cosa del genere scritta proprio sulla vetrata di un locale in cui potrei autocarcerarmi per giorni, tanto sono suggestivi gli oggetti, le coreografie, il modo in cui è concepito lo spazio...poi però finisco sempre per correre al treno che pare lo faccia apposta ad arrivare quando io sono ad una distanza che poi mi impone di scapicollarmi giù per le scale.

Del resto è cosi che ho imparato a farmene una ragione: i sentimenti, tutti, ma soprattutto quelli belli, subiscono mutamenti dettati in larghissima misura dagli ormoni, quelli che si "ostinano" a resistere obbediscono a regole caparbie che solo pochissimi eletti sono in grado di applicare. Ci può stare. Il mondo, incurante della drammaticità di questo fatto si è garantito la sua perdurabilità  con discreto
 successo almeno fino ad ora. E' per questo che la mia domanda è da sempre (e quando dico da sempre intendo tre, quattro,  massimo dai cinque anni di vita in poi) : io qui che ci sto a fare? Da quando mi hanno spiegato che è tutto un avvicendarsi di dopamina e ossitocina, finiti i quali smettiamo di amarci senza la scelta (chissà quanto libera) del compito oneroso di coltivare con l’impegno un rapporto durevole, io boh...forse corro a prendere il treno proprio per allontanare il pensiero per una risposta convincente.


Il bagaglio qui accanto contempla solo costumi e tenute sportive, un rossetto e una matita per gli occhi. E poi giusto un libro, chiaramente l’ipad, e tanti elastici per tenere sempre i capelli raccolti. Spero che il mare sia bello e il cibo abbastanza buono.
Sono su un treno pieno di gente con lo zaino e le valigie. Chissà se anche per loro si tratta di bagagli semplici e qualche fardello di sola andata come per me. C’è di buono che in Stazione Centrale non ci sono laboratori creativi e neppure scritte da cui scappare.
E se ci penso bene mi pare già un’ottima partenza


   

mercoledì 12 giugno 2019

La certezza della penna

È troppo tempo che non scrivo dei fatti miei. È troppo tempo. Sono giorni che ci penso e che mi dico “stasera prendo un po’ di appunti, fisso qualche idea, racconto di qualcosa, anche minima, che mi è successa”. Poi però non l’ho fatto: avevo sonno, ero rientrata tardi, mi dicevo che forse dovrei smetterla di credere che sia davvero importante scrivere per mettere a fuoco la propria condizione. Eppure stasera ne ho proprio voglia. Mi sembra quasi doveroso un bilancio di prima metà di un anno in cui tutto mi sembra essere andato bene: dalle scelte, alle semplici casualità, alle persone che ho incontrato a quelle a cui mi sono legata, fino a quelle che ho scordato con una semplicità che mi fa quasi impressione. Direi che in questa fase sono serena come non mi capitava da un sacco di tempo ormai.

Non ho mai pensato che l’assenza di inquietudine, o anche di una certa nobile forma di rabbia, sia una cosa davvero auspicabile nella vita. Ho sempre ritenuto che, se ben canalizzate, certe intime disarmonie possano costituire dei potenti motori per evolversi.
Mi sono ricordata che al tempo avevo aperto questo blog per una faccenda di cuore in cui non credevo neppure io, ma ci stavo male, non capivo, non mettevo a fuoco il disagio. Ne scrivevo solo tramite sottintesi o provando a raccontare episodi del quotidiano vissuti con quello strano peso sul cuore che mi faceva percepire tutto come troppo faticoso o inutile. La rabbia invece è quasi sempre scaturita da una politica ogni volta più aberrante e che mi priva di ogni visione ottimistica di futuro. Proprio come oggi. Ma poi mi dico che in fondo non posso davvero far molto se non provare ad avere una percezione più ampia e chiara possibile di quello che accade. Il pensiero critico è la sola forma di protesta che posso concedermi in questa fase e lo scrivere può essere parte di un metodo efficace per l’analisi di fatti che mi colpiscono.

Ho riletto un po’ di quei vecchi post e mi ricordo perfettamente di come mi sentivo e di quello che
facevo scrivendo di altro. E poi all’improvviso tutto è passato e a me questa cosa fa sempre tanta impressione. Come ho fatto? Quanto possono essere potenti certi meccanismi di reazione al dolore. E quanto ci cambiano nel profondo. Io mica lo so se la mia calma di oggi sia davvero tale o costituisca un mero antidoto  autoprodotto da corpo e anima per farsi scudo di altri dolori e che mi ha reso solo più cinica e respingente. So che sto meglio di allora. Quello che non so è se sto davvero bene.
La scelta di non amare nessuno, alla mia età, mi pare ormai cosa saggia, come lo è quella di non avere mire e pensare che l’amore si possa anche semplicemente sognare nella sua impalpabile perfezione ideale e magari dargli forme ed indirizzi nuovi. Mi pare più che accettabile come soluzione pacificata. Ho perso tutta la mia vita fino ad ora a tentare di capire a chi fossi destinata e ho escluso la più semplice delle ipotesi con un atto di presunzione che non mi perdono.

Mi fa bene rileggere i miei vecchi post perché è grazie a loro che ho corretto il tiro, capito meglio, elaborato il lutto per ciò che non è neppure mai nato...tutto raccontato mentre parlavo dei film visti al cinema, di quello che mangiavo o di quanto correvo, di un cantante morto o di una lettera al direttore...mi sono ricordata tutto. Tutto quello che non ho scritto servendomi proprio di quello che scrivevo: raccontare qualcosa  per ricordare tutt’altro. Ha funzionato alla perfezione.

Ecco perché mi serviva il blog. Ecco perché mi mancava. Me lo scrivo. Così me lo ricordo

sabato 1 giugno 2019

“Anime” di una generazione

Ancora per i compitini per long take , stavolta per dire cose su Miyazaly&co, Ma poi ritorno alle mie povere questioni di vita un po’ vissuta e un po’ evitata. Ciao.
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 I bambini degli anni ‘80 hanno questo in comune. L'imprinting da “edonismo globale”. Erano gli anni in cui in Occidente si nutriva una cieca fiducia nel rampantismo avido e nel mercato libero e senza regole mentre in una parte dell’Oriente si assisteva per la prima volta ad una (troppo) rapida ascesa economica e finanziaria, a nuove organizzazioni produttive, a rinnovati assetti sociali e alla negazione, con semplicistica leggerezza, di sistemi di valori dalle tradizioni millenarie.

Il Giappone di quegli anni viveva proprio questo strano passaggio repentino: la sua economia decollava in modo così rapido e incontrollato che assecondarne il processo pareva la sola possibilità. È stato proprio in questo clima di disordinato ottimismo che nacquero e si diffusero presto, gli “anime”.
I “cartoni giapponesi” parlavano all’Occidente veicolando al contempo i valori di una cultura antichissima costantemente in bilico tra la sua storia ingombrante e un presente costellato dalle insidie di un benessere a cui non si era abituati. D’ora in poi non sarebbe stata soltanto l’America disneyana a monopolizzare la costruzione di sogni “globali”: dagli anni ottanta l’immaginario di un bambino di quell’epoca si sarebbe popolato anche di eroi nuovi chiamati Lupin, Mila e Shiro, Lady Oscar, Georgie, Anna dai capelli rossi, Candy Candy, Holly e Benji...una vera rivoluzione copernicana della narrazione animata, un punto di non ritorno per una generazione che, crescendo, avrebbe imparato a confrontarsi con questo genere a livelli sempre maggiori di consapevolezza e di maturità.

 È sulla scorta di simili premesse che la poetica di Miyazaky, e del suo studio Ghibli, ha potuto contare su un pubblico ormai strutturato e pronto ad un campionario di proposte nelle quali la costante sarebbero stati mondi fantastici con cui veicolare messaggi filosofici ed etici, differenti geometrie dei legami familiari e sociali, la forza propulsiva e rigenerante dell’infanzia, la malinconia
 dei ricordi, il pessimismo dell’agire umano per la protezione dell’ambiente e la costruzione di un
mondo di pace. E poi, ancora, proposte grafiche a forte vocazione sperimentale e strutture narrative costruite su architetture diverse dai modelli classici di racconto.

In tutti i film dello studio Ghibli è costante una specie di convinta esortazione ad osservare il mondo da un punto di vista differente da quello ad “altezza uomo”o, meglio ancora, ad “altezza terra” : ci sono sempre ottime ragioni per sprofondare negli abissi per poi sollevarsi in cielo e osservare il mondo nella sua totalità, allontanando così tutti i dettagli inutili e ritrovare una realtà meglio definita
proprio grazie al filtro della fantasia. Pare un paradosso e invece tutto torna proprio quando si accetta di indossare “lenti speciali” per nuove messe a fuoco sul mondo. Pare quasi non essere un caso che Miyazaky abbia tratto proprio dalla sua miopia la primaria fonte della propria ispirazione: un nuovo sguardo sul mondo.

Si potrebbe anche soltanto pensare a “La città incantata”, il più premiato e popolare dei film di
Miyazaki, per provare ad intuire le ragioni principali di un progetto che si ripropone con una coerenza
che sarà sempre accompagnata da una creatività mia appannata. La chiave di lettura della storia è così stratificata che si potrebbe pensare di proporla, con pari successo, ad un pubblico anagraficamente
differenziato. Suscitando emozioni altrettanto differenziate.

Eppure un bambino degli anni ‘80 ha forse qualche vantaggio in più: ne capisce il linguaggio, la portata di ogni messaggio, il ritmo della narrazione. Un bambino degli anni ‘80 era piccolo in anni
che si dimostrarono diversi da ciò che sembravano e si ritrovava a crescere tra adulti che del futuro avevano smesso di occuparsi. Il privilegio, per un bambino degli anni ‘80 che vede da grande la “città incantata”, è quello di avere la percezione esatta di ciò che si sta raccontando: dall’avidità al contrasto col mondo adulto cinico e indifferente, dalla fatica di crescere alla perdita dell’identità, dall’ impoverimento della natura alla forza rivoluzionaria della tenacia...tutto appare chiaro e
comprensibile perché quel mondo di simboli è stato assimilato nella più tenera età. Perché, appunto,
l’imprinting è quello giusto.

“Tesoro non prendere la scorciatoia. Finiamo sempre per perderci”.

È tutto qui il limite di una generazione che non riesce più a sottrarsi alla trappola di un mondo che promette strade semplici per raggiungere la meta e che presenterà il conto alle generazioni successive. Un monito o una profezia? Dipende, ormai lo abbiamo imparato, dal punto di osservazione e dalla lente utilizzata.

 Gli anni ‘80, secondo l’adulta degli anni duemila che scrive, sono stati tra i più “tossici” della storia umana. Ma, a ben “guardare”, che gran fortuna essere stata una bambina proprio in quel tempo lì!