Sola andata

Sola andata

mercoledì 30 dicembre 2020

Arrivi tu, o riparto io?

Credo che già da domani la neve sul mio lungo tragitto verso l’ufficio non ci sarà più. Stamattina è stato divertentissimo affondare almeno un quarto di gamba  manco stessi facendo l’allenamento di Rocky. Era ancora buio, non c’era nessuno, via Mecenate era una perfetta cartolina di Natale tra strade innevate, alberi appesantiti e lucine in stile differenziato dai balconi di condomini con troppi piani. Questa strada resterà sempre una parte fondamentale del mio vissuto milanese:  l’ho percorsa così tante volte, in silenzio o con le cuffie a palla, lasciando che le tappe fossero scandite da pensieri sconnessi o chiodi fissi, mentre passavo nell’orario in cui il panificio sforna i cornetti freschi con un profumo di burro livello estasi . Eppure pare una strada da film neorealista.  Nessuno direbbe mai che abbia un particolare fascino. Eppure stamattina era così bella, mentre mi affannavo a  fissare una lista fondamentale e definitiva delle cose da fare  durante l’anno più carico di responsabilità della storia dell’umanità che sarà il 2021. Sì, io credo che tutti, anche inconsapevolmente, pensiamo di meritare un riscatto per aver sopportato un anno così anomalo, quando non doloroso o brutale.

Ma le liste, se non ti chiami David Foster Wallace, rischiano di annoiare e sono prive di un reale valore narrativo. Le mie poi, sono più che altro dei promemoria, dei piccoli auspici per condurmi a qualcosa di sorprendente. E se da un lato ho trovato doveroso appuntarmi tutto quanto di buono quest’anno mi ha regalato,  dall’altro vorrei trovare finalmente  la maniera di “incidentare” il mio percorso in modo da imbroccare strade del tutto nuove, incontrare persone che mi riguardino, persino andar via da Milano. Innamorarmi di chi vuole soltanto me.

E’ la prima volta che lo penso davvero, eppure mai come in questo periodo, fatto di isolamento, lavoro, lunghe camminate credo che sia ormai maturo il tempo di attivarmi in qualche modo per tornare giù. Tutto quello che amo di questa città, in primis i corsi di cinema, le persone che mi sono care, il lavoro stesso ormai potrei portarmelo dietro grazie alla rete. Non mi rimane altro qui. Amo la mia piccola casa, ma quella di giù è mille volte più bella. Amo star sola, ma io lo sono da sempre e ovunque anche quando non lo sono e Milano in questo  non fa più la vera differenza ormai.  Si è detto nessuna  lista: ma tanto le cose che mancano rientrano in un elenco che non si deve neppure numerare. 

Stamattina ho letto il post di una mamma amorevole che faceva gli auguri di compleanno al suo bimbo. Era una bella lettera pubblica, molto sincera ma che non mi ha commosso neppure un po’. La maternità non mi commuove mai: ho combattuto per anni con questo senso di colpa prima di chiedermi perché mai dovrei sentirmi in colpa. Di me so poco ma non che non sono nata per generare.

E poi ho pensato a quello che davvero, profondamente, mi manca: collezionare bei viaggi, lunghi che più lunghi non potrei.  America e Giappone più di tutto il resto.  L’islanda è stata bella (…anche se poi ho silenziato da subito il gruppo wa dei miei compagni di viaggio…), potrei tornarci altre dieci volte con lo stesso identico piacere.  Anche da sola. E poi vorrei tornare a studiare con applicazione, conservare solo una parte piccola della mia sbadataggine che mi fa uscire dai binari e mi sorprende per poi trovare un centro esatto nel rigore testardo.  Terrò i capelli un po’ più lunghi e mi truccherò bene gli occhi. Continuerò a fare una fatica disumana per tentare di stare in forma. Cercherò di trovarmi sempre bellissima indipendentemente dal dato oggettivo di esserlo.

Che senso hanno le liste quando in realtà tutto quello che vorresti , tutto  – dal punto 1 a + ∞ - vorresti che fosse assieme non a uno, qualcuno, uno qualunque…ma assieme all’unica persona possibile e della quale io non ho ancora nessuna cognizione.

2021 se neppure tu lo hai capito, allora sei di coccio peggio degli altri

 


giovedì 24 dicembre 2020

Darsi i natali

 


Se dovessi giudicare da quello che ho visto ieri, quando sono andata a comprare l’acqua al supermercato, dovrei pensare che il pranzo di natale delle famiglie in numero contingentato è una sorta di suicidio premeditato stile “La grande abbuffata”, altrimenti non mi spiego quel delirio di carrelli traboccanti come mai mi è capitato di vedere in questo periodo. E io, che vengo dal sud e so benissimo cosa significhi mangiare molto durante le feste, so di cosa sto parlando.  Ancora non riesco a crederci. Per quanto mi riguarda  mi sento predisposta  a questo periodo magico e di cui serbo ricordi passati molto più cupi di oggi. Tutto è pronto per il “cenone semi-veg”, le lucine, i film tassativi, gli aggiornamenti familiari. Sarà bello, come lo è quasi sempre il tempo che ti scegli e nel quale decidi di mettere dentro solo quello in cui credi davvero, senza obblighi, costrizioni, ipocrisie, rinunce.

Quattro anni fa di questi tempi piangevo tutte le mie lacrime, un po’ di anni prima invece  facevo finta di trovarmi bene dentro una situazione che non sapevo proprio  come interrompere.  Solo oggi posso benedire quegli anni con la pace di chi troverebbe ormai  assurdo aver versato  tutte quelle lacrime e vissuto così tanto  tempo senza sentirselo davvero addosso.  Star sola non è la cosa che mi auguro per sempre, ma è ancora ciò che mi procura il benessere maggiore:  è così che ho imparato ad osservare con il giusto distacco le mie fragilità, a scoprire di credermi gelosa quando in realtà stavo soltanto  rinnegando l’intuizione di esperienze affettive inadeguate, a pretendere finalmente amori affrancati da qualsiasi passato e presente, ad imparare il sacro valore dell’attesa come categoria dell’esistenza piuttosto che il risultato certo di pretese spesso  velleitarie.

Vivo in un condominio concepito come una specie di “comune”: dalle case vicine sento tutto, i litigi, le conversazioni di coppie anziane che si dicono sempre le stesse cose, le ripicche piccole ma continue che appesantirebbero il quotidiano anche della persona più paziente del mondo, il senso costante e inesorabile di noia…e a volte penso alla mia pace domestica, alla semplicità delle mie strane abitudini che per  tanti potrebbero, comprensibilmente,  sembrare follia (dormire così poco, allenarsi prima di andare a lavorare, uscire poco, non bere, mangiare cose strane…ma perché mi si dovrebbe sopportare?). E poi ci sono le volte in cui penso al mio senso di accudimento, al patriarcato che è dentro di me, a tutto quello che tendo sempre a fare quando mi lego a qualcuno…e allora penso che in realtà forse fuggo ancora da quella parte di me che si espone volutamente alle ferite, quando la scusa della solitudine come scelta pare mostrare il fianco.

Ho smesso da tanto tempo di piangere per amore e per disillusione. Mi sono persino “aggiustata” a credere a quello strano concetto di “amicizia amorosa”, svincolata da passione e possesso ma fatta di tutto il resto. Qualche volta funziona, molte altre mi dispiace tantissimo.  La verità è che c’è una grammatica del cuore che mi resterà per sempre oscura o solo vagamente intuita. Mai davvero percepibile.  Però in fondo che ne so.

Ieri ho comprato l’acqua in un supermercato in cui c’era il delirio. Un amico mi aspettava fuori con la macchina e mi ha portato dei bellissimi regali inaspettati, tanto più graditi perché pensati con ogni cura.

Sono la solita fortunata senza neppure un po’ di merito

(Ah, auguri eh…) 

“ Ci addormentavamo vicini vicini, senza che c'importasse dove inizia uno e dove finisce l'altro, né di chi sono queste mani o questi piedi.
E nel sonno, quando uno si muoveva tra le lenzuola, l'altro si accomodava negli angoli e nelle curve.
E quando uno sospirava, sospirava anche l'altro.
E quando uno si svegliava, si svegliava anche l'altro.
Stavamo in una complicità così perfetta, che ci incontravamo nei sogni ed il giorno dopo, non sapevamo chi aveva sognato chi”

~ Isabel Allende

 

venerdì 18 dicembre 2020

Sentirsi mancante

Manchi solo tu ormai

Ormai pure il collega più milanesizzato che conosco se netornerà a fare il suo lavoro al sud. Non l’ho mai visto così convinto di quello che sta per fare. E lui pare sicuro che prima o poi mi attiverò seriamente in tal senso anche io. 

Credo che abbia ragione. Ormai è forte la sensazione che si stia per chiudere un ciclo che pare aver  accorciato in corso d’opera la sua durata. E no, il 2020 non ha avuto un ruolo particolare in tutto questo. Tutt’altroLa possibilità di massimizzare certe forme di riflessione, di poter testare le mie amicizie farlocche,piene di chiacchiere vacue e senza  vero impegno , dedizione né reciprocità generosa, di dedicarmi alle tre o quattro attività imprescindibili senza troppo mediare,  ha reso il 2020 per me -persona a vocazione solitaria, in piena salute, senza amori in corso, senza problemi economici in atto -persino un anno bello. Quando tutto questo sarà finito sarò ugualmente felice, ma aggiungerò fatica e ipocrisia.

I miei hanno ricevuto il pacco “da su”: panettone artigianale milanese, vino, cioccolata, dolcetti. A loro queste cose piacciono e a modo mio anche io ho delle cose speciali da preparare per i miei giorni di festa: più che altro mi piace che la casa profumi di cibo cucinato e che la tavola sia apparecchiata con cura, con i piatti più glam che ho e una luce studiata. Certi rituali mi affascinano sempre molto. Non mi intristisce pensarmi da sola in questi momenti e già pregusto il mio ritorno a casa nei giorni del disimpegno e del “pure questo Natale ce lo siamo levati…”, mi serve a prolungare il senso di festa mentre gli altri hanno già il trauma da rientro. Sono una finta buona.

Degli undici anni passati qui a Milano, otto sono trascorsi senza la TV: nei primi anni qui uscivo sempre, facevo tutto fuori casa con l’ansia febbrile mista alla certezza che questa sia una città da interiorizzare assecondandola in ogni proposta che ti assomigli. Persino avere un micio non mi ha trattenuto dal percorrere questa città quanto più mi fosse possibile, preferendo privarmene piuttosto che rinunciare a stare “dentro” Milano. Oggi non lo farei assolutamente.

Adesso però sono stanca. Non penso più in questi termini. Non vedo più questa città con quegli occhi. Preferirò sempre Milano ad ogni altra città, eppure sento come necessario, doveroso, inevitabile, anche trovarmi nel luogo in cui i miei stanno invecchiando senza di me. 

Manco solo io. Io manco sempre.  Non a qualcuno o a qualcosa eppure manco.

 

Per chi o cosa restare ancora? Che paradosso sentirsi fortunati di non riuscire a trovare risposta


venerdì 11 dicembre 2020

Ricordi anomali di un anno da dimenticare


 Persino io mi arrendo. Io, che mi ostino sempre a prendere nota di un tempo in cui provo a riconoscervi la necessità che le cose debbano essere esattamente come sono. Ma non si può. E’ un anno troppo storto per offrire una seppur minima chiave di lettura edificante di tutto quello che ha voluto infliggerci. Non c’è niente di giusto: dagli idoli che ci ha strappato, alle limitazioni negli affetti privati, dalla quotidianità appesantita da obblighi e restrizioni, all’impoverimento materiale di intere categorie, fino alla paura del futuro, l’individualismo che si fa solitudine, malinconia, depressione collettiva. Neppure io perdono quest’anno brutale, vergognandomi persino della mia condizione apparentemente inviolata grazie alla quale continuo a fare tutto quello che ho sempre fatto. Intanto ho riparametrato ogni vecchia priorità, come desiderare restare per sempre in questa città, coltivare un romanticismo “realizzabile”, collezionare nuove mete di viaggio. Nulla. E’ un anno proprio odioso e spero che si trovi al più presto la maniera di dimenticarlo.

Il mio ufficio è quasi del tutto vuoto e gran  parte dei miei colleghi è tornata al sud per lavorare da lì. Mi pare sensato e l’ufficio così è bellissimo, soprattutto se penso a colleghi che riflettono ad alta voce per otto ore di fila, incuranti di orecchie che forse vorrebbero tregua,  o ad altri che non salutano neppure se gli sbatti col muso contro. Ma sarò felice anche del loro rientro. Giuro. Nella mia vita lavorativa ho odiato solo due colleghi e per fortuna se ne sono andati via entrambi e quando è successo mi sono detta che forse ho un angelo custode potentissimo. Il primo dei due era un tizio di Foggia, un gradasso con cui ebbi uno scontro scaturito da un parere divergente riguardo un film. Quella sera ne parlai male, volutamente, proprio su questo blog e il giorno dopo tutto l’ufficio ne parlava. Mi finsi sorpresa, ma in realtà volevo che sapesse e signorilmente vomitargli addosso tutto il mio disprezzo, evitando il contraddittorio con una persona cosi indegna. Una delle migliori sensazioni della mia vita, assieme  alle preghiere esaudite di vederlo andar via.

Il secondo collega detestabile era un tale Genny. Con lui non avevo mai avuto nulla a che fare. Però una volta gli chiesi delle puntine per la spillatrice di cui avevo una certa urgenza e lui, per fare lo splendido , mi disse “no, servono a me”. Mi bastò questo per considerarlo la seconda persona peggiore dell’ufficio. Quando è andato via ho gioito come una pasqua…e lui magari manco ha mai saputo quanto lo detestassi. Che personaggio strano che sono pure io…ma loro due erano proprio brutti lo stesso.

Oggi invece me ne sono stata immersa nel silenzio ovattato di uno spazio troppo grande per contenere solo me e pochissimi altri dispersi nei vari piani e mi sono chiesta come sarà tornare al regime precedente, con le pause caffè caotiche e le schiscette da consumare tra i colleghi che si piacciono. E poi sono uscita, percorrendo una strada umida e nebbiosa che mi piace soltanto d’estate, ascoltando un programma comico nelle cuffie e provando a gestire la profonda tristezza per la morte di un regista coreano di cui mi sono innamorata dopo averlo incrociato con colpevole ritardo.

E’ un anno di pensieri piccoli e di ricordi meschini, di vuoti difficili da colmare assieme alla difficoltà ad immaginare un vero ritorno alla vita di prima. Fare peggio non si poteva. Ma mancano ancora un po’ di giorni. Meglio tacere. O confidare ancora in quel gran figo del mio angelo custode.

domenica 6 dicembre 2020

Tenere presente il futuro

E’ stato più difficile della prima volta. Ma sapevo che non me ne sarei pentita. Cinque giorni senza caffè e ogni altra cosa non inclusa in ciascuna delle cinque “scatoline della sopravvivenza” del mio kit per la longevità. Non ci sono ragioni specifiche per cui abbia deciso di replicare un’esperienza che avevo già trovato abbastanza estrema la prima volta. Neppure sono sicura che mi faccia davvero bene, ma confido con fede intatta che sia così. Forse la vera ragione è che ogni tanto ho bisogno di costruirmi delle piccole sfide, delle prove di resistenza, piuttosto che di mera forza. Funziona molto bene per la mia autostima. E così, approfittando delle ferie, ho cominciato le mie giornate senza caffè né eccitanti di nessun genere, sopportato mal di testa lancinanti per tutto il tempo, patito una fame assurda attenuata senza successo da brodini fatti di polverine strane, integratori di vitamine, alghe e minerali. E’ stato veramente difficile anche solo mantenermi in piedi. Al quarto giorno mi sono detta che mi sarei concessa almeno un caffè. Ma poi non l’ho fatto. Poi i cinque giorni sono passati e io non potevo crederci: ho fatto tutto alla lettera e senza mollare. Quando tutto è finito ho fatto la colazione più memorabile della mia vita. Vivere il piacere in questo modo è una vera condanna.

Quest’anno ho deciso di fare regali soltanto ai miei. Ho ordinato dolci e panettoni artigianali milanesi dalla fondazione Rava e dall’Amref e li ho fatti arrivare giù. Io ho finito. Procedere per sottrazione vuol dire anche evitare di sentirsi in obbligo per ogni cosa con chiujnque e senza una vera ragione.

Per me non sarà un Natale diverso dagli altri. Ho sempre amato alla follia l’idea di poterlo festeggiare da sola, mangiando quello che piace a me, con le luci e il silenzio di una casa addobbata con semplicità ma non per questo senza accuratezza. Mi piace. Mi piace by passare tutta l’immane fatica che si cela dietro l’organizzazione e i preparativi di un cenone con tante persone, certa tensione da cui non ci libera mai veramente, l’ipocrisia, la retorica che si trova a subire chi non è credente…ma praticante a modo suo. In fondo che colpa ne ho.  

Di questi tempi, di solito, mi metto a fare un bilancio dell’anno che è stato. Credo si tratti di un automatismo diffuso. Ogni volta vorrei poter dire che ho rivoluzionato vita e modo di pensare, che questa pandemia ha modificato radicalmente il mio sguardo sul mondo e sugli altri. Ma sarebbe falso. Mi confermo la stessa di sempre: tendenzialmente solitaria ma non per questo meno affettuosa, svampita eppure appassionata di tutto ciò che è metodo e disciplina, in perenne attesa di incontri e destino da compiersi ma, intanto, quanto è bello pure sognare ciò che ancora non è. Il mio bilancio dell’anno è sempre così: utili con differita imputazione. Mi pare ok: un’impresa solida ragiona così per prosperare a lungo.

Se c’è una cosa che questa epoca dolorosa e sfortunata mi ha suggerito è che in realtà qualcuno di noi era già pronto a vivere così: senza considerare queste improvvise restrizioni del quotidiano come privazioni ma, al contrario, delle occasioni per sentirsi in pieno diritto di stare in se stessi senza altre sovrastrutture e obblighi sociali. Mi vergogno un po’ ad ammettere che questo sicuramente vale per me. Poi però mi passa.

I miei cinque giorni di “vuoto” e di mal di testa sono passati. Che fatica bella e terribile. La leggerezza è una conquista per nulla scontata. E questo alto costo è il mio migliore affare di quest’anno 

 



lunedì 30 novembre 2020

Pausa (dal) caffè

Ho un mal di testa feroce, come sempre quando comincio la mia settimana senza caffè. Ma quando poi la finisco mi pare di rinascere e quindi so che resistere ha molto senso. E’ anche il mio primo giorno di un periodo di ferie abbastanza lungo se penso che non ho intenzione di andare in giro se non per sopravvivere. Questo secondo periodo di reclusione ha in sé la familiarità e la rassegnazione del già visto. Pare che nel mese di Dicembre si tornerà ad uscire troppo e anche stavolta perderemo l’occasione di uscire da questo pantano. Mi sono rassegnata persino a questo. Io invece ho fatto presto ad abituarmi agli acquisti on line e la cosa mi procura la soddisfazione di un bambino all’arrivo dei regali.

Il mal di testa mi obbliga a movimenti lenti e a pensieri sconnessi e questa sensazione non è poi cosi sgradevole se decido di non fare lo sforzo di oppormi alla mia debolezza. E cosi stamattina mi è successo di pensare alla brutta pubblicità che Lanthimos ha fatto per la Tena: donne non giovani, non belle, non in forma che ci tengono a farmi sapere che, nonostante abbiano delle perdite e che non rispondano ai canoni classici di bellezza, non hanno assolutamente problemi sul fronte del loro desiderio sessuale. Non so dire bene cosa trovassi più sgradevole, non ho capito se fosse per il messaggio in sé, che io non avevo mai messo in discussione, o proprio per quell’orgoglio sfrontato per l’imperfezione che mi è sembrata più una spiegazione  non richiesta che effettivo compiacimento. Non lo so, ma ho provato fastidio misto a disgusto.

Io credo che esista una bellezza oggettiva, stabilita dall’armonia e dalla “statistica”. Ed è per questo che ritengo che non si possa negare l’esistenza della bruttezza. Non ho mai pensato che ci fossero colpe o meriti nel trovarsi a gestire una delle due, forse perché ho sempre fatto mia l’idea che vinca davvero solo “ciò che piace”. Il bullismo o il body shaming si combattono su un piano differente dall’ipocrisia della correttezza. Ed è per questo che trovo orrenda barbie curvy. Trovo parecchio più interessante sviluppare l’autodeterminazione e la valorizzazione della parte migliore di noi stessi, riconoscendo che ne esiste pure una peggiore. Ma non mi addentro in questa faccenda che sennò il mal di testa mi aumenta.

Ho appena ordinato delle scarpe da running. Ho cominciato quest’anno correndo in un’alba gelata. Ero così curiosa ed entusiasta di salutare un anno  nuovo nuovo. Non ricordo bene cosa davvero mi aspettassi. Ho imparato in fretta, e ben prima di quest’anno, a non alimentare aspettative e a fare più autocritica che posso. Pare poco. Per me no.

Di questo tempo credo che ricorderò tutti gli scampati pericoli: da contagio, perdita del lavoro, problematiche scolastiche, gestione familiare, frequentazioni in corso…ci si può ritenere fortunati anche semplicemente per ciò che non si ha. E poi ricorderò che è morto Maradona e con lui l’ultimo pezzo della storia di un pezzo di Napoli che con Pino Daniele e Massimo Troisi ha interrotto la sua narrazione migliore. Forse questa la supererò più a fatica.

Alla tv sta andando Mila e Shiro, il mio mal di testa si sta facendo feroce. E siamo solo al primo giorno. Non so come finirà quest’anno assurdo. 

Io mi riterrò eroica se riesco a superare anche solo questi cinque giorni   


lunedì 23 novembre 2020

Sotto un’altra luce

 Questo Novembre tiepido e luminoso non ce l’ha fatta ad intristirmi. Mi godo questi colori dalla finestra di casa o dell’ufficio, assieme ad un  silenzio che mi pare sempre più  irreale e atipico. Mi mette pace. La sera mi viene sonno molto presto, dormo bene e poi  ho imparato a cucinare piatti nuovi grazie ai quali mi sono autoproclamata la migliore al mondo cuoca di me stessa.  Mi sono concessa pure il tempo per montare la sedia a dondolo che mi era arrivata già da un po’ ma che non osavo  assemblare. E’ stato complicato ma riuscirci ha rappresentato una minuscola prova per la mia autostima, oltre che una vera svolta per la mia felicità domestica.

Ieri sono uscita per una lunghissima passeggiata. Il sole era alto ma per i primi dieci minuti ho avuto un po’ freddo. Dopo non più. Poi sono andata al supermercato e ho fatto la spesa senza alcuna fretta, scegliendo con cura quello che più mi piaceva per i miei nuovi piatti fatti di tempo e cura. E poi ho sbirciato nei carrelli degli altri (lo faccio molto spesso in realtà), ho provato ad intuirne i progetti di consumo e le ragioni per cui si lascino attirare da cose che io invece non comprerei mai. Mi pare sempre un esercizio molto utile, se non altro per capire quanto in fondo pure i consumi di massa in realtà sono capaci di evidenziare diversità reciproche piuttosto che vera omologazione. O perlomeno questa è la mia impressione rispetto al mio modo di consumare.

Da un po’ di tempo uso un additivo per il mio bucato. E’ un profumatore. Bisogna aggiungerlo al detersivo abituale. Uso lo stesso detersivo di mia madre eppure il mio bucato non profuma mai come il suo. E per me questa cosa è troppo straniante. Ho anche imparato a scegliere dei giorni in cui non bere neppure un caffè, a fare dolci a base di legumi al posto della farina, sperimentato un nuovo tipo di allenamento, visto vecchi film e fatto scorpacciate di cartoni anni ‘80. Le giornate sembrano passare molto in fretta quando ti imponi almeno una cosa nuova ogni giorno. O una capace di riportarti ad un passato lontanissimo ma ancora vivo nel tuo vissuto. A cambiare davvero è proprio la mia percezione del tempo e questo mi pare tanto più curioso se penso  che la vera noia si manifesta in tutta la sua ineluttabile arroganza nell’inerzia del presente e nella banalità brutale delle operazioni  necessarie (se trovo chi ha inventato la polvere dietro i libri o l’unto sui fornelli lo condanno al cambio di stagione del mio armadio per l’eternità).  

E’ un Novembre anomalo, dentro un anno andato a male capitato a sua volta in un tempo che  già faticavo a comprendere.  C’è troppa luce. Secondo me è tutta colpa sua

 


martedì 17 novembre 2020

Dove ti senti? In un posto, grazie!

 Credo che non potrei mai smettere di amare Milano. Neppure adesso che, se potessi, me ne andrei volentieri da dove son venuta: un posto che ho sempre detestato da quando sono nata e che peggiora ogni volta che ci torno. Non potrei smettere di amare Milano perché quando vieni da una brutta provincia dell'entroterra napoletano, vicinissima a Napoli ma pur sempre senza il mare, la cosa che ti auguri davvero è di andare a vivere in un posto che non ha nessuna somiglianza con quello in cui vivi. Solo chi esce dalla provincia (perlomeno da una come la mia) può capire quanto sia limitante viverci per alcuni di noi (mica tutti). 

Sono tanti gli amici e colleghi che in questi anni sono tornati nella loro terra. Tutte le volte me ne sono chiesta le ragioni: vivevano in posti più belli di Milano, avevano congiunti lontani, non riuscivano a trovare una loro dimensione in questa città. Tutte motivazioni estremamente ragionevoli e per le quali credo che nessuno di loro si sia mai pentito. Chi va via da Milano di solito lo fa senza nostalgia. E io ho sempre rispettato questo atteggiamento senza però mai riuscire a farlo mio.

Di Milano non ho preso lo stile di vita tipico – o forse solo stereotipato – della frenesia, degli aperitivi, delle grandi aspirazioni di guadagni e carriera. Ci sono venuta per fare un lavoro che amo proprio per la sua totale e anonima normalità, ma che mi ha consentito di concentrarmi su quello che mi appassiona senza scopo di lucro o che ho scoperto appassionarmi col tempo. In questi undici anni conosciuto un numero sufficiente di persone, ma sono davvero poche quelle che porterò per sempre nel cuore. Qualche volta mi sono molto legata, ma poi è passata. C'è una strana fisiologia nell’intensità dei legami che si stabiliscono in una città come questa. Credo che si siano fatti addirittura degli studi per comprendere una certa “volatilità” dei legami che si stabiliscono qui.

Non lo so perché amo così tanto un posto che mi ha anche obbligato ad una montagna di solitudine, e di dolore solitario, di riadattamento…prima subìto e, via via che ne scoprivo i tratti più netti, sempre più ricercato e accarezzato, così tanto che oggi che non è una scelta ma una necessità generalizzata, mi pare la cosa più naturale (e meno faticosa) di tutto questo stravolgimento globale.

Cosa ci faccio in smart working in questa casa che a certe ore del giorno ha una luce che non mi è familiare perché prima ero sempre altrove? Sono passati di qua e poi dimenticati gli anni del sentimentalismo (“E’ lui. Ne sono sicura”. “Mio Dio, ma come ho potuto!?”) , delle corse di gruppo, delle palestre fighette di prima mattina prima di andare a lavorare, dei piccoli teatri di quartiere, del cinema quasi tutti i giorni, di Pablito che mi rompeva sempre tutto (amore), dei pomeriggi alle terme Milano e dei massaggi nei centri benessere che ti insegnavano la mandala nei locali hi tech di via Cadorna (come ho imparato presto la sublime arte dello sperpero di denaro!). Passati e dimenticati tutti questi anni, che mi sembrano solo un lunghissimo ieri, quando di questi tempi già si era coperti dalla neve o da un nebbione avvolgente che mi faceva sognare un Bogart alla fine di ogni strada percorsa a piedi.

Cosa ci faccio ancora qui? Cosa rimane se non le cose che riesco a salvare grazie al web e che potrei godermi ovunque? Penso questo perché è ovvio pensarlo in un tempo come questo? Oppure no? Forse è vero che solo un amore trattiene davvero in un luogo che non è tuo dalla nascita. E lo è altrettanto l'essere costantemente richiamati alle proprie responsabilità da una famiglia lontana.

Credo che non potrei mai smettere di amare Milano. Ma che ci faccio io ancora qui?


lunedì 9 novembre 2020

È proprio come la prima volta. Tutto diverso, proprio come allora

Non è come la prima volta. E’ una cosa diversa. E’ cambiata la luce esterna, manca quello straniamento da novità assoluta e impensabile,  forse adesso sappiamo un po’ meglio di prima cosa si può fare di queste giornate “ristrette” e come approfittare al meglio del tempo aggiuntivo a disposizione. Di fatto si è tutti un po’ più stanchi, forse irritati, perplessi. Per quanto mi riguarda la vera novità è la scoperta che lo smartworking, per un lavoro come il mio, sia una meraviglia assoluta. Mi sarebbe piaciuto tornare giù dai miei, con la speranza di ritrovare la stessa armoniosa atmosfera della passata estate, ma non ho potuto. E così mi ritrovo a trascorrere, ancora una volta, il mio isolamento in questa piccola amatissima casa milanese, che nel frattempo ha sopportato i travagli inaspettati di un bagno nuovo e una disposizione differente dei mobili che mi pare riuscitissima. Adoro questo piccolo spazio in cui vivo costantemente di immaginazione, ipotesi, ricordi, affetti distanti o solo semplicemente desiderati. 

E’ tutto cambiato. Anche per me e le priorità che davo per assodate, come la solitudine che ho sempre considerato il mio unico ponte possibile per un incontro necessario ma frutto di attesa paziente. Intanto è cambiato persino il mondo fino ad ora conosciuto: Trump finalmente non fa più parte dei nostri destini, una donna “indo-giamaicana”è  vice presidente degli USA, Salvini è ormai poco meno che un uomo ridicolo, il paese non si è dimostrato all’altezza dei risultati ottenuti durante la prima ondata e per le spiagge di Mondello c’è una donna assurda che fa un videoclip sull’inesistenza del covid. E in tantissimi la guardano. E si divertono pure.

Io invece mi ostino e sentirmi pacificata, senza sapere bene il perché se non per il fatto che in fondo mi ritrovo a vivere come ho sempre voluto, che poi vuol dire non soffrire mai per amore, allenarmi, cucinare meravigliosamente bene mentre ascolto la radio, lavorare il giusto, vedere film e farmeli raccontare da quella meraviglia continua che sono i corsi di Longtake. E poi vivere di fantasia e di immaginazione per tutto il resto del mio tempo a disposizione. E’ poco lo so. Ma a me basta e poi non so cosa altro potrei fare di utile per il mio prossimo, se non provare almeno a non essergli troppo di intralcio. Non credo nell’etica dell’attivismo ad oltranza e a prescindere. E non mi sento un’egoista per questo.

E’ tutto cambiato. Se mi soffermo sulla sua composizione media, lo stato attuale non mi pare né peggiore né migliore di prima, ma forse questo si perpetua più o meno dall'origine della storia. E’ nelle esistenze individuali che si gioca la differenza vera e in questa fase il vero privilegio è scoprire quanta inesauribile ricchezza, pace, benessere ci sia nella solitudine e nel non avere la piena responsabilità verso un futuro su cui, in questo momento non abbiamo alcun potere di controllo o margini di manovra veramente significativi. 

Un mio amico, quando mi osserva muovermi nel mio quotidiano, ogni tanto mi dice cosi: “Lucia, ma come fai a sopravviverti!”, riferendosi forse al fatto che, qualche volta, sono un po’ svagata o poco pragmatica. Mi ha sempre divertito questa impressione perché, pur confermandola, per alcune cose che mi riguardano e in cui credo molto mi riconosco invece una disciplina ferrea che mi rende inarrestabile di fronte a qualsiasi ostacolo. E così ho pensato che forse tutto a questo mondo funzioni così: come un eterno oscillare tra “sbrodolamento” e rigido rigore. E in mezzo tutta la gamma delle combinazioni possibili che ciascuno di noi prova a mettere in campo per andare avanti come può. Meglio che può. 

E’ tutto cambiato. E’ peggio della prima volta. Ma è anche meglio. Come sempre. 


sabato 31 ottobre 2020

Il presente da lasciar passare

 Non mi riesce più. Il bisogno di tenere aggiornato un diario, con frequenza sufficiente a rendere conto di fasi della vita innestate nella cronaca del tempo, è in netto contrasto con la sensazione di uno scenario “congelato” da spazi di azione troppo ridotti per meritare un racconto. Cosa potrei mai dire ancora di questo tempo impensabile? Ormai è cosi tanto che il covid ha catalizzato e assorbito tutta l’attenzione che tutto quello che fino ad ora ha contato nella nostra vita non riesce ad essere altro che un corollario opaco e afinalistico di una quotidianità sempre più svilita e svuotata progressivamente di ogni contenuto. L’ho già detto tante volte, per molti di noi è più facile, perché l’isolamento faceva già parte di una scelta, o di un’esigenza dettata da intimi bisogni sedimentati da tempo ed esperienza. Per altri invece è una vera tortura, accettata con dolore, spesso con difficoltà pure di ordine pratico. Per tutti è diventata un’ossessione variamente declinata. Come forse è giusto che sia. Di fatto è così poco ciò che davvero si sa di questa pandemia che qualche volta mi chiedo quanto abbia senso vivere in questo modo visto che ogni tentativo efficace di uscirne pare fallire miseramente. Quello che in questo momento so è che ho un pò più paura di prima, che lo smartworking ( che ho sperimentato solo da pochissimi giorni) è una modalità estremamente efficace per tipo di lavoro che mi è toccato, e poi che, a differenza della prima ondata, avrei voglia di tornare giù dai miei almeno per tutta questa ulteriore fase.

Che posso dire? A chi interessa che vivo ancora beatamente in questa bolla che include i miei programmi radiofonici del cuore, i miei corsi on line, i miei film, i fumetti…e che faccio ancora, anzi di nuovo e più di prima, più o meno le stesse cose di quando avevo vent’anni. Ho lasciato intatti  pure i sogni di allora. A volte credo che il covid sia un potente alibi per un ritorno al mio tempo migliore, stavolta al netto della paura del futuro o di un mancato affrancamento da un contesto che trovavo problematico. Di irrisolto ho mantenuto la mia vita affettiva, ma in realtà sono convinta che questo rientri nella mia carta d’identità emotiva, che poco ha a che fare con agenti patogeni venuti da chissà dove. 

Oggi ho indossato un paio di jeans che ho adorato e che non mettevo dal 2007. Mi stanno ancora. Mi pare incredibile. Li ho messi per andare in edicola a comprare un pupazzetto di Zerocalcare. Mi sono chiesta come mai da allora li avessi conservati con cura, preferendo però adottare un look differente

 A me è sempre piaciuta davvero soltanto la moda degli anni ’70: jeans a vita bassa e a zampa, pantaloni di velluto a coste, dolcevita. Roba così, da studente dissidente eterno fuoricorso. Che poi non sono mai stata. Io ho sempre, costantemente, nostalgia di un tempo non mio. Non mio perché già passato quando io sarei stata pronta per lui. Non mio perché mai vissuto. A volte ho l’impressione di avere problemi solo col presente.

Che posso dire di un tempo come questo? Un tempo in cui Trump forse perderà (ma non è mica detto) solo per un pelo e non in modo schiacciante, un tempo in cui si negano i numeri e l’evidenza e le notizie si affastellano senza alcuna logica fino a contraddirsi a vicenda. Potrei affermare che sia un periodo nerissimo nel quale mi muovo col senso di colpa di chi, per ora, ha soltanto responsabilità per se stessa, che rispetto ai nerissimi vent’anni ha trovato pace e accettazione, che crede che non sia ancora il tempo per l’amore ma che sicuramente è lì da qualche parte per un tempo altro a dare senso a tutto il resto. Persino a questo. 

Forse questo posso dire. Il covid ha cambiato la mia vita congelandola. Anche i vent’anni a modo loro fecero questo. persino un paio di jeans rimasti nel cassetto per tanti anni lo hanno fatto. Pure un tempo mai vissuto e a cui senti di appartenere è capace di cambiarti la vita. A volte è il presente che latita. Ma poi si fa pure lui passato. E, come per magia, chiude ogni cerchio. Questo posso dire


sabato 24 ottobre 2020

Cosa cambia (anche quando non lo fa)

 Un sabato intero in casa. L’ho fatto spesso in questi anni e mai perché costretta. Oggi mi illudo che avrei avuto la stessa voglia di restare in casa indipendentemente da restrizioni che si fanno sempre più severe man mano che i dati sui contagi raggiungono livelli di allarme. Ma dentro di me sento che anche i miei margini di scelta si sono assottigliati nella scelte quotidiane più semplici: non prendo più i mezzi pubblici, troppo affollati, vado al lavoro solo se sono certa che il mio collega di stanza sia assente, non incontro più nessuno, cammino molto e mi alleno solo per rafforzare il mio sistema immunitario e cercare di non prendere neppure un raffreddore, non prendo neppure un caffè da nessuna parte e non ho mai abbracciato la religione dell’aperitivo. Al cinema invece mi sono sempre sentita tranquilla. Io non ho mai avuto paura di ammalarmi: non tanto perché lo trovi poco probabile, ma perché non sono un soggetto fragile, non ho abitudini che mi mettono a rischio, sono una incosciente fatalista, non sono credente e quindi non devo neppure provvedere a ristabilire una posizione con un qualche dio. Vivo tutto questo con la serenità di chi in fondo vive anche solo per curiosità.

Ma non è vero. Non del tutto. Nella realtà è cambiato tutto anche per me. Quando questo mestissimo periodo è cominciato io ho accolto l’evento con l’ironia e il sarcasmo di chi non poteva credere alla possibilità di un fenomeno che storicamente non avevo mai affrontato. Tornavo da un viaggio bellissimo e approdavo in un’altra Italia, completamente sconosciuta. E ridevo. Ridevo delle cautele, degli starnuti al gomito, dell’amuchina, del panico che cominciava a diffondersi pure tra gli scaffali del supermercato. Poi ho capito. Mi sono adeguata a tutto e ho cominciato  a sviluppare una sensibilità nuova verso ogni azione individuale e sociale del mio quotidiano. Ho cominciato a disprezzare i negazionisti e i “minimizzatori”, se non altro sulla scorta di numeri inequivocabili sui morti e gli ammalati gravi. Mi sono fidata delle misure di un governo di incapaci e dilettanti, confidando nella necessità ed efficacisa di misure drastiche, in fondo molto semplici, come chiudere tutto e stare a casa più soli che si può. 

Poi è arrivata l’estate, le elezioni che si avvicinavano, il malcontento, la stanchezza, l’economia che langue. Bene. Liberi tutti. E io mi sono detta che forse anche con la sola fortuna si poteva avere qualche speranza. Mi sono sbagliata.

Esistono due tipi di problem solving. Uno è di tipo “veloce”, dettato da emergenze che richiedono decisioni rapide e non ponderate. Funziona solo in virtù di una necessità impellente destinata però a rientrare. E poi c’è un problem solving basato su strategie di lungo termine, che includono la complessità dei problemi che affronta una società stratificata con problematiche differenti e specifiche.

Oggi sono rimasta in casa tutto il giorno. Ho fatto le grandi pulizie, letto alcune pagine di un libro, visto due film, cucinato e congelato cibo per tutta la settimana, sopportato il vocione del mio vicino sudamericano orribile. E poi, nel pomeriggio, mi sono chiesta se avrei davvero fatto tutto questo anche senza il deterrente della pandemia. Forse sì. In realtà non posso saperlo.

Quello che oggi so è soltanto il fatto che sono felice di non avere un amore che forse non avrei potuto vivere liberamente, che non devo gestire bambini alle prese con la DAD, che posso continuare a lavorare anche da casa, che da anni mi alleno da sola e non in palestra, che i miei corsi di cinema siano on line, che posso continuare a vedere film, chesono in grado di cucinare cose che non mi facciano rimpiangere i ristoranti, che non devo gestire patologie e fragilità. Sono pure felice di essere timida e da sempre vocata alla solitudine e ad una socialità limitata a persone che stimo molto. Quello che so è che continuo a vivere come (forse) vorrei. E non so perché, malgrado questo, io trovo lo stesso tuttoquesto profondamente anormale e ingiusto.


domenica 18 ottobre 2020

Farsi spazio senza aggiungere nulla

 Devo riabituarmi ad uno spazio già mio. È abbastanza strano sentirsi come in una nuova casa nonostante sia variata solo la disposizione dei mobili (il bagno vive una storia a parte, molto travagliata e traumatica, ma tutta sua). Mi piace moltissimo la nuova soluzione: ho recuperato molto spazio, è tutto più razionale e a me pare di aver cambiato casa al punto che i miei gesti automatici mi fanno sentire smarrita perché nulla è al posto di prima e per questo mi muovo come se fossi un’ospite un po’ impacciata. Una sensazione bellissima. Respira di nuovo e di mistero..

Qui a Milano la situazione è ripiombata nello stato di allerta pre estivo, reso stavolta più mesto proprio dai colori freddi della stagione rigida. Io ho smesso di prendere i mezzi ed esco solo se strettamente necessario, come per andare in ufficio e fare la spesa. Come da molto tempo a questa parte, non mi sento triste ma neppure felice, condizione questa che nella mia classifica degli stati d’animo rientra nello stato ideale. In un’altra vita devo essere stata una qualche pianta.

Cosa mi aspetto da questo inverno? Ho appena ordinato una sedia a dondolo: ora che il divano è nella stanza meno praticata ho in quella principale lo spazio sufficiente per realizzare un mio vecchio capriccio: credo che passerò molto tempo seduta lì, coperta dal più classico dei plaid, a vedere un buon film e col pensiero a chi mi manca.. In un’altra vita, oltre ad una pianta devo essere stata una persona anziana dalla nascita...

Oggi, mentre riassettavo e liberavo i miei nuovi spazi, è spuntata una vecchia foto di una persona che ho molto amato. Non avevo mai avuto il coraggio di buttarla via. Lui non significa più nulla per me da tanto tempo, eppure mi pareva sbagliato cestinare quel suo ricordo. La forza dell’abitudine a volte rimane la cosa più forte di tutto, pure dell’assenza di partecipazione emotiva, anzi ne è il più grave deterrente. Buttare quella foto nella pattumiera è stato enormemente liberatorio.

Cosa mi manca veramente? Forse l’idea stessa di pianificare un viaggio, la possibilità di flirtare con qualcuno pur sapendo che starò molto attenta a non andare oltre. Forse mi manca la frenesia sciocca di questa città, che però contagia vitalità e slanci. Mi manca persino rassegnarmi alla volatilità dei rapporti. Non so come leggere questa progressiva perdita della possibilità di pianificare. Non ne trovo la logica. L’ho pensato anche per l’incidente di Zanardi: uno così lo avvicini a Dio. Non andrebbe contemplato Per lui l’epilogo che gli è toccato.

Quando scrivo su questo spazio non rileggo mai (per questo mi scuso continuamente per i refusi che lasciano intendere forti digiuni grammaticali), perché ho paura di “riposizionare” i pensieri in modo meno sincero. Ma credo sia un errore: l’autenticità passa anche per una ricollocazione del pensiero, per sforzi successivi di decodifica, per sottrazioni e aggiunte prima di raggiungere la piena convinzione di qualcosa. Proprio come uno spazio domestico che decidi di modificare per sentirlo più familiare. A volte è un rischio, un lavoro faticoso, spesso fa riemergere un ricordo sopito e
ingombrante. Quasi sempre è una cosa bella.

Cosa mi manca allora? Credo sempre le stesse cose. Ma forse ora occupano semplicemente degli spazi diversi. E può darsi che la vera fortuna di questo tempo sia quella di doverle cercare di nuovo tutte.  Una ad una.


domenica 11 ottobre 2020

Lode agli anni che passano. Se tutto torna

 Sono passati esattamente vent’anni. Per la precisione il 31 di questo mese, nel 2000, mi sarei laureata. Quando  me ne sono ricordata mi è mancato il respiro per qualche secondo. Non è possibile avere un ricordo così nitido di una tappa certamente fondamentale ma di fatto accaduta davvero tanto tempo fa. Non è possibile che io oggi sia qui a rendermene conto senza avvertire il peso di un percorso che ha ormai concluso la sua fase “costruens”.  Il ricordo di quel pomeriggio, in una chiesa sconsacrata di via Medina, col mio tailleur in velluto, i capelli corti e lo sguardo smarrito, preoccupata soprattutto di ben figurare per un prof che non volevo assolutamente deludere e che non ho voluto abbandonare neppure negli anni successivi, con un master e poi un dottorato per cui mi ha fatto da tutor. È incredibile come certe persone, incrociate in periodi precisi della nostra vita, arrivino a rappresentare in modo del tutto involontario dei mentori capaci di condizionare una vita intera. Avevo diciotto anni quando conobbi il mio prof, mi fece ripetere il suo esame per tre volte prima di darmi trenta e lode. È stato lui l’ultima persona che ho salutato prima di venire a Milano. Avevo ormai quasi trentatré anni. E io, nonostante lui, per l’economia ho sempre avuto la stessa armoniosa sintonia che può esserci tra le cozze e la nutella. Grazie, grazie e ancora grazie anche per questo strano e assurdo miracolo di “innesto” mio amatissimo prof.

È una giornata uggiosa qui a Milano ma io sono di buon umore perché domani viene Moretti a raccontar cose all’Anteo e poi il mio papà starà qualche giorno a risolvermi un po’ di problemi qui in casa e con gli operai che forse finalmente finiscono lavori che sulla carta dovevano concludersi il 14 agosto. Alla fine si sono fatti perdonare facendomi un forte sconto ed in più la lavatrice slim perché i loro errori di progettazione non consentivano alla mia di entrare nel nuovo bagno. Tutto si aggiusta alla fine, se conservi pazienza, fiducia e un po’ di buon senso persino quando nulla pare averne.

I contagi hanno ripreso a galoppare. Stavolta anche io ho l’opzione allo smartworking e sono pronta a riammettere un periodo di clausura, se necessario. Come la prima volta non avverto paure particolari e non mi spaventa l’idea di trascorrere di nuovo intere giornate in quattro mura. Se c’è una cosa che ho capito questi anni, fatti -  come un po’ per chiunque - di solitudini, incontri belli o anche sbagliati, tantissimi viaggi, una città da vivere senza riserve...che la cosa che mi interessa davvero è convivere pacificamente con le mie fragilità senza più voler pretendere di ridimensionarle con esercizi estenuanti. Non sono un’estroversa. Alla lunga questo lo capiscono tutti. Comincio a sentire la socialità soltanto come una necessità imprescindibile piuttosto che una parentesi piacevole che amplia i miei orizzonti oltre la mia confortevole soglia individuale. Non mi dispiace che mi si imponga un nuovo isolamento: stavolta lo vivrei con ancor più metodo e divertimento. Lo sento.

Spesso racconto con ironia o (finto) rammarico del fatto di non vivere un amore. La verità è che mi piace solo l’idea perfetta dell’amore. Nei fatti nessuno può farmi felice. E viceversa. Ho l’anima da geisha e questa è una condanna perché nessun uomo è in grado di provare davvero amore per una donna così. Alla lunga si smette di apprezzarla e si finisce per darla per scontata. Mentre si guarda altrove. E io dal canto mio non so immaginarmi in altro modo.

Mi sono laureata vent’anni fa. Ho preso persino la lode e ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile. Poi però ci penso bene e mi dico che no. È del tutto ragionevole. Anzi la lode era il minimo.

Modestia e insicurezza comprese.




venerdì 2 ottobre 2020

Sazia di leggerezza

 Sono due giorni che mi chiedo come si possano restituire le sensazioni più significative di un’esperienza in fondo neppure così eccezionake o rara ma, garantisco, profondamente intensa. Forse per parlarne come intendo può avere senso una premessa personale. Io credo che esistano essenzialmente due modi di liberarsi di una dipendenza o di un’ossessione: uno è azzerarne la gestione, invece di provare a darsi delle regole restrittive (smettere di fumare, lasciarsi e non vedersi mai più, smettere di bere...), oppure provare a rivoluzionare completamente il rapporto tossico che si genera dall’interazione col motore stesso delle nostre ossessioni. Detto questo, racconto di quello che ho fatto e cosa ho imparato. Sono anni che mi interesso di pratiche del digiuno. Le ragioni sono tantissime, partono dalla passione per il rapporto perfetto corpo/alimentazione ad un’idea più spirituale legata ad una forma di purificazione che parte dal corpo per toccare le corde più profonde del proprio essere. Uso un linguaggio improprio perché in realtà non ho ben chiaro cosa ho fatto davvero. È andata così: ho seguito e letto il libro di un dottore italiano che lavora in California, Valter Longo, e che si occupa di longevità. Una delle cose che ha sviluppato è un protocollo  alimentare chiamato mima-digiuno: devi stare cinque giorni ad assumere solo quello che c’è dentro un pacchettino. Il kit si compone, appunto, di cinque pacchettini. Nulla di più. In quel pacchettino ci sono integratori e fibre che ti aiutano a stare in piedi mentre il corpo percepisce lo stato di perfetto digiuno. Così per cinque giorni. Mi ha convinto. L’ho preso e l’ho fatto. Non è stato proprio facile, ma i benefici sono così tangibili che non vedo l’ora di ripeterlo. È stato così che ho capito che posso non bere tutto il caffè che sono solita prendere e che ho sempre creduto irrinunciabile, che sono spariti come per incanto quasi tutti i dolori articolari e la concentrazione e la lucidità sono aumentate in modo impressionante (sempre ammesso che ne avessi qualche barlume prima). Oggi il mio rapporto col caffè si è normalizzato e percepisco gli alimenti con una sensibilità completamente nuova. E questo per me significa davvero moltissimo. Il rapporto col cibo, come quello col denaro, è qualcosa con cui facciamo inevitabilmente i conti per una vita intera. Stare attenti a come decliniamo noi stessi rispetto a loro vuol dire raccontare praticamente tutto di noi stessi e di quello che siamo. Sono stati cinque giorni di un po’ di sacrificio, pazienza e attesa, ma pure di grande consapevolezza e autostima.

Oggi ho preso un giorno di ferie perché stamattina dovevo fare un brainstorming con delle mamme di bambini dai sette ai nove anni e ho capito che non è una colpa non avere istinto materno, è semplicemente un modo di essere rispettabilissimo: sarei stata una madre inadeguata, diversa non per capriccio ma per condizione di fatto. E questo di solito significa bambini disadattati. Sono salva dalle chat di signore che non comprendo e da bambini che avrebbero faticato ad amarmi. Sono salva dai miei errori inevitabili. E forse pure da quelli degli altri. Mah...anche non porsi più il problema è una vera liberazione.

Ora, come ieri, vado al museo del cinema, per vedere dei film e altre cose, ma soprattutto per ritrovare persone che amo molto e che mi aiutano a riposizionarmi in questa città in un tempo indecifrabile e asfittico come questo. Sono fortunata. O forse solo riconoscente. Il che, se ci penso bene, è un po’ la stessa cosa. O forse, per la prima volta, mi sento davvero sazia


mercoledì 23 settembre 2020

Presente in attesa

Alla fine è solo quello. Tutto si riduce al modo in cui si ordinano i pensieri. È questo che ci fa amare uno scrittore più di un altro, cercare gli articoli di un giornalista piuttosto che un altro e in generale che ci fa trovare più o meno interessanti le persone che incrociamo. E’ questo che a me fa innamorare oppure no. Non l’identità di vedute, non il merito delle questioni affrontate, ma il modo di confrontarsi con quello che possa riguardare chi si approccia a certe riflessioni. È solo questo che trovo davvero carismatico negli altri e che mantiene viva la mia curiosità. Perché dico questo? Perché me lo voglio ricordare quando ne avrò bisogno, perché un giorno la smetterò di tirare un sospiro di sollievo tutte le volte che mi piace qualcuno che però è già impegnato solo perché penso che tanto non avrebbe funzionato lo stesso. Un giorno giuro che la smetterò di trovare interessanti solo gli amori immaginari o quelli con la data di scadenza incorporata. Ma dovrò essere pronta. Oltre che paziente.

Ho ripreso ad andare un po’ al cinema, ho ancora un po’ di problemi con la casa, sono tornata a dormire nel mio lettone sotto il tetto, le giornate tornano ad accorciarsi sempre di più e io, che vivo di mancanze e qualche malinconia, non riesco a non sentirmi grata lo stesso di tutta questa normalità. Sì, io credo che i continui litigi dei vicini e di tutte le coppie che non riescono a convincermi della loro riuscita siano un’ottima ragione di tutto ciò che sono stata disposta a perdermi in questi miei anni così strani e necessari.

Il mio bagno nuovo è davvero figo. Hanno sbagliato quasi tutto, ma la pazienza mi sta premiando. Mi piace lo specchio grande, con la luce sopra che mi fa truccare meglio e quello sfondo fantastico di piastrelle blu che mi fanno sentire in un albergo a cinque stelle. Mi piace rendermi conto di quanto incidano certe piccole novità anche nella semplicità di un’esperienza che non ha pretese. Anche il mio vecchio bagno era carino e funzionale. Ma chissà perché all’improvviso non bastava più. 

Sto per fare una cosa che durerà cinque giorni e che mi impedirà di bere caffè. Non so se ci riuscirò ma conto di parlarne appena capisco bene quali effetti avrà. Mi hanno assicurato che avrò un gran mal di testa ma che ne varrà la pena. E io, se ne vale la pena, ci rimetto pure la testa.

È incredibile quanto sia facile raccontare la propria vita anche quando non succede molto. Deve trattarsi di  un talento che viene dato a noi appassionati di attese. E di presente che le ospita




lunedì 14 settembre 2020

Certe volte non tornano

 Continuano a non tornarmi troppe cose in questo anno assurdo in cui tento di ridefinire i confini del mio spazio d’azione e di quello vitale. Non credo di essermi mai sentita così disorientata, invece qualche volta penso che in realtà  sia sempre stato così e che questa fosse solo l’occasione per farci caso. E poi quali sarebbero le cose che non mi tornano? È una serata piuttosto calda e io sono un po’ stanca, non vorrei arrischiarmi in labirintiche elucubrazioni per scoprire che mi sarebbe bastato un triplo cioccolato con panna e granella alla qualunque purché granella come se piovesse.

 Sono rientrata da una settimana: ho ritrovato il mio piccolo bagno ancora da finire assieme a qualche problema piccolo pure lui ma dalle grandi potenzialità di crescita, un amico mi ha regalato l’abbonamento ai film in streaming di Venezia e io ho ripreso i ritmi di una vita in fondo tranquilla, pacificata da sogni che non pretendono pure di realizzarsi e che si accontentano di dettare la linea. Mi illudo ancora di non avere alcun diritto al lamento e questo qualche volta mi sembra parecchio frustrante.

Qui in casa ho creato lo spazio per mettere il divano nell’altra stanza. Al suo posto ci sarà un televisore grande che presumo vedrò stando seduta per terra su grossi cuscini e sul tappeto. Sono giunta ormai ad una età in cui credo di essere certa che non smetterò mai davvero di avere quindici anni. Il prossimo week end si andrà a votare e con ogni probabilità si deciderà per  un taglio dei parlamentari. Io, pur senza tutta la convinzione che richiederebbe l’orrore di un ridimensionamento della rappresentatività e quindi della democrazia, spero che vinca il No. Nella mia regione ci saranno anche le elezioni regionali: pare che vincerà  De Luca, soprattutto grazie a suoi irresistibili siparietti. I suoi colpi di teatro ai miei occhi celano solo un uomo dispotico, poco orientato al dibattito democratico e un millantatore. Ma indubbiamente la sua formula comunicativa è efficacissima. E poi l’alternativa è assai peggio.

Ho fatto il risotto con le verdure. Non avrei dovuto usare il riso integrale. Credo che sia per questo che non è venuto cremoso. Invece ormai sono un asso dei pancake alla farina d’avena. È stato così che ho scoperto che mi sono persa troppo burro d’arachidi nella mia vita. Ho pulito casa per ore eppure mi sembra ancora tutto in disordine, un disordine che pare volermi dire qualcosa che però ancora non comprendo. Nella mia casa in Campania invece mi piace tutto. Tutto mi pare avere un suo senso preciso. È facile quando quello spazio non ha dovuto ospitare tutta una vita e il suo carico di variabilità emotiva.

Credo che dormirò sul divano anche stasera. Poi domani lo sposto e io tornerò a stare nel mio lettone sul soppalco. Fa ancora molto caldo ma io l’estate non la sento già più

E ancora troppe cose non mi tornano


martedì 8 settembre 2020

pausa pranzo

 Come quando ti buttano senza preavviso in piscina per la prima volta quando sei troppo piccolo per ribellarti. Superi quel timore (qualche volta è un vero trauma) soltanto vivendoti meglio che puoi una situazione a cui non puoi opporti. Un atto di prepotenza che ha in sè l’ineluttabile dolore che affianca la crescita. Così mi sono sentita io quando ho varcato la soglia della mia cuccia milanese, quella da cui mi sono assentata per un tempo che non mi ero mai concessa da quando sono qui. Avevo persino rimosso l’odore  di calce dovuto al lavoro lasciato in sospeso per rinnovare il bagno. Che delusione pure questa. Gli errori di progettazione imporranno un ulteriore prolungamento dei tempi, io sarò costretta a lavorare da casa e tutti i benefici effetti del sole e del mare saranno inesorabilmente azzerati. Tutto in perfetto mood 2020 direi. In fondo la sto prendendo bene.

Dicevo che mi ritrovo catapultata nel mio ufficio con le mia carte, intatte come le avevo lasciate, e con altri documenti appoggiati sulla sedia a testimonianza del passaggio di chi era qui mentre io cercavo di fissare un ricordo accettabile di me in bikini, o di qualcosa di appassionante o mentre guardavo un film per esorcizzare la noia del tapis roulant. Chi lo sa cosa viveva Milano mentre non mi  tratteneva a sè.

 In fondo io ho semplicemente trascorso le ferie a casa mia, non ho esplorato posti nuovi in cui testare le colazioni e il mare cristallino. L’anno scorso ero a Venezia e provavo a mediare lo stupore per un’esperienza bella come quella della mostra col disagio delle file, della folla e di  una città che trovo ostile e avida, prima che bella e poetica. 

È da ieri che non faccio che pensare a un film che ho visto su Netflix per due volte di seguito. “Sto pensando di finirla qui” di Charlie Kaufman mi ha letteralmente lasciato senza ossigeno, pietrificato come non mi capitava da tanto tempo. Forse per questo il viaggio di ritorno mi è parso brevissimo. Ci sono tanti modi di giocare con la “sregolatezza temporale“ e Nolan non è l’unico a cimentarsi con questo genere di esperienza narrativa, onirica e legata ai temi dell’esistenza e della condizione umana. Per fortuna. Lo stile di Kaufman tocca corde differenti ma che mi riguardano molto più da vicino. Dopo ogni suo film sento che l’infelicità abbia il diritto di rientrare a pieno titolo nell’atteggiamento razionale di un individuo e che, come tale, esso non sia nè colpevole nè vittimistico. Un lavoro di scrittura e di adattamento a cui mi inchino con ogni riverenza.

Ho ricominciato. Era tutto tranquillo qui in ufficio. Ma io lo so già che in realtà ho un sacco di cose da fare. La mia cuccia milanese mi pare più piccola del solito. Il bagno è ancora da finire e io proverò a lavorare da casa come gli altri colleghi. 

Stanno per cambiare un sacco di cose


giovedì 3 settembre 2020

“‘Na grazje e’ Die”

 Eh, ma stavolta non ci voleva mica molto. Tanti giorni di ferie, tutti destinati a riposo, mare vicino e soltanto di mattina, la comodità di una casa con uno spazio che a Milano non mi permetto neppure di inserire nell’immaginario più ambizioso. Per questa estate incastonata nell’anno più assurdo della mia vita non sarei riuscita a fare niente di diverso: allontanarmi da una città che mi ha blindato, isolato, affaticato, complicato la vita e azzerato ogni mia consuetudine assodata. Ora in questa molle transizione da agosto a settembre, quando l’aumento dei contagi pare evocare un passato recente che non ho ancora fatto in tempo a metabolizzare, mi chiedo già cosa significherà per me ritornare a Milano. Perché non è mica così normale per me tornare ad affrontare la quotidianità problematica di una città in cui sono ancora alle prese con una ristrutturazione che mi ha creato una serie assurda di problemi, un lavoro che non so quanto ancora cambierà in modalità e contenuti. E la paura, nuova compagna dall’aspetto variabile che ha cominciato a fare il suo ingresso anche tra le mie scelte più elementari. Io non lo so proprio cosa proverò stavolta al mio rientro. Il bello di non avere scelta in fondo è solo questo: non ha alcuna importanza quello che sento io. Farò tutto quello che c’è da fare, troverò giocoforza delle soluzioni. E di sicuro mi chiederò come mi ci sono ficcata in queste situazioni. Io sono così, credo che tutto quello che faccio sia in realtà soltanto un pretesto per poi bacchettarmi.

Oggi in spiaggia, durante la mia solita passeggiata, un ragazzo che faceva la stessa cosa con degli amici, venendomi incontro mi ha detto in dialetto stretto che ero una vera grazia di Dio. È stata una cosa del tutto inattesa per me e direi pure molto divertente. Lui era piuttosto giovane e io non sono più abituata da anni a ricevere quel genere di apprezzamenti. E così ho pensato che forse se qualcuno mi trova ancora carina è perché in realtà io sto ancora aspettando di piacere all’unica persona che mi piacerebbe incontrare e che tutto quello che ho ancora voglia di fare, capire, imparare trova il suo senso solo in questa assurda aspirazione. Non mi salvo, lo sento. Camminare molto, in una spiaggia quasi desertica, ma nella quale all’improvviso succede qualcosa e io la traduco così. In fondo credo che avrò bisogno anche di questo piccolo bagaglio di sensazioni al mio rientro a Milano, lì dove incontrare qualcuno capace di improvvisare siparietti simili è un’ipotesi non contemplabile, dove non ho più voglia di uscire e frequentare nessuno Lì, dove mi faccio bastare gli spunti creativi della rete. E poi basta.

La mia estate sta finendo così: con un’abbronzatura dorata, tutto il riposo di cui avevo bisogno, il mio carico di amore platonico, sempre perfetto e privo di nevrosi e gelosie, su cui ho meditato pure durante le mie passeggiate marine. A tutto si aggiunge questa inedita paura del futuro unita a quella da rientro in una città in cui ho fatto una fatica crescente per fare qualsiasi cosa. 

Ho riposato bene. Direi che sono stata “nella grazia di Dio”. E non lo so quanto questa sia, di fatto, davvero una buona notizia


 


giovedì 27 agosto 2020

Sogno asintomatico di mezza estate

Sì. Stavolta era necessario. Staccare completamente da questi mesi e dal luogo che li ha visti trascorrere e abusare della mia capacità di affrontarli. Certe volte si riesce ad avere l’esatta misura della stanchezza proprio dal tempo che è necessario a sentirsi in grado di pensare ad una nuova partenza. Credo che dipenda pure dal tipo particolare di stanchezza che ti porti appresso, quella che non si mostra solo bisognosa di buone dormite, di ozio e pensieri rilassati ma che ti impone pure di immaginarti in qualche altro modo.

Sono in vacanza da cinque giorni. Tornare a casa dopo così tanto tempo mi dà diritto al trattamento “ospite di riguardo”, ovvero una trappola, di cui mi accorgo sempre molto presto, ordita dai miei per farmi desiderare il ritorno. Ma per il momento non attacca. Le mie giornate in questo tempo lieve e di azioni lente si articolano così: La mattina al mare, a pranzo si prepara quello che propongo io, nel pomeriggio me ne sto in mansarda a fare quello che faccio sempre nel tempo libero e cioè vedere film o fare sport. La mia capacità di adattamento a ritmi di questo tipo devo dire che è stata immediata. Sto già molto meglio di cinque giorni fa e questo nonostante i problemi da cui decisi di allontanarmi quando andai via tanti anni fa siano rimasti intatti da allora. I problemi che non si possono risolvere di solito fanno così, non mostrano i segni degli anni e ti ricordano che il futuro ti chiederà una forza che adesso non sai ancora dove trovare.

Il mare mi mette pace. Mi rende “asintomatica” alle mie stesse malinconie. Mi aiuta a ridimensionare o ingrandire tutto quello che nella sua dimensione normale mi sembra sempre stonato, mi fa ricordare col sorriso le persone a cui voglio bene e pure a quelle che ho allontanato. Mi aiuta a pensare a chi vorrei incontrare.

Qui al sud il distanziamento è abbastanza rispettato, tranne in spiaggia dove è il caso di stare molto “al largo” .
E comunque forse dovrei smetterla di guardare nei carrelli della spesa degli altri per provare a capire il dilagante tasso di obesità che mi pare di rilevare in questa parte della popolazione. Ognuno si consola come vuole e si abbandona ai piaceri che crede. Ma so che non è la verità vera questa. E già che ci sono dovrei anche provare ad avere pensieri meno cinici sul sistema scolastico attuale: io credo che sia del tutto fallimentare, a prescindere dal tipo di banchi e di cautele adoperate. Io credo che un bambino cresca molto meglio con uno sport perseguito con molta passione, i cartoni e videogiochi. Lo penso senza alcuna ironia. E comunque meno male che questo non è un mio problema,  pure perché la scuola secondo me è stata del tutto inutile pure ai miei tempi.

La mia estate comincia adesso. Sono ancora un po’ stanca, ma sono lontana da Milano, dal mio vicino scemo, dal mio bagno ancora da finire e da una scuola inutile di cui non mi toccano le modalità di riapertura. E così ho pensato che in fondo non c’è proprio niente di male se, in quanto “ospite di riguardo”, lascio che nulla di ciò che ai miei occhi appare sbagliato, falso e inutile possa in questi giorni riguardarmi. Non ne ho i sintomi. E questo è positivo ☺️👌😊