Sola andata

Sola andata

sabato 28 aprile 2018

Un sabato italiano, ma mica poi tanto

Ho sbagliato il luogo d’incontro per gli allenamenti. Oggi sarei dovuta essere alla montagnetta xxv aprile per correre in pista e invece, la svampita che sono, mi sono presentata come al solito in piazza Castello. Ne ho approfittato per fare una lunga passeggiata fino alla mia vecchia agenzia di viaggio e mi sono resa conto che tutte le proposte in bacheca erano esattamente i luoghi a cui ripenso continuamente negli ultimi sei mesi: Islanda, Giappone, tour degli Stati Uniti, Route 66. Incredibile. In vetrina c’erano queste mete e io desidero andare proprio in quei posti.

Sono anni che non viaggio più da sola. Per tante ragioni, non ultima quella che quando ti dicono che è molto rischioso certe volte ti rendi conto che è proprio vero. Se ripenso a certa mia leggerezza, incoscienza e fiducia mal riposta negli incontri che ho fatto durante i miei viaggi direi che sono stata, quantomeno, estremamente fortunata. Ma non è solo per questo. È che ho paura di non essere più in grado di cogliere il valore del “portarsi altrove”, come se - al di là di una bella vacanza - fossi certa che ormai non sia più capace di stupirmi e di ritrovare nei paesaggi, usanze, sapori e profumi nuovi degli elementi reali di curiosità. Quando ci penso un po’ mi spavento per certa mia abulia, di recente costituzione, e un po’ mi metto in pace con il posto in cui mi trovo e le piccole solidità pazientemente costruite per ridimensionare smanie e inquietudini. Forse è per questo che l’unico posto in cui tornerei sono le Maldive: lì non devi fare niente se non contemplare una spiaggia bianca e un mare cristallino dove convivono pesci dai colori che neppure immaginavi esistessero in natura e adorabili squaletti che non hanno mai pensato di azzannare umani. Però tutte quelle proposte affisse lì, su quella vetrata dell’agenzia che pareva dirmi “so che non hai più voglia di partire da sola e che pensi che nessun luogo possa salvarti da te stessa. Lo so che ti sei impigrita e ti basta un libro o affondare nella poltrona di un cinema vicino alla metro per collezionare i tuoi venerdì dell’anno. Lo so che hai due o tre brutti ricordi che ti fanno fare a pugni con la tua ingenuità...eppure sono mesi che pianifichi mete immaginarie incastrandole con giorni di ferie reali, che vorresti allontanarti da tutto e da tutti pure se nessuno ti ha fatto abbastanza male da voler scappare via senza salutare...io so tutto”. Può darsi che sia davvero così e che un giorno tornerò di nuovo ad assecondare certe voci e tradurle in carte d’imbarco a posto unico. Chissà.

Lo incontro sempre più spesso. Poco più di un anno fa, in uno di quei giorni in cui facevo da tappabuchi alla prima informazione in ufficio conobbi un ragazzo poco più che ventenne, di origine sudamericana, molto carino e sempre sorridente. Non so che informazioni gli diedi ma credo che parlammo per qualche minuto. Qualche mese dopo l’ho rivisto proprio sul mio pianerottolo di casa: lui andava dai rumorosi abitanti del piano di sopra. Io non lo avevo riconosciuto, stavo lavando a terra, non ero truccata, avevo una tuta e speravo soltanto che non avrei sentito troppo rumore. Lui mi vede e mi dice: “Ciao! Tu sei quella dell'agenzia delle entrate, un viso come il tuo non si dimentica”. Io lo guardai senza riconoscerlo, poi però mi tornò in mente e gli sorrisi soprattutto perché mi diceva cose troppo inverosimilmente gentili, data la condizione “prosaica” in cui mi trovavo (tuta, straccio, coda di cavallo, zero trucco...). Da allora l’ho incontrato spessissimo: sull’autobus, per strada, alla metro di San Donato, lungo via Mecenate. Solo un saluto radioso del tipo “ciao bionda! Come stai?”...l’altro ieri abbiamo fatto addiritttura un pezzo di strada assieme, dopo essere scesi dallo stesso tram e ho scoperto che si chiama Manuel, che insegna ballo in alcune palestre, che ha delle lentiggini molto simpatiche sul naso. Ad un certo punto mi ha detto: “dai qualche volta te lo prendi un caffè con me?” Gli chiedo perché mai e lui mi dice “Ma come perché? Perché sei bella. Sicuramente te lo dicono almeno tre volte al giorno. E poi sei tranquilla...”. Io sono scoppiata a ridere e lui mi ha detto “Non ridere, io dico sul serio” . Non gli ho detto di sì, sebbene stranamente il mio lato diffidente non ritenesse di doversi allertare. Ho continuato a ridere per non offenderlo, lui mi ha accompagnato fino al cancello e  ha ribadito: ”la prossima volta che ci incontriamo ci prendiamo un caffè. È deciso”.

Credo che sia per questo buffo episodio “a lunga gittata” che oggi mi sono ricordata di nuovo dei miei viaggi in solitaria, delle persone assurde che ho incrociato, dei rischi che ho corso e di quanto sia importante “difendersi” con una sana diffidenza e un atteggiamento di fermo distacco. Ma forse mi sarei persa proprio tutto, pure il bello degli incontri felici e di un tempo carico di senso e di ricordi.
 E così ho pensato che senza la mia proverbiale, ma alla fine sempre provvidenziale, ingenuità forse non avrei trovato neppure il coraggio di mettere il naso fuori di casa. Vorrei ritrovare giusto quella dei miei vent’anni. Magari Manuel ne ha ancora abbastanza da darne persino a me...



mercoledì 25 aprile 2018

“Ma che liberazione/ quanto costa la felicità”

Oggi la giornata era talmente bella che sarebbe stato delittuoso starsene in casa pure quando non si è appassionati di celebrazioni o commemorazioni e quando le folle sono esse stesse motivo di ansia e disagio. Sono stata fuori tutto il giorno, mi sono portata dei panini al farro e una banana che ho mangiato in un cinema che dava un film molto dolce intitolato “Wajib -invito al matrimonio” che racconta, attraverso un conflittuale dialogo padre-figlio, la difficile vicinanza fisica ed esistenziale tra israeliani e palestinesi. Proprio bello. Ho trascorso il resto del pomeriggio tra acquisti di scarpe che forse non indosserò mai oltre ad una maglietta oversize con il faccione di mickey mouse (che invece temo che avrò il coraggio di indossare molto spesso) e poi una lunga sosta ai giardini Montanelli a prendere il sole e a pensare a cosa  rappresenti per me davvero la parola “liberazione”. Mi sono ricordata di cosa scrissi su questo blog riguardo ad un collega molto maleducato. Non mi pentii mai di ciò che scrissi, anche quando scoprii che tutti in ufficio lo avevano letto. Oggi penso che sarei ugualmente severa, nonostante lui nel frattempo abbia voluto chiarire e “fingere” di avermi perdonato per le cose orribili che dissi di lui. Non mi sento una persona cattiva per questo e non credo che si debba necessariamente andare d’accordo o guerreggiare con tutti. Ci si può tranquillamente evitare. Questo è davvero liberatorio, quando ti senti oppresso, offeso, vittima di una prepotenza o di un atteggiamento villano.

Liberatorio è anche non cadere mai più vittima di alcuna forma dipendenza, soprattutto affettiva. Ed è ancora qui, in questa strana forma scritta sempre in bilico tra confessione, sfogo, sensazioni di pancia e di cuore che sono riuscita a trovare qualche chiave. È passato tanto tempo ormai ed è tutto perfettamente passato, ma io di quelle lacrime e di quel cinemino di quartiere al cui ingresso cominciai a raccontare del mio dolore mi ricordo ancora benissimo. Fu esattamente da quel momento
così complicato che cominciai a capire che non avrei mai più permesso a me stessa di reagire in quel modo a dolori di così scarso peso. Devo dire che un cuore diffidente e un po’ indurito è una forma di liberazione ad alto costo...ma è la sola difesa possibile che ho trovato.

Liberatorio è star seduta qui su questo divano comodo ma neppure poi tanto, dopo aver preparato il pranzo di domani, una tisana detox, con la quasi perfetta coscienza di aver raggiunto una visione pacificata di tutto quello che mi capita anche grazie ad un racconto senza riletture, col rischio, puntualmente verificato, di errori ortografici o di punteggiatura e di consecutio...tutto imperfetto come le cose, quelle che succedono a prescindere dal grado di controllo che ne abbiamo in quell’istante.

È stata una liberazione tutte le volte che il coraggio di essere me stessa è stato aiutato dalla possibilità che mi sono data di esprimerlo attraverso una modalità scritta che mi offrisse una chiave di lettura implicita nelle stesse parole che arrivavano a definire gli eventi. Non importa se per arrivare a questo qualcuno si sia sentito offeso e neppure quante lacrime siano state versate. Non me ne importa niente. Ogni liberazione è il prodotto di una battaglia con nemici e posta in gioco variabili.
Io, per sicurezza, me le scrivo tutte



domenica 22 aprile 2018

Maledetta primavera, quando hai smesso di aver fretta?

Stavolta non azzardo neppure il tentativo. È la terza volta che mi convocano dal policlinico per donare il sangue, come faccio ogni sei mesi da quasi dieci anni a questa parte, ma so già di non essere a posto col ferro e non ho voglia di farmi redarguire dalla dottoressa. Aspetterò ancora qualche mese, farò un altro ciclo di tardyfer e mi convincerò di poter affrontare a testa alta il regime vegetariano a cui sono tornata, dopo una lunga sosta, dall’inizio di quest’anno. E poi mi è venuto un fortissimo raffreddore. La mia reazione ai cambi di stagione non è più quella di un tempo. Devo farmene una ragione, la stessa che devo usare quando mi rammarico del mio contorno occhi o di certi cattivi presagi di cui mi persuado durante le mie ore solitarie. Ma in fondo che importanza ha: fin quando continuerò a girare intorno a questi tre o quattro “drammi” potrò ritenermi ancora abbastanza fortunata, magari un po’ perplessa...ma fortunata.

Ho trascorso il pomeriggio al parco. Ho pranzato all’aperto, dormicchiato, ascoltato musica e terminato un breve libro abbastanza divertente su un argomento che conosco poco e male, come il sesso senza amore. Ma va benissimo così. Ci sono cose che non mi interessano perché non mi rappresentano e non mi aiutano a comprendere aspetti nuovi di me stessa. Senza i baci belli non può seguire niente di bello e di buono. Andrebbero insegnate a scuola certe cose. A proposito di scuola...povero Michele Serra! Io concordo con lui ma la rete, pure quella che ha fatto il classico, ha detto che quelli dell’itis sono come gli altri e che certe etichette non stanno in cielo né in terra. Potrebbe essere vero se l'articolo avesse avuto pretesa di analizzare il peso culturale dei due tipi di scuola e il loro impatto sulla formazione individuale, ma il senso dell’articolo era tutt’altro e intendeva condannare una pericolosa tendenza alla polarizzazione della società che fornisce strumenti a portata differenziata a seconda delle origini. Detto questo, io ho fatto lo scientifico e mi sono sempre rammaricata tantissimo di non essere andata al classico e poi il mio prof. all’università diceva “il classico è La scuola”. E secondo me aveva ragione...nonostante questo non mi abbia impedito di diventare addirittura una brava persona...

Stasera sto così, un po’ stordita dal raffreddore, dal troppo sole, da un libro sfizioso ma di cui non saprei mettere in pratica i suggerimenti, dalla carenza di ferro e da quella in greco. Ho troppe mancanze. Secondo me è colpa della primavera che si è scordata di arrivare...




mercoledì 18 aprile 2018

Fuori c’è tutto, dal salone al balcone. E dentro?

Certo che ce ne vuole di determinazione a fotografare giorni di ordinaria normalità e farseli passare come passaggi fondamentali di una esistenza che passerà senza troppe storie. Oggi a Milano è stato un giorno d’estate ma io non ero pronta e ho affrontato il caldo con vestiti troppo pesanti. È la settimana del salone del mobile (e del fuori salone, soprattutto) e la città pullula di stranissime persone che si muovono frenetiche e curiose tra istallazioni, “distretti di design”, eventi glam e aperitivi a “scrocco”. A me piacciono, in questa magnifica settimana di spazi occupati, la Statale e la zona in Tortona

Da circa dieci giorni la stanza in cui lavoro è occupata soltanto da me (di solito siamo in due) e per  circa otto ore può capitare che non dica una sola parola, che non veda nessuno e che abbia come sottofondo alle operazioni che svolgo i podcast di radio 24. So che può sembrare assurdo ma, quando non ci sono problematiche particolari o attività per il pubblico, credo che sia bellissimo lavorare così.
Di fronte alla mia postazione c’è una finestra da cui vedo un condominio di dieci piani e al sesto c’è un balcone con un tavolino e due sedie diverse. Intorno alle otto una bella signora vestita sempre di scuro apre la finestra del balcone e fa uscire i suoi due mici. Uno è bianco e molto batuffoloso. È il più pigro dei due e si mette subito sul tavolo dove si acciambella e dorme. L’altro è marroncino e un po’ vivave: scorrazza per il balcone avanti e indietro per un po’ di tempo e poi salta sul tavolo a disturbare il suo compagno di balcone. Intorno alle dieci la signora esce, stende uno strofinaccio e il micino bianco allunga il collo per farsi accarezzare per un po’. La signora lo abbraccia e lo accarezza e poi orienta la sedia in direzione del sole, si siede e rimane così per un po’ di tempo. Sono tre o quattro giorni che la osservo e che ho notato questo suo piccolo rituale. Mi piace molto, credo sia una donna sola, tranquilla e ordinata e mentre la osservavo in quella posizione comoda pensavo che incarnasse un curioso contrasto con le gioiose “stravaganze umane” viste ieri in zona porta Venezia. Dopo un po’ la signora è rientrata in casa, lasciando i micini alla loro anarchia “confinata” in quel piccolo balcone del sesto piano. Ho subito pensato a Pablito e ai suoi di rituali mattutini, quelli ai quali si conforma tutta la mia famiglia quando prova ad assecondarlo nel suo bisogno di esplorare lo spazio circostante, assieme alle costanti pretese di carezze e dormite sulla pancia del mio papà.

Io mi faccio bastare il pensiero. Non ho alcuna responsabilità verso niente e nessuno e quando penso a questo mi chiedo chi lo sa davvero se la pace sia esattamente questo microcosmo di cose piccole e prevedibili, di gesti compiuti senza sforzo ma pure senza un vero scopo, oppure se un benessere completo stia nel costante portarsi verso l’imprevsito, le novità non sempre chiare, il mischiarsi un po’ casuale tra cose e persone. O semplicemente qualcuno di cui aver voglia di occuparsi.

Devo dire che stare nel mio piccolo “osservatorio” protetto, nel quale non cerco più nessuno, in un periodo in cui mi concedo solo ad esperienze che si esauriscono nello spazio di un profilo orario, di un film, una passeggiata, un dolce farcito, un libro illustrato...non è poi così male.
Forse vale semplicemente che ci sono infiniti modi di star bene al mondo. Tutti con la loro componente egoistica da stemperare con una qualche positiva traccia da lasciare a chi concediamo il potere di giudicare. Il mio per ora è questo. Stare attenta. A ciò che vedo fuori. A quello che vorrei accadesse dentro. E tutto questo nonostante l’imperdonabile assenza di un gatto


sabato 14 aprile 2018

Il sole di Milano. Così chiaro che confonde

Quando a Milano c’è il sole trovo che sia un delitto non stare tutto il tempo fuori casa. Se poi questo regalo arriva dopo un tempo incalcolabile di pioggia e freddo e addirittura di sabato, allora ha senso mollare ogni tipo di reclusione e incamminarsi con o senza uno scopo reale. Io sono uscita molto presto e come una vecchia consuetudine, solo brevemente interrotta, ho corso con i miei compagni. Avevo con me un borsone, due piccoli libri, un pranzo al sacco consistente in due panini integrali farciti con mozzarella e pomodoro e spinaci e parmigiano e una bottiglina di succo di mirtilli. Li ho mangiati passeggiando per via Torino, una strada che ho molto amato e che ho praticato moltissimo nei miei primi anni in questa città. A quel tempo c’era la fnac, responsabile di quasi tutta la mia videoteca e del mio primo i pad. Era un posto magnifico e al piccolo bar interno facevano una cioccolata calda che non ho mai dimenticato. Conoscevo quasi tutti i commessi, molti di loro erano gentili al punto di conservarmi sempre gli ingressi al cinema di certi fornitori. Poi un giorno quello spazio fu occupato dalla Trony e via Torino smise di essere una strada a cui volevo bene. Oggi ho visto che anche la Trony ha chiuso e io, davanti a quelle insegne smantellate, ho pensato “te lo avevo detto che era una pessima idea”. Sono arrivata fino alla fine della strada, il tempo necessario per terminare i miei panini e mi sono lasciata incantare dalle meraviglie dolciarie di ODS senza lasciarmi tentare, forse anche grazie alla strategia dello stomaco già pieno.

Ho preso la metro e c’era una signora che ha chiesto ad un altro adulto di usare le cuffie piuttosto che disturbare tutti con la musica a tutto volume. Ma lui non l’ha fatto. Lei, rassegnata, ha messo in borsa il libro che avrebbe voluto leggere e ha abbassato lo sguardo. Mi è dispiaciuto. Sono scesa alla fermata Lodi per comprare la caponata fior fiore della Coop che per me rientra tra i prodotti industriali meglio riusciti in tutta la storia della produzione di massa. Poi ho ripreso la metro, direzione porta romana. Ad aspettare c’erano anche un padre e suo figlio adolescente. Parlavano con grande complicità e molto divertiti. Ad un certo punto punto il papà gli ha messo il braccio sulla spalla e gli ha dato un bacio. Poi il figlio ha ricambiato facendo lo stesso e io ho pensato che questa
cosa non l’avevo proprio mai vista. Non tra un padre non giovanissimo e un figlio adolescente. Non li ho mollati per tutto il tempo che ho potuto osservarli e sono rimasti la cosa più bella della mia giornata.
Infine, sono andata a cinema per un film terribilmente doloroso. Lo sapevo, ero pronta. “Loveless” è un concentrato di amara attestazione dell’inattendibilità dei sentimenti umani, persino dei legami più viscerali, sensazioni di precarietà amplificate da contesti ostili, non controllabili né decifrabili. Direi un condensato di puro disincanto oltre che una notevole prova di sopportazione per me.

Quando sono uscita dalla sala il sole non era più così alto ma io ormai ero abbastanza stanca e con un bilancio pieno di voci e decisamente in attivo. Sono rientrata in casa, ho avviato la lavatrice, passato lo straccio a mangiato un’insalata e uno yogurt greco 0%. E un biscotto farcito. Lo so, non avrei dovuto perché ingrasso.
 Ma oggi a Milano c’era il sole. E quando a Milano c’è il sole ciò che è giusto riesce a confondersi con tutto. Soprattutto con quello che non lo è.

martedì 10 aprile 2018

Ma il Manifesto è partito? Sì, ma poi torna, fidati

Eccomi arrivata indenne al mio primo martedì post vacanziero. Come prevedevo sono tornata ai ritmi di sempre e ho provato ad attutire il trauma da rientro con la consolatoria illusione di avere una capacità di adattamento immediata e spontanea come quella di un saggio emancipato dall’incubo delle passioni. In realtà è che non ho molta scelta e non credo nel valore terapeutico del lamento. Sono ritornata a correre con i miei compagni di running e ho visto dei film a cui non riesco a smettere di pensare. Quello di ieri, che ripercorre il periodo giovanile di Marx fino alla genesi del “Manifesto del partito comunista”, mi ha letteralmente folgorato.

Io ho sempre votato comunista, almeno fin quando mi è stato possibile trovare nell’urna un simbolo che tentasse di rappresentarlo e ciononostante non ho mai pensato neppure per un istante, neppure da giovanissima, neppure prima di studiare economia per capirci almeno tre cose, mai, dico mai, ho pensato che rappresentasse altro dall’utopia. Per me il comunismo è come l’amore: so esattamente cosa sia, ne ho avuto qualche volta  una vaga e imperfetta percezione, c’ho pianto, mi sono fatta una ragione della sua irrealizzabilità nella mia vita, ho provato a viverlo come atto di fede e personalissima religione laica.
Oggi, con quello che mi rimane di una formazione irrimediabilmente keynesiana, so per certo che i sistemi economici che sempre mi augurerei sono quelli basati su economie miste con un meccanismo di regolamentazione pubblica dei mercati finalizzato a redistribuire le risorse in modo equo, dignitoso per l’intera collettività e razionale. Non ho mai pensato che la proprietà privata sia un furto (come voleva Proudon, “padre” del pensiero di Marx) o che il profitto sia sempre sinonimo di sfruttamento, trovo che i sindacati abbiano perso quasi integralmente la loro funzione originaria, mi piace pensare che ci sia una meritocrazia premiante e un sistema competitivo sano in cui si produca valore e crescita. Credere in tutto questo può ragionevolmente voler dire non essere comunisti. Direi di sì, ma io  voterei ancora comunista se potessi e lo farei non per le ragioni ideali che mi muovevano da ragazzina ma per il motivo esattamente opposto. Marx, nel suo sforzo di capire le cause della povertà in un mondo che esplodeva in produttività e benessere solo per ristrette classi, era ossessionato dalla ricerca di un metodo rigoroso fondato su leggi teoriche inattaccabili e, soprattutto, lo animava l’urgenza di diffondere una coscienza collettiva per rivendicare dignità umana e non merce di scambio svalutata. E poi c’era la rivoluzione, come fatto necessario e unica possibilità di riscatto, e tutto un nuovo sistema di valori che come uno “spettro” si aggirano per l’Europa. La sua era una perenne lotta contro l’ignoranza come unico mezzo di affrancamento. Questo, di tutto, è il messaggio che mi piacerebbe raccogliere per svegliare anche me stessa dal mio torpore.

Forse mi sono fatta prendere dall’entusiasmo di un bel film visto rigorosamente in lingua originale. Io non mi sento sfruttata, trovo accettabile persino il dislivello enorme tra il mio stipendio lordo e quello netto, fuggo da ogni forma di litigio o di disarmonia con il prossimo e non credo nello sciopero . E, a dirla tutta, non credo neppure che inciamperò mai nell’amore vero. Ma per fortuna io non faccio “massa”...






mercoledì 4 aprile 2018

E se cominciassi a mantenere le vicinanze?

Credo che sia la prima volta che trascorro così tanti giorni a casa da quando non vivo più qui. Domani ritorno a Milano con qualche timore per quello che mi aspetta al lavoro, dove sostituirò anche il collega, assente fino a giugno, per le possibili noie condominiali che non ho ben compreso e perché sento che qualcosa comincia a stonare troppo e non so identificarne bene l’origine. In realtà confido nel fatto che una volta riprese le mie abituali attività sarà tutto meno drammatico di come mi pare adesso o quanto meno me ne farò una ragione senza perdermi troppo in lamenti dispersivi. Adesso la penso così solo perché in realtà sono stata così bene qui a casa in questi giorni, dalla cucina superba di mia madre, le mattinate fantastiche alle terme, le cugine più belle del mondo, i pronipoti che crescono bellissimi, intelligentissimi e simpaticissimi...c’è tutto un mondo che mi appartiene e che cresce e va avanti senza di me e quando ci penso quasi mi spavento. Ma in fondo pure Milano ormai mi appartiene. Ieri mi sono riapparse le foto della prima (e unica) maratona di Milano a cui ho partecipato: hai davvero diritto di cittadinanza se te ne sei vissuta almeno una. Fu un’esperienza unica, con migliaia di persone. Ricordo che quello stesso pomeriggio andai al teatro Grassi, altra esperienza milanesissima, a vedere uno spettacolo con Isabella Ragonese. Una giornata perfetta. Quest’anno non ho voluto esserci e non ho saputo dare una risposta a chi mi ha invitato per regalarmi il pacco gara e i premi degli sponsors. Davvero, non so dire perché non ne ho nessuna voglia.

Ieri pomeriggio mi sono soffermata sulle foto della mia laurea appese ad una parete di casa. Era il 2000, avevo i capelli corti e molto biondi, ero un po’ emozionata ma contenta della mia esposizione senza tentennamenti e stavo firmando. Mi sono ricordata del mio paziente e adoratissimo prof., quello che al primo anno mi fece ripetere l’esame tre volte, che mi prendeva sempre in giro per la punteggiatura a ca**o (qualità che temo di aver conservato intatta), ma grazie al quale mi sono laureata con lode e portato persino a termine un dottorato. Quando penso a come sia stato possibile seguire un percorso così distante da me e da ogni mia più vaga inclinazione penso a lui e al potere immenso che hanno esercitato su di me, più o meno volontariamente, le persone di cui ho avuto profonda stima e affetto. Me ne sono resa conto persino conversando con mia cugina, che ad un certo punto mi ha dato un suggerimento di grande saggezza. Mi ha detto: “Lucia, ricorda, se frequenti qualcuno che dopo più di tre mesi non ci prova sappi che è perché non è sufficientemente interessato a te e, soprattutto, si sta divertendo con qualcun’altra”. Io un po’ c’ho riso, un po’ mi sono dispiaciuta ma posso fidarmi di lei e d’ora in poi userò solo questo pratico metro “dell’affettività a presa rapida” per capire se mi stia illudendo oppure no.
A Milano voglio portarmi un bagaglio leggero proprio come certi buoni pratici consigli.

Dicevo, le mie vacanze si stanno concludendo e ho al mio attivo il benessere da profondo rilassamento dei sensi, appannati da lunghe sedute termali, tanto cibo, una discreta quantità di affetto, qualche ricordo fondamentale a raccontarmi perché sono diventata questo, e non un’altra cosa, e qualche consiglio spassionato per evitare di allontanarmi troppo da me stessa. Perché è questo quello che faccio sempre. Allontanarmi. E se la smettessi una buona volta?