Sola andata

Sola andata

venerdì 25 ottobre 2019

Dove ero rimasta? Forse lì dove devo andare

Non mi sono mai chiesta se mi piacesse viaggiare oppure no. So solo che ad un certo punto ho cominciato. Ho fatto il passaporto, ho comprato un volo per l’India assieme a un tour con una guida locale e da allora ho preso a gironzolare con una certa regolarità. Un viaggio extra comunitario all’anno. Così per cinque o sei anni e senza mai chiedermi se ne avessi davvero voglia o quanto mi sarei divertita. Pensavo semplicemente, o forse semplicisticamente, che fosse una cosa da fare: vedere luoghi e persone profondamente diversi da me, confrontarmi con problematiche che non esisterebbero neppure se me ne stessi a casa mia, rinunciare ai ritmi soliti della mia quotidianità stanziale. E poi gestire la difficoltà della comunicazione, osservare nuovi modelli sociali e provare adeguarsi ad essi, imitarne qualche aspetto...cose così, che non saprei se definire veramente divertenti o dettate da spinte motivazionali differenti. Quello che so per certo è che ho sempre pensato che viaggiare fosse la prima cosa da fare appena possibile e nonostante il fatto che il mio viaggio del cuore si ostini ad essere il primo, fatto in solitaria, verso l’Inghilterra, quando mi trovai a pregare in ginocchio di essere ammessa ad un master per cui avrei dovuto pagare 9000 sterline e mi dissero di no perché il mio TOEFL aveva un punteggio di pochissimi centesimi inferiori a quanto richiesto. Nonostante questo sono rimasta pervicacemente anglofila e quel mese trascorso lì, trovandomi persino un assurdo piccolo lavoro in una zona pericolosissima di Londra, rimane una delle cose più avventurose e magnifiche della mia vita.

Una volta, alla radio, sentii dire ad una signora che aveva viaggiato il mondo col marito, da cui poi si era separata, che secondo lei viaggiare era stata una gravissima perdita di tempo e che ormai da molti anni non ne sentiva più il bisogno. Sosteneva che tutto quanto ci sia da sapere di popoli e luoghi lo si possa fare anche semplicemente studiando e cercando fonti alternative di conoscenza degli usi e costumi di altri popoli. Può bastare anche un documentario ben fatto. Per lei era molto più interessante la riflessione, il percorso interiore, l’ascolto di se stessi come metro principale di
coscienza del mondo e di noi in esso. Credo che in fondo non avesse torto. Ma avere
ragione qualche volta può non essere sufficiente. Viaggiare risponde alla necessità di
“portarsi altrove” perché forse è nel tempo dilatato di un passaggio attraverso lo spazio che si stabiliscono nuove coordinate interiori. O forse si capisce davvero quanto sia inutile
farlo soltanto dopo che lo si è fatto molto. Non lo so, me lo chiedo tutte le volte che credo di voler fare un viaggio, o anche una semplice vacanza, e una parte di me si ripete “ma chi me lo fa fare? Sto così bene a casa mia, in mezzo alle mie cose sempre uguali che non mi danno mai problemi. Che male c’è a starsene in questa pace in fondo?”. Non me lo fa fare nessuno ed è vero che starmene a casa mi piace sempre di più. Mentre scrivo questa cosa qui sta passando un pezzo di Levante. Ad un certo punto dice che è un “grave smarrimento rimanere fermi”. Ecco, lo sapevo. Tutte le volte che assecondo i miei “ma sì, basta così, lasciamo perdere e stiamocene tranquilli” succede sempre qualcosa che mi dice che non è ancora il momento di fare quello che penso  e che ho davvero tanta voglia di vedere l'Islanda. E che ci devo andare. E che infatti ci andrò

lunedì 21 ottobre 2019

Equilibri(sm)o psicologico

Credo che funzionerà sempre così. Che io funzionerò sempre così. Fino alla fine dei miei giorni mi barcamenerò tra l’adesione fideistica alla disciplina, intesa come metodo e continuità perseguiti con una pervicacia ottusa, e un comportamento così “sbrodolone” da farmi pensare che solo un pietoso angelo custode riesca salvarmi dalle trappole dell’esistenza per consentirmi di sopravvivere a me stessa. A corollario di tutto questo c’è l’idea che questo sia il solo modo sensato per me di stare al mondo. E finché cocciutaggine e provvidenza saranno dalla mia parte io vado avanti così.

Sto usando i miei ultimi giorni di ferie dell’anno per sistemare un po’ di cose di ordine pratico, provare a riposare un po’ e recuperare qualche film che non avrei scelto se avessi avuto meno tempo a disposizione. Ieri mi sono imbattuta in un documentario sul metodo terapeutico di Jodorowsky: un connubio tra psicoanalisi e pratiche rituali estremamente ardite (tipo fare un dipinto col sangue del mestruo, farsi sotterrare simulando il proprio funerale, aiutare un balbuziente a guarire vestendolo da marinaretto per poi tenerlo a battesimo come adulto virile cospargendolo di vernice dorata e sangue, far camminare camminare una coppia in crisi in strada con delle catene per dimostrare che una relazione è ormai arrivata al capolinea...) che hanno ottenuto, sui pazienti intervistati, dei risultati a dir poco sorprendenti. La logica che anima questo percorso sta nell’idea che siamo noi a dover codificare l’inconscio e non il contrario e che la vera guarigione da un trauma debba passare attraverso una qualche forma di amore universale. Io sospendo ogni giudizio ma, comunque la si pensi, sforzarsi di sviluppare un pensiero laterale rimane una forma di apertura estremamente utile. Io resto “illuminista”, in realtà non credo neppure nel valore terapeutico della psicoanalisi perché non riconosco in questo il suo vero scopo. Ciò che si propone la “Psicomagia” di Jodorowsky, è quello di proporsi come un metodo, a metà tra la psicoanalisi, appunto, l’arte e pratiche rituali catartiche che coinvolgono il corpo e le sue risorse inespresse. Alla base di tutto c’è la convinzione che il lavoro sull’individuo sia solo una parte di un modello culturale basato sull’amore universale.
Sì...tutto molto bello...

Io non mi sono mai chiesta se sono o meno il prodotto di traumi di cui ho rimosso la natura e il ricordo o semplicemente il frutto di qualcosa di innato, se delle “strozzature” esistenziali mi hanno reso altro da ciò che avrei voluto o se mi è piaciuto diventare proprio così come sono. Forse non ho neppure voglia di saperlo e in fondo mi vado benino anche così come, probabilmente, “non” dovrei essere. Forse mi basta il malumore di un periodo che so che passerà e la mera accettazione di tutto quello che non posso controllare, mi bastano i miei meccanismi di autodifesa automatici, l’accettazione di una certa soglia di dolore, il rifiuto e la delusione come fatti della vita assieme alla convinzione che poi si trasformeranno in sensazioni sopportabili. A volte la faccio ancora più facile e mi dico che la vera terapia siano un po’ di sport praticato sempre (pare che i miei ormoni della felicità  arrivino solo così) e riuscire a non far caso ad un sacco di cose. Io ho risolto con la terapia della “disciplina sbrodolona”. Almeno fino a che la salute, e un angelo custode assai paziente, me lo lasceranno fare...




lunedì 14 ottobre 2019

Flusso di incoscienza per tornare a casa a piedi

Stasera ho un po’ più freddo del solito, ma qui in casa c’è un bel silenzio e io non ho molta voglia di lasciare questo divano per un letto che mi terrebbe sveglia ancora per troppo tempo. È stata una giornata un po’ faticosa ma nella quale mi sono ritagliata un tempo piuttosto lungo per camminare e lasciare che il pensiero accompagnasse i passi conservando la sua andatura autonoma, che nel mio caso significa saltellare tra le più svariate questioni senza una logica apparente. Se dovessi pensare ad uno stato di grazia direi che è più o meno questo: io che cammino con le cuffie mentre penso ai fatti miei e che mi rendo conto troppo tardi che durante il tragitto ho assunto ogni espressione possibile legata a ciascun pensiero.

Non c’è affanno, dilemma esistenziale, delusione, dubbio che non abbia risolto camminando quasi fino a sfinirmi. Credo che sia una questione collegata al respiro, ai muscoli coinvolti e al fatto che, essendo un movimento automatico, si possa pensare a tutt’altro. E questa cosa mi pare tanto più strana se penso che ormai si possa, apparentemente, fare tutto senza la necessità di spostarsi dal posto in cui si è: basta un comando vocale e possiamo sperare di essere esauditi anche perché la luce in casa si accenda da sola, cercare su internet e scrivere un articolo scientifico, sfogliare le proposte di incontro più affini per trovare l’amore di una sera o anche di tutta la vita. Ormai potremmo risolvere tutta la nostra vita standocene seduti  o sdraiati.

E invece io cammino tutte le volte che posso e penso a quando per scrivere la mia tesi mi toccava andare in giro per le biblioteche delle altre università e fare gli occhi dolci al bibliotecario per procurarmi dei dati che all’epoca erano più preziosi del Graal, ma che oggi troverei gratis su qualunque piattaforma. Cosa significa essere ricercatore oggi? Me lo chiedo pensando ancora a questo lavoro come ad un’attività sì intellettuale, ma anche profondamente fisica, fatta di spostamenti in altri luoghi fisici della conoscenza, confronti con altre persone che non possono ridursi a delle
video conferenze. Oppure la mia è una visione già troppo arcaica? Forse tutta questa informazione senza nessuno sforzo davvero ormai vanifica anni e anni di tentativi dal rendimento incerto...boh...

 Poi ho continuato a camminare e mi è tornato in mente un vecchio amico con cui andavo a cinema tutti i pomeriggi e che un bel giorno mi scrisse dicendomi che mi avrebbe bloccato su fb perché era troppo geloso dei like che mi mettevano gli altri e che io mettevo a loro. In quel momento credo di aver fatto l’espressione basita delle mucche che guardano i treni passare. Ora forse posso capire cosa intendesse, ma fb non ha la colpa per sentimenti che si provano, o che non si provano. E così ho continuato a camminare.
Ho ripensato al film che ho visto ieri. Ne avevo un po’ di timore perché è il seguito di “Un uomo, una donna”, uno dei miei amatissimi da sempre. Invece mi ha molto intenerito, così come mi inteneriscono i ricordi che affiorano mentre si coprono distanze che ne modificano la prospettiva a seconda del punto in cui vengono evocati . Credo di aver pensato proprio questo ad un certo punto
della mia strada verso casa, perché mi sono ricordata di quella volta che, esattamente in quello stesso punto, qualcuno che adoravo mi disse “mi dà fastidio quando parli bene degli altri” e la trovai una cosa dolcissima e buffa come solo la gelosia qualche volta sa essere.
Anche io sono stata molto gelosa, forse lo sono ancora, ma è una condizione che mi fa così soffrire che ho imparato a risolverla nella sola maniera possibile: quella di pensare che tutte le volte che la provo è solo perché mi sto concentrato su qualcuno che non potrà mai essere davvero mio e quello che non è mio non deve riguardarmi. Certe emozioni vanno razionalizzate e poi represse, altrimenti ci annientano.

Poi sono arrivata a casa, in cuffia passava il nuovo bel singolo di Brunori, quello che parla di amore
“al di là dell’amore” e mi è sembrato un tappeto molto indovinato. Ho tolto le cuffie, mi sono seduta
sul divano con l’ipad sulle gambe. E sono rimasta a girovagare per la rete fino a quando il sonno ha
segnato la vera meta della mia giornata. Perché davvero vale tutto. Perché davvero tutto vale.


martedì 8 ottobre 2019

Scelte di consumo obbligato

“C’è una cosa che mi piace fare più di tutto”. Per Moretti sarebbe andare in vespa d’estate attraversando le strade desertiche dei quartieri di Roma. Per me è la spesa al centro commerciale. Credo di averlo detto tante volte: mi piace fare attenzione alle proposte variegate dei prodotti che mi interessano e di cui mi prefiguro l’utilizzo una volta arrivata a casa. Questo detersivo funzionerà? E il suo profumo si sentirà così bene anche dopo che il bucato si sarà asciugato? Le uova bio hanno effettivamente tutto un altro sapore, che importanza ha se costano quasi il doppio..Io me lo ricordo quando non compravo l’insalata già lavata perché così confezionata perde tutte le vitamine e ora invece è l’unica occasione che mi concedo per mangiarla. Ho smesso di comprare i sottaceti perché una mia mica vegana mi ha detto che hanno troppa energia yin. O era quella Yang? Un paio di piatti pronti li includo sempre,  come pure i burger vagani da mettere direttamente nel microonde che tanto di momenti in cui torno a casa e non riesco ad alzare un dito comincio ad averne sempre di più. La tessera punti, la borsa riciclabile, la promoter che mi regala i quaderni a quadretti se compro i flauti al latte...ma si certo che me li compro. Sempre meglio della palla trasparente con il logo della simmethal che mi ha rifilato quest’estate. A me che non mangio carne. Se serve questo ad impedire che un rider mi porti il cibo con la sua bicicletta io lo faccio fino alla,fine.

Fare la spesa è una delle cose più rigeneranti che ci siano. Quando ho tempo a sufficienza mi soffermo ad osservare i carrelli degli altri e provo a capire quali siano i progetti di consumo dietro le loro scelte spesso così tanto diverse dalle mie. Provo a dedurre la composizione familiare, le tendenze ideologiche ed etiche, se si sta seguendo un regime dietetico particolare, se si tratta di un consumatore consapevole oppure si lascia sedurre dalle offerte rese speciali da un marketing sempre più abile nell’orientare le decisioni. Oppure se segue semplicemente una lista blindata da cui non sfora mai.
Credo che il centro commerciale sia un’osservatorio interessantissimo, un campione rappresentativo
molto efficace per capire come siamo e cosa stiamo per diventare.

Sono molti anni ormai che faccio una cosa qui a Milano che mi diverte molto: partecipo a dei focus group nell’ambito di ricerche di mercato, quelle grazie alle quali mio padre fa il pieno di benzina gratis con i buoni che ci danno per ringraziarci del servizio offerto all’aggiornamento e arricchimento del loro data base. Di solito si tratta di psicologi che fanno parlare per ore delle impressioni, reazioni o emozioni riguardo al prodotto di un futuro lancio, oppure fanno provare cibi, usare cosmetici, a volte applicano addirittura dei sensori sulla testa e sulle dita e controllano le tue reazioni in base agli impulsi che emani vedendo certi  video. Roba da far impallidire pure quelli di arancia meccanica. Una volta ho fatto persino un’esprienza di realtà virtuale: ho fatto cadere tutto da quei finti scaffali e mi sono spaventata  a morte. Assurdo.

Il marketing è una scienza estremamente affascinante, se si decide di stare al gioco e di capirne le
regole. Oppure pericolosissima se ne subisci le regole studiate con metodiche così collaudate che il rischio di fallire si approssima ormai allo zero per alcuni brand molto evoluti in merito.
Io non so mai cosa pensare davvero al riguardo: mi piace l’idea che si provino a conoscere meglio i miei gusti per poi propormi qualcosa che mi piaccia davvero. Dall’altro non potrò mai sapere senza ombra di dubbio se la loro offerta mi sta semplicemente condizionando nella scelta di qualcosa a cui, in mancanza, neppure penserei o di cui sentirei il bisogno. Però non è raro che mi piaccia stare al gioco, provare a capirne le regole, sapere di poter fare a meno di un sacco di cose proprio mentre penso che può essere altrettanto bello cedervi, che la Coop rimane una cosa diversa dall’Esselunga pure se vendono le stesse cose, che l’assortimento ampio è meglio della mancanza di varietà, che nei carrelli ci sono panieri di consumo estremamente variabili e diversificati. E che in fondo la democrazia è più  o meno una cosa come questa quando ti chiedono di spiegarla.

Oggi mi hanno fatto provare cinque yogurt vegetali diversi che vorrebbero proporre a breve. Me ne
sono piaciuti due. Sono proprio curiosa di sapere in che modo terranno conto del mio parere rispetto a quelli di tutti quei carrelli così (troppo) diversi dal mio