Sola andata

Sola andata

lunedì 30 novembre 2015

"un altro giorno è andato"

Era un po' complesso, pure poco lineare, a tratti oscuro. Però c'ho trovato dentro un paio di risposte chiare, altre di varia interpretazione e una storia basata su una intuizione molto interessante.

Oggi ho visto "La felicità è un sistema complesso", film di Zanasi di cui avevo apprezzato pure il precedente "Non pensarci" con lo stesso duo Mastandrea/Battiston.
In breve, è la storia di un tagliatore di teste della categoria capi d'azienda, di quelli poco inclini all'attività imprenditoriale perché figli di papà cresciuti senza aver mai costruito nulla e per questo resi fragili da un benessere senza struttura. Sono, in quanto tali individui pericolosi per il corretto funzionamento del mercato. Questa l'apparente motivazione "etica" dell'esproprio aziendale.
In realtà  lo scopo sarà solo quello di continuare a "drogare"il mercato pilotando gli acquisti di colossi rimasti senza padrone. Ma nel sistema capitalistico, si sa, "non è mai colpa di nessuno"  se poi si perdono posti di lavoro, se si delocalizza, si perdono quote di mercato e i padiglioni chiudono.
A fare da contrappunto a questa progressiva e generalizzata perdita dell'innocenza ammantata di necessità ci sono i giovani, che a vario titolo tentano di conservare o raggiungere equilibri nuovi, provando a combattere, a resistere o a ripartire...
Mi è sembrato un film basato su una ottima idea e interpretato da due attori su cui non si discute manco per niente. Notevolissima la colonna sonora di un gruppo indie, con meritata fama crescente, denominato "I cani"

Poi sono andata a sentirmi la "Erre arrotata" del mio venerabile maestro Guccini. Ci stavo io e un campione rappresentativo di tutte le fasce di età possibili. Tutti quanti conoscevamo a memoria le canzoni che andavano durante l'attesa. Una platea così variegata non mi è capitato di vederla mai per nessuno. Ma non per questo mi ha stupito. Per me Guccini appartiene al patrimonio "ovvio" di ciascuno. .
Lui dice di se' che è pigro, che passa la vita nel paesello emiliano dove vive, che certe volte fa degli incontri con le scolaresche e rimane imbarazzato quando gli chiedono pareri sul fenomeno dell'alcolismo. Dice che non vule cantare più e che non ascolta più la musica, dice che l'America gli piaceva tanto e poi un giorno ha deciso che non ci sarebbe ritornato mai più.
Vive quasi come un anonimo pensionato di provincia. Eppure a momenti la Feltrinelli sprofondava nella metro Wagner per quanto era incontenibile quella folla che stava là da ore, in piedi, ad aspettare solo lui.
Pure io stavo là ad aspettare da ore solo lui. Lui e la sua erre arrotata. Mille volte grazie di aver cantato tutto quello che avrei voluto sentire da te.

sabato 28 novembre 2015

Adesso piace anche a me

Io ero alberista. In una ipotetica contrapposizione emotiva, coniata tanti anni fa da De Crescenzo, i fanatici del Natale si dividevano in presepisti e alberisti. A me piaceva l'albero. Da piccola mi avvolgevo nei fili d'angelo luccicosi, mi incantavo per ore in quella montagna di palline colorate, costruivo ogni tipo di ammennicoli di qualsiasi materiale e di forgia pur di arricchire quello che ai miei occhi era un gigantesco albero, che campeggiava nel salotto, e che anno dopo anno diventava sempre più piccolo...non mi ero vista crescere e per tanto tempo ho pensato che il passare del tempo coincidesse con un mondo che si rimpiccioliva...

Del presepe non ho mai avuto una particolare fascinazione. All'inizio in casa mia c'era solo una capanna, piccola e abbastanza spoglia, ci stava solo la famiglia, il bue e l'asinello e tre pecore. Niente scorci di Betlemme e neanche un pastorello. I Magi si vedevano solo alla fine e nel frattempo io cercavo di "personalizzare" quel soprammobile temporaneo con le sorpresine della Kinder...ma la mia fantasia non si accendeva lo stesso. Io sono napoletana e questa cosa è atipica e grave...ma a me " o' presepio nun me piace". Così rispondevo pure io, che ho mangiato Natale e casa Cupiello per almeno una volta all'anno, per ogni Natale trascorso in famiglia che la mia memoria ricordi.

Quando con i miei sono andata ad abitare in una casa più grande, la coreografia natalizia è stata completamente rivoluzionata: mio padre ha cominciato a fare investimenti ingentissimi in lucine da esterno e da interno, ha collezionato centinaia di pastori rappresentativi di tutti i mestieri possibili, ha comprato montagne, laghetti, grotte di lusso, greggi. E poi bambinelli su bambinelli da distribuire in ogni stanza, strenne....mi si creda, una cosa inaudita.

Da qualche anno a questa parte lo studio di mio padre ospita l'"istallazione" di un presepe immerso
nella "metropoli" di Betlemme dove nulla è lasciato al caso e mille lucine fisse e intermittenti animano quell'agglomerato magnifico sapientemente esposto davanti alla finestra perché tutti i passanti possano ammirare.
Io non ho ancora capito le ragioni di questa crescente ossessione da parte dei miei genitori, che si dividono i compiti della manutenzione con competenza da professionisti e la dedizione di una missione , che ci soffrono tantissimo quando il risultato estetico non è quello cercato. No, io proprio proprio non li capisco...

Però ieri è morto il figlio di Eduardo. Ieri è morto il figlio di un gigante del teatro al quale mi inginocchio idealmente ogni istante della mia vita, perché quel poco di napoletanita' che riesco a portarmi dentro e di cui vado fiera la devo a lui.

 Ieri è morto un grandissimo attore, che con gli anni si faceva sempre più simile al padre, e così ho
pensato che l'ha fatto apposta.
 Questa volta sono sicura che ha voluto fare in tempo per dirgli che sì, adesso  il presepe gli piace. Gli piace assai.
E cosi solo adesso l'ho capito quanto piace assai pure a me.

mercoledì 25 novembre 2015

Non è mai troppo presto

Quando l'erba diventa croccante. La mia definizione di inverno coincide con il verificarsi di questo fenomeno qua. Come ho già raccontato qualche volta io esco di casa che è ancora buio,spesso una una luna enorme, con soltanto del caffè e un miliardo di integratori nello stomaco, percorro un "pellegrinaggio" di quarantadue minuti verso il lavoro e timbro più o meno alle 7:30. Solo allora faccio colazione. Sono del tutto eccezionali i casi nei quali mi impongo di arrivare tardi e godermi una lunga colazione a casa.
 C'è un piccolo tratto di questo mi percorso abituale che è fatto di erba e quando si ghiaccia io mi diverto a camminarci sopra come se fossi sopra dei biscotti di pasta frolla. Per me l'inverno è solo quella roba lì ed è solo da quel momento che mi rendo davvero conto che tutto il tragitto è in realtà completamente cambiato: dagli alberi sempre più simili a scheletri che inveiscono contro il cielo, all'aria gelida che intontisce le narici, all'atmosfera rarefatta dai vapori di consistenze diverse che produciamo noi passanti, la terra, le auto...

Quando arrivo al lavoro sono già abbastanza desta, mi sono riscaldata per il lungo cammino e sono già al secondo radio giornale.

Sono anni che seguo questo rituale con la pedanteria di un monaco benedettino, eppure lo spirito con cui affronto quella parte della giornata è la cosa più lontana dalla ripetitività alienante che possa immaginare: ci metto dentro la concentrazione di tutta l'energia che mi servirà per la giornata, ci stanno le aspettative, la smania di sapere come andrà, ci sta il ricordare quello che è successo il giorno prima e pure il fare i conti con quello che purtroppo non è successo, ci sta il pranzo preparato la sera prima, ci sta la radio. Ci sta la sintesi della mia fatica quotidiana passata e da venire.

Chi fa sport di resistenza forse certe cose le capisce, perché è un errore pensare che ci si stanchi per la monotonia dell'azione. Chi fa sport di resistenza con successo in realtà vede in quella ripetitività una sequenza infinita di sensazioni diverse sulle quali concentrarsi di volta in volta lungo il percorso. È una cosa che gli altri non possono vedere ma la verità è che la vera spinta a resistere sta tutta in quella intima percezione di mutamento continuo nella monotonia apparente dell'azione.

Io le mie mattine le vivo felicemente così da anni e mi piacerebbe continuare così per l'eternità. Perché lo so che potrei fare pure in un altra maniera: per esempio prendere il 66 sotto casa e arrivare al lavoro in 11 minuti, potrei così svegliarmi un'ora e mezza più tardi, rinunciare alla fatica di prepararmi il pranzo e andare a mangiare dai cinesi come fanno gli altri.

Così non calpesterei più l'erba croccante e non potrei accorgermi che è arrivato l'inverno.
Che cosa orribile.


lunedì 23 novembre 2015

La lista

Quest'anno prometto che la faccio. Sono anni e anni che credo di fare la simpatica ripetendo che i buoni propositi dell'anno nuovo sono gli stessi di tutti gli altri che lo hanno preceduto, che tanto non ne porterò a compimento neppure uno, che ormai sono talmente ingabbiata nei miei schemi rassicuranti che forse le svolte della vita io non le ho mai volute veramente.

Però alla fine al trappolone del bilancio di fine anno ci caschiamo un po' tutti, come se davvero il flusso dell'esistenza fosse scandito dai capodanni, dalle stagioni, dai diplomi, dai passaggi di carriera...e non invece da quanto quello che ci capita in modo più o meno casuale e nei momenti più imprevedibili della vita abbia contribuito a renderci solidi, consapevoli e saggi.

Se dovessi fare un bilancio di quest'anno al netto della mia vita non esiterei a dire che l'ho trovato abbastanza terribile. Non ne elenco le ragioni ma sono pronta a raccogliere ogni realistica smentita. La morte di Pino Daniele è stata profetica per un anno nero e non a metà.

Se invece dovessi tirare le somme della mia piccola esistenza di quest'ultimo anno penserei che in fondo poteva andarmi peggio, dati il contesto e le oggettive condizioni ostili alla realizzazione di sogni e utopie. Non mi è successo niente di particolare, ma neppure nulla di drammatico, non sono felice ma neppure troppo infelice, non ho trovato l'amore, ma neppure nessuno mi ha lasciato. Non è colpa dell'anno che sta passando se il mio percorso segue certe traiettorie piuttosto che altre. Ho imparato ad essere più indulgente con me stessa e con gli altri e già per questo dovrei dirmi soddisfatta.
La verità è che ho sempre pensato di essere più fortunata che capace, per cui tutto quello che di buono o di non negativo mi capita io lo considero un dono piuttosto che un merito. E questo spesso è un alibi formidabile per prediligere il "lasciar perdere" piuttosto che la sfida attiva.

Ecco perché quest'anno io la voglio fare.
Quest'anno farò una lunga lista di buoni propositi con la ferma intenzione di realizzarli tutti dal primo all'ultimo. Sceglierò con la massima cura tutto quello per cui vale la pena impegnare un tempo stabilito ed escluderò tutto quello che non troverò funzionale ai miei scopi, mi darò degli obiettivi intermedi per molto monitorare i risultati e non lascerò nulla al caso, non mi lascerò tentare dalle contingenze e non perderò l'entusiasmo e la determinazione per massimizzare i risultati. Perché non bisogna rilassarsi mai se si vuole raggiungere le vette. Bisogna rimanere concentrati. Sempre.

Farò così. Farò proprio così...appena mi verranno in mente dei buoni propositi degni di tanto inumano sacrificio.
Scherzo...quest'anno davvero me le segno quattro cose per diventare "una splendida quarantenne". Accetto suggerimenti e buona sorte.






domenica 22 novembre 2015

Un cibo sano (nel senso di intero)

Io ci sono cresciuta. Coi bastoncini della Findus io c'ho fatto infanzia, adolescenza, post adolescenza fino alla parentesi vegetariana di ben otto anni. Se dovessi pensare al mio cibo feticcio penserei a questo. Perché si fa presto a dire Nutella, ma quella mica è proprio cibo, quella riguarda il peccato, il premio, il piacere svincolato dall'idea di nutrimento.

Capitan Findus era il nonno in più  venuto dal mare, che ti prendeva  sulle ginocchia per garantirti che saresti diventato tutto quello che volevi se avessi mangiato del buon pesce. Filetti di merluzzo in croccante panatura. Quanta perfezione in una combinazione così semplice! La sintesi perfetta tra il beneficio di un pesciolino magro e senza spine, con il godimento di una goduriosa pastella croccante e unta quanto basta per un fritto "lecito". Ad un certo punto, a furia di mangiarne, avevo sviluppato uno stratagemma: separavo il pesce dalla panatura, così isolavo il piacere assoluto dalla necessità. Partivo mangiando tutto il pesce, quasi come se fosse un compito da assolvere per poi premiarmi con tutto quel peccaminoso involucro fatto col peggio che la dietetica sana possa suggerire. Nella fase salutista invece mi imposi lo stesso approccio "separatorio" ma mangiavo solo il pesce "nudo", privandomi della parte golosa perché all'epoca maturai la stolta idea che il piacere del cibo fosse la colpa più grave di cui ci si potesse macchiare. Per fortuna non durò a lungo, ma prese posto la lunga fase "etica" durante la quale mi proibii qualunque essere cucinato. Dopo otto anni uno dei miei primi ritorni di "fiamma" furono proprio i bastoncini.
Ma i tempi ormai erano cambiati. Capitan Findus non era più quel rassicurante vecchietto che mi aiutava a crescere forte e sana, ma un fascinoso uomo di mare che mi parlava di omega tre e di possibilità di cottura al forno senza grassi né olio...

Io sono diventata grande così, più o meno mangiando sempre le stesse cose provando solo ad interpretarle in maniera un po' diversa. Credo che la stessa cosa mi sia capitata con altri tipi di sapori e di gusti. Il genere rimane più o meno sempre quello per musica, libri, film, uomini...provo a darmi suggestioni nuove e diverse. Ma siamo quello che siamo...oltre che quello che mangiamo, tutto quello che possiamo fare è controllare un po' il metabolismo con qualche esercizio nuovo.

 A capitan Findus è andata piuttosto bene. Era così vecchio quando io ero piccola e ora è un aitante uomo di mezza età che non parla solo ai bambini.
Chissà se è merito del pesce o della panatura :D

venerdì 20 novembre 2015

ce l'ho sulla punta dei capelli...

Dovevo scegliere. E farlo in fretta. In questo periodo posso uscire dal lavoro molto presto, perché entro sempre alle 7:30 e ho accumulato un sacco di ore di credito. È tutto calcolato, la seconda metà del mese per me è una specie di part time dove investire su quello che mi pare. Amen.

Ci stava da scegliere tra il duo Rubini-Bentivoglio con "Dobbiamo parlare" e il mio fioretto strano con i capelli. Il fioretto consiste nel non accorciare i capelli almeno fino ai miei primi 40 anni. Devono crescere per i prossimi nove mesi, ma in questo momento hanno un serio bisogno delle mani molto sapienti di qualcuno che sappia indicarne una strada, un percorso, un orientamento.
Non ho mai avuto capelli lunghissimi, ho sempre ceduto alla tentazione di lavorarci sopra con tagli più o meno arditi, spesso pentendomi. Quando ho compiuto 30 anni li ho rasati a zero io stessa con un taglia capelli comprato apposta per l'occasione. Ci sono foto che testimoniano il fatto e quando mi ricapita di rivedermi, penso che in certi periodi della mia vita sono stata la persona più assurda con cui abbia mai avuto a che fare...
Credo  che sia sostanzialmente molto vera quella storia che quando una donna cambia radicalmente taglio di capelli è perché sta attraversando una fase cruciale della sua vita: un cambiamento, una perdita, una delusione o anche una fase di rinascita. Ora che ci penso, direi che per me sia andata così, potrei scandire i miei tagli "netti" e drastici con fasi della vita assimilabili alle stesse tranciate.

D'altro canto pure decidere di avere la pazienza di non tagliare i capelli direi che sia assimilabile ad un tentativo di cambiamento radicale, magari lento, però inesorabile, convinto e ponderato. Voglio avere i capelli lunghi. È un'intenzione alimentata da uno spirito diametralmente opposto al taglio netto, include una storia che ci si porta dietro con fiducia, pazienza e ostinazione. Che richiede una cura costante, fatta di balsami, impacchi, lunghe spazzolate e neppure un momento di ripensamento. I capelli lunghi sono un progetto, una visione di lungo termine.

I quarant'anni mi sembrano un'età molto adatta per portare un bel taglio scalato, morbido, che raggiunga almeno le spalle, che assecondi i mutamenti anche con un semplice elastico o una treccia, che faccia concentrare di meno l'attenzione su un viso che comincia a perdere colpi... Sono capelli per chi ha imparato che la comodità di un taglio corto spesso fa i conti con possibilità limitate di scelta, che spazzolare a lungo i capelli lunghi è una terapia di rilassamento unica al mondo, che correre con il codino che va di qua e di là è una delle cose più simpaticamente sexy che ci siano al mondo...

Tutto questo per dire che oggi pomeriggio, di fronte alla scelta tra cinema e parrucchiere ho scelto il cinema perché ho avuto paura che il parrucchiere non capisse quanto poco mi deve tagliare i miei futuri capelli lunghi.
( però domani ci vado...)

mercoledì 18 novembre 2015

Per appassionati cinefili (che col nord Europa non si scherza...)

Certe cose si prevedono facilmente. È difficile che uno si sbagli. Se sto per andare a vedere un film islandese lo so che non riderò, che con ogni probabilità non ci troverò manco la colonna sonora, che i dialoghi saranno pressoché inesistenti, che la trama tratterà tematiche di cui buona parte del mondo non ritrova neppure nella narrativa più surreale.
Se uno parte con queste premesse poi è probabile che farà due cose:
1) affronta stoicamente il progetto cinema introspettivo, sperando di non essere in carenza di sonno
2) prova a lasciarsi sorprendere. Si entra disarmati, con la certezza di dormire, e si spera che tra quei silenzi accada dell'altro.
Oggi ho visto Rams, un film islandese. Ci sono andata con un amico cinefilissimo in questo pomeriggio un po' freddino dopo una giornata di lavoro piuttosto breve e molto solitaria perche erano tutti all'assemblea sindacale (io non ci vado mai).
Il paesaggio è quello tipico di un paese nordeuropeo dominato da spazi sterminati di una natura gelata, pochissime case, silenzi, isolamento.
La storia è quella di due fratelli che non si parlano da quarant'anni pur essendo dirimpettai. Quando è strettamente necessario si inviano dei "pizzini" spediti tramite il cane. Sono due bravissimi allevatori di pecore di una razza che è in estinzione. Le pecore si ammalano e la comunità decide di abbatterle tutte. Sfidando tutto e tutti uno dei fratelli vuole impedire l'annientamento delle sue pecore e con degli stratagemmi tenta di nasconderle e nel frattempo prova a farle rispodurre. Sarà tutto molto complicato, perché l'ostilità del clima impedisce fughe e spostamenti anche minimi. Più volte entrambi i fratelli rischiano il congelamento. Ma proprio in questa condizione estrema i due fratelli si ritroveranno.

Ecco. Questa la trama, che io continuo a trovare surreale e assurda pur nella sua verosimiglianza. Quando il film è finito nessuno se ne è accorto subito, eppure quella scena finale non poteva che essere la scena ultima. Al mio amico il film è piaciuto. A me ha spiazzato ma a tratti l'ho trovato
dolcemente poetico. In fondo è la storia di un legame inevitabile, come è inevitabile quello tra fratelli.
È la storia di una passione unica e cocciuta per l'unico lavoro che si è svolto per tutta la vita. E poi ci sta l'impossibilità della resa, della lotta per salvare i propri spazi di vita, quelli che sembrano tanto piccoli pure in luoghi tanto sterminati.
Io ho fatto un po' di fatica, però sono uscita contenta lo stesso, pensando che un buon film non deve necessariamente essere bello dall'inizio alla fine.
Può esserlo anche soltanto nei punti giusti. 

lunedì 16 novembre 2015

Risparmio e investimento. Un approccio eterodosso a falce e carrello

L'ho fatto apposta. Volevo offenderlo intenzionalmente. Ero in attesa da più di mezz'ora per aggiornare il libretto del prestito sociale della coop, una tradizione di famiglia che ho avviato io da quando sono maggiorenne. La coop è una delle mie certezze esistenziali da sempre. Mia madre mi mandava a fare la spesa piccola da quando facevo le elementari. Credo che sia stato allora che ho sviluppato una mai sopita passione per tutti i gadget presenti nei fustini del detersivo, le raccolte punti, i 3X2, per le promoter...la coop è stata la mia prima occasione di discernernimento tra ciò che è necessario e ciò che è invece superfluo. Una volta sono pure svenuta sul bancale dello zucchero. Mi risvegliai nel magazzino con le cassiere che mi accudivano con le brioches appena sfornate dalla panetteria. Mi era venuta la varicella.

Appena mi laureai feci carte false per provare ad andare a lavorarci. Sostenni una lunga selezione per un master, la superai e rimasi in coop per due anni. Volevo assolutamente sapere come funzionasse davvero il mondo della cooperazione. Quando lo capii, non esitai a licenziarmi. Ma alla coop, come fosse una specie di innesto nel mio dna, non ho rinunciato mai, perlomeno per una spesa minima mensile. Neppure adesso, che penso che l'Esselunga sia incomparabilmente superiore in quanto a politiche marketing, personale eccellente, prezzi...non ci sta proprio partita, mi costa dirlo ma ne sono assolutamente certa.

E così stasera, che avevo capito che quello davanti a me era un dipendente coop "in borghese", irritata da tanta attesa ho cominciato a dire che no, proprio non ci siamo, che l'Esselunga è tutta un'altra storia, che è financo più affascinante. Ho letto negli occhi di quel signore, stanco come me da una fila mal gestita, una specie di dolore e di personale offesa. Mi ha detto "addirittura più affascinante. Ma la qualità dei prodotti, la tracciabilita, il messaggio etico dietro ogni singola etichetta...e poi i prodotti di
libera...".

Io alla coop non smetterò mai di andarci, le voglio bene come si vuol bene quando il legame si è stabilito con l'ostinazione ottusa di chi non vuole ammettere l'errore, pure quando sta là davanti a dirti che è evidente che si trova molto di meglio.

Alla coop vado a metterci i miei risparmi. Pure se mi tocca una fila lenta, un servizio macchinoso e antiquato. Ma è un risparmio sicuro, etico, che mi evoca tutta una storia romantica di lotte, di piccoli affetti familiari, di nonni che raccontano storie di fatica e di ricostruzione grazie ai consorzi, del mio primo accredito di stipendio.
 All Esselunga vado a investire in beni voluttuari, e in quanto tali pure necessari, alla ricerca di quel senso di appagamento immediato, presente, che si consuma presto e che non guarda che a un futuro
breve quanto la capacità di un frigo di medie dimensioni di una persona che vive sola.


Una  mente contorta può fare un sacco di cose. Per esempio creare benessere eliminando la concorrenza  ;)
(Perdonate. Se potete)

venerdì 13 novembre 2015

È così perché è così (sotto la soglia. Sopra no)

Ci sta una legge di teoria economica che dice così:"un paese è povero perché è povero" che pare una "tautologia", come dicono quelli che non vogliono dire la parola fesseria, ma in realtà è il risultato di una mesta considerazione sulla difficoltà di un paese povero di affrancarsi dalla povertà. In pratica esisterebbe una soglia, calcolata secondo criteri riconducibili alle caratteristiche del paese in questione, superata la quale la produzione è tale da favorire il processo di crescita economica. Se questa soglia non viene superata, pure se il paese produce rimane povero per sempre. È come se uno mangia delle cose, ma poi per digerire brucia più calorie di quelle che ha mangiato (... praticamente un mio sogno ricorrente...ma sto fuorviando il ragionamento). D'altra parte se senti i discorsi di un economista iper liberista non è raro sentirgli dire "se sei povero è colpa tua", poiché alla base della loro visione del mondo il mercato offre pari opportunità a tutti quelli che scelgono di coglierle con il lavoro e ogni altra risorsa a disposizione (chissà la storia degli ultimi 2000 anni da chi è stata scritta per smentire questo assunto magnifico?...).

Pensavo a queste cose,di cui non saprei dire molto altro, mentre ascoltavo il podcast di una trasmissione molto divertente di un giornalista di cui amo il lessico e il modo trasversale di trattare i fatti. Ad un certo punto lui sosteneva che due persone che al terzo appuntamento da soli non si sono dati un bacio è sicuro che non accadrà mai più. Secondo lui c'è una soglia di tensione reciproca, di freno degli entusiasmi e del desiderio, che bisogna superare in quel tempo esatto altrimenti si trasforma in un rapporto "autoimmune" che produce amicizia e non passione. Direi che è un' ipotesi piuttosto convincente e nella quale mi riconosco abbastanza. Mi viene da dire a questo punto con un'analogia  mica troppo forzata  che "una donna è single perché è single",  perché proprio non ce la fa ad uscire da quella coltre spessa di isolamento "funzionale" alla sua condizione di single, al massimo "produce" incontri sbagliati che distraggono risorse per realizzare quelli giusti. E a quel punto se lo merita tutto il detto "se sei single è colpa tua"...

Ma poi, a vedere bene, pure quando sai dove sta il punto di salvezza, mica è detto che ti salvi veramente. Tanto per dire, alla fine sono stati così bravi a stabilire esattamente dove cade la soglia della povertà che poi non si capisce perché esista ancora. Forse pure là c'entra qualcosa l'appuntamento tra ricchi e poveri e un bacio mai dato.
 E così ho pensato, per mia sicurezza, che la prossima volta che uscirò con uno che mi piace, col cavolo che aspetterò fino al terzo appuntamento per superare la soglia...








mercoledì 11 novembre 2015

Il cuore batte...ma il cervello vince

Non me lo ricordo cosa gli dissi per fargli pensare quella cosa. Si chiacchierava amabilmente con un amico passeggiando per via Caracciolo, credo una decina di anni fa. E a un certo punto mi dice: "ma stai innamorata?". Con la stessa rapidità del mio stupore a quella domanda a bruciapelo gli rispondo: "mio caro A. Io sto sempre innamorata".

Era la verità. A parte in questo ultimissimo periodo della mia vita, nel quale purtroppo non ho proprio nessuno nel cuore, non mi ricordo mai una volta in cui non abbia avuto qualcuno nella testa e/o non abbia detto o fatto delle piccole follie in nome di questo stato di grazia.
Se proprio ci penso bene, mi chiedo come sia stato possibile per me sbrigare tutti gli obblighi di una vita che chiama al risultato, mentre ero ossessionata dagli uomini della mia vita. Notti insonni, tachicardie, nasi all'insù come una povera inebetita, incubi da gelosia più o meno motivata...una vita di cui sento la mancanza, ma forse ci sto guadagnando in tanta salute.

Non si è mai trattato di ossessioni passeggere, ma di chiodi fissi durati anni e anni: tutte le volte ho pensato che non me lo sarei scordato mai più, che non avrei mai trovato la maniera di uscirne...e invece ne esco. Sempre. Per fortuna. Ma molto spesso è stato per entrare in un altro "amabile" tunnel...no, non credo che si tratti di superficiale variabilità di sentimenti. Ho sempre avuto una fede granitica in ciò che provavo. È che poi apri gli occhi e vedi che sei solo tu ad aver provato tutto questo e a quei livelli così alti. E quella perdita d'incanto improvvisa vale come uno schiaffo a cinque ditate, prima di essere la cura definitiva.

Però che bello ricordare certe cose così buffe oggi e tanto strappacuore allora. Una volta scrissi una lettera struggente a uno che non avrei rivisto mai più, giurandogli che avrei pensato a lui per ogni istante di tutta la mia vita. Naturalmente non è stato così, però io all'epoca non stavo mentendo. Che tenerissimo paradosso...
A un altro ho voluto bene per tutte le estati che sono andata al mare in Puglia. Lui no, ma era talmente compiaciuto di questo che compro' casa esattamente accanto alla mia...per portarci tutte le sue fidanzate. Credo di aver fatto vendere quella casa principalmente per questo motivo. Ma che gente c'è al mondo? E per quale motivo mi è potuta piacere così tanto!?!?

Con gli anni il cuore ha cominciato a battere sempre meno, nel tempo e nel ritmo. Forse ha cominciato a dividersi i compiti con la testa. Ma non saprei dire chi alla fine ci abbia davvero guadagnato. Di chiodi fissi non ne ho più, di affetti profondi meno che mai, ancora qualche clamorosa cantonata da cui ho provato ad imparare qualcosa...ma nulla di più di qualche gratuita mortificazione.
Ho imparato che l'amore non corrisposto è in fondo una maniera comoda di evitare una deludente controprova, che l'idealizzazione è pericolosa assai, che chi non ti corrisponde non è colpevole... ma forse qualcosa di molto bello se la sta perdendo pure lui ;)

Se adesso reincontrassi il mio amico sono sicurissima che gli chiederei cosa gli dissi quella volta per fargli pensare che "stavo innamorata". Ma sono quasi certa che, guardandomi oggi, non potrebbe  mai e poi mai ricordarsene





martedì 10 novembre 2015

Libertà di scelta altrui

Il bello di certe ricerche che trovano divulgazione in ambiti, specializzati in dibattiti sterili, sta nel suscitare meccanismi di facile adattamento alla propria esperienza. Provo a dirla meglio. È uscita questa cosa che i genitori non devono forzare i figli nella scelta degli studi e in generale nella costruzione del loro futuro. In linea di principio è un risultato piuttosto scontato e per nulla controintuitivo. Una tipica scoperta dell'ombrello. Poi però di fatto esce che il 48 %  degli studenti universitari stanno seguendo corsi di laurea decisi dai genitori. In realtà non saprei quanto ci sia davvero da rammaricarsi di un dato simile...visto che la probabilità di rimanere disoccupati rimane alta in ogni caso. Però vuoi mettere un disoccupato che ha seguito la propria strada rispetto a uno che non l'ha seguita? Sulla strada ci sono finiti entrambi eppure pare che ci siano delle differenze sostanziali( trova le differenze allora).

Io sono stata un po' condizionata, ma non esattamente forzata. Volevo fare scienze della comunicazione e mio padre disse no. Allora ho fatto economia. Io la battezzai "democrazia, ma in-parte-ci-pativa". L'inizio fu davvero drammatico e uno dei primi esami non so quante volte l'ho ripetuto, ma poi quel fantastico prof. ( che mai persi di vista fino alla laurea e poi al dottorato) mi fece capire come si affrontavano certi argomenti, mi diede trenta e lode e cominciai a muovere i primi passo su quella strada non propriamente mia ma che provai a percorrere come meglio potevo.

Imparai a premiarmi per ogni esame andato bene. Mi ricordo che al mio sesto esame, microeconomia, il più difficile di tutto il percorso, mi ripromisi che se avessi avuto trenta mi sarei fatta accompagnare al congresso di rifondazione a sentire Bertinotti a piazza del popolo. Arrivò il sudatissimo trenta E mio padre, che ha sempre votato a destra, mi ci accompagnò. Sono cose.
 Un'altra volta mi capitò di preparare un esame con un collega. Studiammo fino a tardi, ma la nostra preparazione era obiettivamente vacillante. Ad un certo punto lui mi fa: "no, Lucia. Siamo troppo impreparati, io domani l'esame non lo sostengo". E io :" È vero, non sappiamo quasi niente. Ma io mi presento lo stesso. Me la tento". A quell'esame non solo ebbi trenta e lode, ma addirittura quel potentissimo prof. che all'epoca era il preside (e poi è diventato pure rettore) mi chiese se avessi già scelto il relatore con cui fare la tesi, altrimenti avrebbe avuto piacere di avermi come sua tesista. Ancora oggi stento a credere che sia accaduto, ma giuro che è andata esattamente così. Potrei continuare all'infinito con questa aneddotica studentesca che solo adesso trovo così dolce nel ricordo ( ma che all'epoca mi ha procurato non pochi esaurimenti), come credo che potrebbe chiunque abbia vissuto gli anni della formazione con pathos e partecipazione. Alla fine non è stata così tragica. È passata come passa tutto, ha inciso moltissimo sul mio carattere, la mia visione del mondo, il mio approccio alla risoluzione dei problemi. Si, economia non faceva per me, ma alla fine mi ha dato molto ugualmente.

Probabilmente quella ricerca sulla libera scelta del percorso di formazione apre un vaso di Pandora sull'importanza di ciascuno di provare ad azzeccare da solo la strada per diventare quello per cui esattamente si è nati per essere. E banalmente è ragionevole pretendere che nessuno possa decidere per noi. Però quando questo per prepotenza, disattenzione o fatalità non accade io sono sicura rimanga sempre intatta la possibilità di scoprire se stessi pure nel posto più sbagliato o nei modi più bislacchi.
A proposito. Il babbo al congresso di rifondazione si divertì più di me. ( cvd)

domenica 8 novembre 2015

Dai presagi di una vita in cammino per "scoprire" le distanze

Sono tantissimi anni che non possiedo un'auto e quasi altrettanti che non guido più. Non mi è mai piaciuto molto, però riconosco che quando ero nelle Marche sarebbe stato impossibile per me riuscire a lavorare e muovermi in quella regione dove tutto era splendido ma i trasporti pubblici erano praticamente inesistenti. Una paio di volte ho avuto persino il coraggio di tornarmene da sola e di notte a Napoli con quella specie di lattina di coca cola che avevo dove manco l'auto radio era contemplato.

Ad Ascoli abitavo di fronte ad un gommista. Ero da lui spessissimo perché  foravo sempre. Ad un certo punto non volle più che lo pagassi tanto era intenerito dal mio modo maldestro di strusciare tutti i marciapiedi, e quando un giorno andai a salutarlo, visto che io mi era licenziata e me ne sarei tornata a casa, lui mi regalò il crick, perché si era accorto che non lo avevo. Quel giorno mi rivelò che, siccome io lasciavo sempre la macchina aperta, mi aveva fatto anche altri controlli più approfonditi e si era accorto che appunto mi mancava. Certa umanità la trova sempre la maniera di stupirmi.

Una volta ebbi pure un incidente. Ero nel parcheggio dell'ipercoop di Napoli. La fiancata dell'altra auto era completamente sfondata. Mi spaventai così tanto che appena scesi dalla macchina chiesi scusa alla giovane donna che guidava e mi addossai tutta la colpa, pur non riuscendo a capire come avessi fatto a fare quel disastro alla velocità così bassa che mantenevo. Soltanto quando un motociclista mi inseguì sulla via del ritorno per spiegarmi che aveva visto tutto, che avevo ragione io e che quell'auto era già da prima ridotta così, mi resi conto di quanto fossi poco padrona del mio mezzo pure quando lo usavo bene. Alla fine fu la donna con l'auto ammaccata da chissà chi a risarcire me. L'ho sempre detto che tengo un angelo custode di prima categoria :)

Poi una mattina dissi ai miei che sarei vissuta senza auto, che sicuramente ci doveva stare una maniera di fare senza pur non limitando la piena libertà di spostamento. A Milano questa cosa è del tutto naturale, anzi non capisco perché così tanti milanesi si ostinino ad usare un mezzo tanto inefficiente in una città come questa. Proprio non capisco.

Oggi sono andata in centro a piedi. Sono otto kilometri. Ho attraversato tutta la città con le cuffie, ci
stava il sole, un sacco di gente che correva e portava a spasso il cane, ci stavano due che si baciavano tanto bene a largo marinai d'Italia, ci stavano gli artisti di strada e la mia pressione bassa che ringraziava. Ho camminato per un'ora e mezza. Con la macchina avrei impiegato
dieci minuti. Sarebbero stati tutti del tempo perso.

venerdì 6 novembre 2015

"Quello che mi manca è la mancanza"

Quando penso al più alleniamo dei film di Allen, che secondo me è Manhattan, la prima sequenza che mi viene in mente è la sua super citata lista delle cose per cui vale la pena di vivere. Uno dei punti in cui mi riconosco in pieno è il cinema svedese, che però per me ha un solo nome: Ingmar Bergman. Fino all'altro ieri pensavo che non mi mancasse niente di suo nella mia videoteca: ho persino certe sue opere minori, che forse erano talmente minori che non solo non sono doppiate in italiano, ma mancano pure dei sottotitoli per buona parte dei dialoghi. Garantisco che è un'esperienza davvero "densa", anche per chi lo ama molto, stare due ore a vedere dei frequenti piani sequenza di volti angosciati che parlano una lingua "aliena". Ho persino dei documentari che lo ritraggono in scene di vita quotidiana piuttosto insignificanti, altri che sono delle raccolte di interviste delle sue numerosissime donne. Insomma, per un periodo della mia vita, ho veramente delirato per quel cineasta così geniale, ma francamente così cupo ma che di più cupo ci sta solo il vecchio testamento...

L'altro ieri, mentre sono in Feltrinelli tutta rilassata e non predisposta ai traumi, scopro un film di Bergman che non possiedo. Non l'ho ancora comprato, ne ho visti troppi per non sapere quale stadio depressivo dovrei essere disposta ad accogliere nel vederlo, ma essendo io una completista non credo che resisterò a lungo. Avrò anche quello. Devo solo provare a fare i conti con uno stato d'animo di cui amavo compiacermi un po' di anni fa e che adesso invece farei fatica pure a rievocare.

Mentre ci pensavo ho cominciato ad immaginare anche io la mia lista delle cose per cui vale la pena di vivere, provando a capire quali di quelle sarei capace di ritenere indispensabili per tutta la vita e non solo per certe fasi passeggere o peculiari. Ma non ne sono capace. mi vengono in mente solo cose stupide, ammesso che sia stupida la pastiera napoletana, Camden Town la mattina presto, quelli de ruggito del coniglio, Calvino, un cappuccino fatto bene, un cinema in cui nessuno respira...

No, non sono pronta per una lista seria che mi sveli il segreto del buon vivere con una scala di priorità, rigorosa, razionale ed essenziale. Noi completisti siamo così. Ci piace avere tutta la serie, quella che di solito include sia la paccottiglia che le perle, quella che mischia in ordine sparso le cose che non ci servono e quelle che ci
portano dove dobbiamo andare.
Ho ancora bisogno di tutto per trovare quel pochissimo che mi è necessario.

Ed è per questo che se entro domani non avrò tra le mani quel film di Bergman che ancora mi manca nulla potrà più avere un senso per me.




mercoledì 4 novembre 2015

Stammi vicino (di casa)


La piccola casa in cui abito sta al piano rialzato e all'interno di un cortile di un condominio a due piani. Il quartiere, per quanto popolare, conserva una certa grazia e una sua identità per nulla scontata in un'area periferica di una città come questa. E poi proprio qua, di fronte a me, ci sta il Monzino, considerato uno dei maggiori ospedali di cardiologia di tutta Europa. Un centro di eccellenza che ha contribuito di molto a riqualificare un quartiere problematico come questo. Io qua ci sto proprio bene, baratterei questa zona solo con Brera o con la zona di via Tortona (ma cosa ti dico mai? Dove altro si potrebbe desiderare di vivere qui a Milano?).

Accanto al mio appartamento ci sta una casa identica alla mia e che è disabitata già da prima che io arrivassi qui. È stata espropriata e l'anno scorso è stata messa all'asta. Nessuno si è presentato per l'acquisto e così la prossima vendita che si terrà sarà con proposta in busta chiusa. Tutti mi hanno detto di comprarla, che ormai potrei averla ad un prezzo minimo, che ne verrebbe una bella casa di dimensione finalmente normale. Per un periodo ci ho seriamente pensato e l'idea mi stuzzicava molto, ma poi non facevo altro che chiedermi cosa ne avrei fatto di quello spazio in più. Niente, giusto una sala per gli attrezzi per allenarmi, ma alla fine mi arrangio anche ora spostando un po' il tavolo. Però forse la ragione vera per cui non voglio comprarla è un'altra. E io lo so che è quella e solo quella che mi fa deviare da ogni altra ragionevole ipotesi.

Una volta mi capitò di leggere delle cose sulla biografia di Frida Kahlo che riguardavano il suo tormentatissimo rapporto con Diego Rivera, il pittore che ha sposato per ben due volte, quello che le ha fatto tutte le corna possibili, che l'ha umiliata in tutte le maniere immaginabili, ma che alla fine non è mai stato capace di lasciarla perdere neppure nei momenti più terribili della sua malattia. Gli ultimi anni che i due passarono assieme furono in due case confinanti ma unite da un piccolo ponte.
Lei raccontava che la convivenza era divenuta ormai impossibile, ma stare lontani lo era altrettanto.
Quella fu la soluzione definitiva al dilemma. Mi ricordo che trovai geniale questo artificio di "indissolubile-legame-sciolto" e pensai che probabilmente il segreto della perfetta vita di coppia sta tutto in questa cosa qui. Stare vicinissimi ma non sotto lo stesso tetto.

E così, tutte le volte che mi affaccio dalla mia finestra e che mi ritrovo davanti quelle tapparelle chiuse ormai da troppo tempo, penso a quanto sarebbe fantastico se ci fosse - non dico un ponte di raccordo (a meno di una ressa condominiale)- ma almeno un filo, del tipo di quelli per stendere il bucato. Mi immagino il mio Diego Rivera (ma auspicabilmente qualcuno un po' più gentile...che ne abbiamo fin su i capelli dei Rivera...)  che mi augura il buon giorno proprio da quella finestra, o che mi chiama per fare colazione assieme, per uscire assieme, e infine per darci appuntamento su come condividere la vita senza farsi "ingorgo"negli spazi reciproci. Io così me lo immagino il mio vicino. Di casa. E poi di tutto il resto.

lunedì 2 novembre 2015

Cose a cui penso quando penso a Pasolini

Confesso che prima dei quindici o sedici anni manco sapevo chi fosse Pasolini. Però mi ricordo perfettamente il momento in cui l'ho scoperto, il turbamento che mi procurò quel frammento di film che vidi all'interno di un programma della Rai tre di Guglielmi (Italiani brava gente). Era uno spezzone della "Ricotta" il più famoso dei racconti del film "a più mani" intitolato ro.go.pa.g.
Rimasi sconcertata. Anche quando poi vidi altre sue opere, anche più crude e impattanti, la "ricotta" è la prima cosa a cui penso quando si parla di Pasolini.

 La seconda cosa a cui penso è un fumetto di Davide Toffolo che racconta dello scrittore/regista/poeta/giornalista come in un sogno in cui gioca a rimpiattino con la realtà biografica. Splendido.

La terza cosa che mi ricordo è una certa aneddotica molto curiosa e apparentemente stridente con la figura di intellettuale così lucido e padrone della realtà. Mi ricordo ad esempio di una intervista alla Maraini in cui lei raccontava che Pasolini non aveva nessunissima abilità pratica. Non era capace neppure di accedere il gas per cucinare e così quando era in viaggio con lui, bisognava pensare di dover provvedere ad una specie di bambino. In un altro racconto, non ricordo bene di chi, seppi che quando il suo attore feticcio ( a cui era legato anche per altro) Ninetto Davoli lo chiamò per dirgli che voleva sposarsi perché si era innamorato di una donna, Pasolini - che era in un albergo - cominciò a spaccare tutto, a urlare e a dare di matto. I suoi collaboratori misero a tacere il fatto pagando tutti i danni.

Ecco, lo so, è una specie di oltraggio ricordare uno dei massimi intellettuali del novecento con questi
episodi privi di ogni spessore rappresentativo. Avrei potuto almeno sottolineare il fatto che qualunque passaggio televisivo, qualunque recupero delle sue interviste su you tube, qualunque suo articolo mi sia capitato a tiro...abbia sempre fagocitato la mia totale attenzione e ammirazione, per il mirabile uso della parola e per il valore tristemente profetico che hanno sortito gran parte delle sue considerazioni...avrei potuto dire tutt'altro per onorare la sua memoria. Ma chi sono io per farlo? Io, che l'ho scoperto per caso, quasi da adulta e con la frammentarietà della "didattica"televisiva, durante lo zapping casuale e annoiato di una sonnacchiosa domenica pomeriggio. Forse addirittura dopo la pubblicità di un dentifricio. Niente, mi volevo solo scusare, pure a nome della pessima scuola che ho frequentato e nella quale non ho mai sentito pronunciare il suo nome.

 "La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza"(P.p.p)
 #grazie

domenica 1 novembre 2015

Va bene. Ma meglio senza

Che poi secondo me la cosa che faccio davvero fatica ad accettare sta tutta lì. Sta tutta nella percezione che in fondo mi faccio star bene tutto. Devo stare a Milano? Va bene. Torno in vacanza a casa mia? Va bene. Faccio un viaggio in India? Va bene. Ne faccio un altro in America? Va bene. Rimango un anno senza lavoro? Va bene. Trovo un lavoro? Va bene. Mi piace qualcuno? Va bene. Non mi piace più? Va bene.

Vista così, la mia vita parrebbe non avere mai torto. Mi faccio stare bene tutto e spesso mi illudo che questo sia l'unico antidoto che mi viene concesso contro l'inquietudine. E in buona sostanza è proprio così.
Sono tornata a Milano da tre giorni dopo un bel periodo di riposo a casa, dopo un paio di cose a cui volevo pensare in tutta calma, dopo uno strano sentimento di ingiustizia nella necessità del rientro al Nord.
Ora sono qui, con le mie cose che faccio solo qui, che mi procurano altri tipi di benessere e che ammortizzano le mancanze oggettive di uno sradicamento.
E va bene. Giuro che la frustrazione reale che ho provato alla partenza da Napoli è stata completamente riassorbita, come se fosse più doloroso il pensiero della partenza della partenza stessa...sento di essere un mostro, ma la mia emotività pare difendersi così.

Un po' di tempo fa mi capitò di raccontare di una conduttrice radiofonica che seguo sempre e che mi piace tantissimo. Aveva finalmente trovato il vero amore e sembrava molto serena. Da un paio di mesi intuisco che è profondamente infelice come un paio di anni fa. Non lo dice espressamente, ma io conosco troppo bene quel senso profondo di amarezza sentimentale per non essere certa che pure quest'uomo l'ha delusa. Non ci sta niente da fare, alcune di noi si devono rassegnare al fatto che non ne sono capaci, a prescindere da bellezza, sensibilità, intelligenza, simpatia, dedizione...noi l'uomo giusto proprio non siamo in grado di intercettarlo. Ci mancano proprio le antennine. Troviamo solo quelli che ci usano, ci tradiscono o nella migliore delle ipotesi ci illudono...
Va bene...no, non va bene. Ma va così. E forse se non può andare in altro modo è un male insistere, continuare ad aspettare, crederci, illudersi...
Credo che in fondo sia un grande privilegio arrivare a questa età e smettere di investire così tanto di se' per chi non si è ancora presentato.
Se anche dovesse arrivare adesso, io gli dirò: "mi dispiace, ma ormai è tardi. Dov'eri quando ti aspettavo ed ero giovane, piena di progetti a due e di cose da fare assieme. In un uomo la puntualità è la prima cosa. Ora non puoi più farmi felice. Puoi anche andare".

E così ho pensato che mi piacerebbe tanto incontrare quella familiare voce radiofonica, magari a piazza gae aulenti dove la vidi una mattina e la salutai come una sciocca, senza pensare che lei invece non mi conosceva. Vorrei stare seduta con lei davanti a quelle belle fontane che sgorgano dal pavimento e chiacchierare per ore per farmi raccontare quanto davvero fosse speciale quell'uomo che all'improvviso la fa stare così male. E provare poi a capire se davvero nel pacchetto dei "va bene" è giusto incastrarci pure tutto quel dolore inutile.
O se magari "va bene", anzi meglio, pure senza.