Sola andata

Sola andata

giovedì 30 gennaio 2020

Mi “fisso” sempre col cambiamento

Qualche volta farei bene a star zitta. Non mi succede mai di offendere o di inveire contro qualcuno con cui sono in disaccordo: appartengo alla categoria di coloro che credono poco al valore chiarificatore della discussione o di un litigo e così appena avverto disarmonie o potenziali conflitti fingo di assecondare, di sottomettermi, lascio cadere la discussione, mi zittisco, non cedo alla provocazione, mi ritraggo. Non è sempre stato così ma ho capito presto che l’orgoglio e gli atteggiamenti stizziti sono sterili anche nella vittoria. Non ci si comprende mai davvero quando le posizioni sono discordanti: il compromesso è una labilissima e ipocrita forma di adesione al patto sociale. E poi io rappresento il prodotto perfettamente riuscito di una educazione repressiva e farmi valere con gli strumenti della persuasione è una pratica che conosco poco e male...ma garantisco che anche noi “non combattenti” possiamo ugualmente “non perdere”.
Eppure capita che qualche volta le situazioni mi appaiano più chiare del solito, anche nei risvolti futuri che avranno, e mi dispiace così tanto che forse poi la dico male.
- Ti sei incattivita
- No è che le cose cambiano. Io non ho più voglia di esserci sempre, per tutto, come da sempre mi tocca fare
- Ma sei l’unica che avrei preso come esempio per quella maniera stupenda che hai di essere moglie, mardre, amica, figlia...sei sempre tutta giusta. Non puoi cambiare pure tu come tutte le persone normali che ad un certo punto decidono che la priorità sono loro stesse e che anzi adesso presentano il conto di tutto quello che hanno fatto prima. No, tu no. Tu sei bella e dolce. Non puoi permetterti di essere qualcos’altro!

No,  non le ho detto tutto questo. Solo che è più cattiva. Però il resto l’ho pensato con rammarico. Ricordo che quattro anni fa un mio post fu tutto scritto per parlare di lei e di come costituisse un modello inarrivabile per me sotto ogni aspetto. Con gli anni ne ho scoperto anche i lati più fragili,
certe spigolositá in fondo del tutto comprensibili, ma ho sempre conservato l’idea che fosse più brava di tutte noi altre ad interpretare bene l’amore che rimane uguale a se stesso anche nei giorni che consumano tutto con famelica superficialità. E invece si è stancata anche lei. È arrivato anche per lei il tempo  delle ripicche, delle reazioni indispettite, della necessità di riappropriarsi di uno spazio tutto privato. Forse fa più male a me che dall’esterno assisto ad un cambiamento in fondo persino  fisiologico.
Dovrei occuparmi solo di cose che mi riguardano direttamente e ammettere che notare un cambiamento non significhi necessariamente che riesca a coglierne la vera natura o gli stati d’animo che lo hanno provocato. Però che peccato davvero assistere ad un amore che si trasforma, faccio fatica persino io che con tutti i film che sto vedendo sulla parabola discendente di tutti i legami moderni dovrei essere pronta anche al verificarsi di certe derive. E invece proprio non mi va giù.

Gennaio non è ancora finito e io m porto addosso una stanchezza di cui non conosco le vere ragioni.
Certe volte penso che potrebbe essermi utile fare un breve percorso di analisi. Non sto male e in realtà neppure ho mai pensato che andare a raccontare a qualcuno i fatti miei, per farmi dire cose che con ogni probabilità già so di me, non abbia un reale valore terapeutico. Ci andrei con uno spirito diverso, fatto di curiosità piuttosto che di inquietudine. Poi però abbandono sempre l’idea e mi faccio bastare il tempo che posso dedicare a qualche pagina di un buon libro o, meglio ancora un buon film che mi mostra di quante ipotesi più o meno realizzate il mondo sia composto.

Da un po’ di giorni ho scurito i capelli e ancora non mi ci sono abituata. Non credo che mi piacciano molto. Però resisto, perché qualche volta gioco a non riconoscermi per provare che il mio cambiamento è sempre il frutto di una scelta rimediabile mentre la parte fondamentale di quello che ho deciso di essere rimane cocciutamente ancorata a ciò che è, a dispetto di ogni variazione.

A volte il tempo sembra passare solo per darci torto, altre pare fermo al punto da non rendere
percepibile nessun cambiamento. Altre ancora è come se volesse soltanto suggerirci di usarlo proprio perché una convinzione profonda si conservi tale per sempre.
Io nel frattempo mi sono annotata tutto. Una buona analisi potrebbe in fondo partire proprio da questo






venerdì 24 gennaio 2020

A mali estremi la media rimedia

In fondo può essere anche una fortuna. O in un certo senso un differente orizzonte di possibilità su cui puntare. Io non credo di appartenere a nessuna statistica media dei fenomeni più significativi per la lettura del contemporaneo. Non mi trovo a combattere con la precarietà (o perlomeno non in questo preciso momento), con affitti o mutui da pagare e non sono una madre perennemente in biblico tra esigenza di autodeterminazione e bisogno di accudimento e preservazione degli affetti. Non mi ritrovo neppure a gestire le nuove forme di incomunicabilità della vita di coppia. E poi non sono una capitalista che vive di rendita o ambirebbe a farlo e neppure una donna in carriera rampante e competitiva, non sono alla ricerca di consenso constante o di nuovi amici. Vivo nella periferia per scelta e non per costrizione, amo la mia solitudine e i miei silenzi e però adoro altrettanto le persone che scelgo e che stimo. Sono un cosiddetto outlier, un valore che si discosta così tanto dalla media da generare uno scostamento che può risultare difficile interpretare. Per la statistica sono una specie di piccolo guaio nella lettura dei fenomeni aggregati. Per me stessa invece sono un espediente “esistenziale” piuttosto divertente. Ci pensavo giusto oggi, dopo un film che mi è proprio tanto piaciuto. “Figli” è per lo più una divertente ma molto efficace analisi della “famiglia media” in un contesto che di medio non conserva più nulla, se tale si definisce un certo ordine sociale nel quale risulta relativamente semplice contare su una sufficiente rete di relazioni per andare avanti senza troppo sforzo o tensioni.

Non ho mai pensato di sposarmi. Meno che meno che avrei avuto dei figli. È proprio l’idea di formare una famiglia che mi è sempre stata estranea. Non saprei dirne tutte le ragioni. Qualcuna sì, ma credo che ci siano questioni più profonde che non ho mai osato maneggiare. Potrei partire dal fatto che delle famiglie mi interessa solo la coppia e che mai una volta mi è capitato di trovarne una che con gli anni mi paresse più bella degli inizi.
Fino a qualche anno fa provavo a chiedermi come avrei voluto che fosse un eventuale figlio partorito proprio da me, o meglio, se lo avrei amato pure se fosse stato malato, brutto, antipatico, problematico, fascista...la risposta è sempre stata no. Era questo il mio modo per garantirmi che non merito di essere genitore.
La crisi economica del 2008 mi ha portato un lavoro pubblico a tempo indeterminato, e da allora ancora non mi è chiara la retorica della nostalgia delle radici o del valore superiore degli anziani come maestri di vita (sono loro quelli a cui devo continuamente ribadire di spegnere il cellulare al cinema e che non sanno, o non vogliono, fare bene la differenziata), non credo neppure nel valore supremo nella tradizione: secondo me è soltanto un veleno lento che uccide e mortifica l’evoluzione e il progresso e sono convinta che questo paese sia fermo proprio grazie a chi continua a ripeterlo in pensieri, parole, opere e omissioni...è fermo perché la famiglia non funziona e ci si ostina a formarla secondo un modello limitante e arcaico che agevola solo l’incomprensione e la reciproca distanza.

Pare che ci siamo dati appuntamento. Su “propaganda live” c’è Mastandrea che fa il monologo dei
primi minuti del film. Si parla di capitalismo, e pure di agenzia delle entrate. Essì è un film proprio da vedere. Anche da qualcuno come me, che non c’entro niente con quel mondo raccontato così, per libera scelta o forse per necessità di fatto, ma in fondo cosa cambia? È questione che non mi procura nessuna angoscia e allora c’è qualcosa di non sbagliato di sicuro.
“Ognuno vive la crisi a modo proprio” dice adesso Valerio.. Io la vivo amando così come sogno da sempre di fare e senza davvero esserci (ancora) riuscita.
Forse non è un caso neppure il fatto che proprio adesso mi sono ricordata di una cosa che disse Remo Remotti in un‘intervista allegra e scanzonata poco prima di morire. Diceva che la capacità di amare si acquisisce davvero solo dopo i cinquant’anni, quando si è vissuto abbastanza per conoscere, accettare e poi finalmente amare tutto, pure l’orrore. Soltanto dopo si riconosce anche il cuore da corrispondere. Non ho mai più scordato questa cosa.
E da allora mi dico sempre che forse per me è semplicemente troppo presto. In realtà la media statistica è lì, proprio lì visibile persino dal mio orizzonte, che aspetta anche me. In qualche modo aspetta anche me.


domenica 19 gennaio 2020

Lo stretto e il necessario

Ho ripreso a fare spazio. Butto, regalo, metto in valigia per la casa d’origine. Vorrei riuscire a circondarmi soltanto dell’essenziale: il servizio buono, i vestiti più belli, le scarpe più comode, i libri più amati, il rossetto più luminoso, le candele più profumate. Vorrei che questa casa avesse la stessa concezione della stanza di un albergo di lusso: solo cose di cui posso godere in pieno e totale assenza di quello che è sì bello e utile, ma non abbastanza bello e utile.
Quando decidi questo la prima cosa di cui ti rendi conto è che non è per nulla un’operazione semplice: io spesso mi confondo tra i miei “affetti tangibili” e nell’associazione tra ricordi, funzione d’uso, fascinazione dell’oggetto mi illudo che possa risultarmi indispensabile, ma di fatto non è così. Non riesco a farmi trovare pronta per un distacco liberatorio. Di quante zavorre siamo composti? Quanto è grande certe volte il bisogno di tenerci ancorati a terra con pesi che ci impediscono di fluttuare liberamente col pensiero e le azioni solo per un umanissimo bisogno di certezze e di schemi sempre uguali?

Poco più di un anno fa mi è capitato di vedere un bellissimo documentario sulla vita di Ingmar Bergman, che assieme a Moretti è in assoluto uno di quelli che mi dettano la linea da sempre. Si raccontava, tra l’altro, una cosa che mi colpì molto e cioè che in realtà tutto quel carico di dolore, di visione tendenzialmente apocalittica e malinconica dell’esistenza non erano dovuti ad una vita difficile o infelice. Io avevo sempre pensato che la figura paterna così autoritaria e terrorizzante lo avesse condizionato tanto da alimentarne la visione cupa. E invece no: pare che suo padre fosse stato così severo soltanto con il suo fratello maggiore e che tutta la sua ispirazione fosse il frutto di esperienze altrui e di intuizioni non elaborate da un vissuto personale. Mi sembrò molto strano, ma in fondo non lo è affatto: l’artista può anche semplicemente limitarsi ad osservare il mondo con la sensibilità che
gli è propria ed elaborarlo con gli strumenti che maneggia meglio. Lui non ha bisogno del peso
dell’esperienza diretta per poter toccare le corde più profonde, ed essenziali, della condizione umana.
Oggi non mi sarei di certo messa a pensare a questo fatto se non avessi deciso di fare spazio pure nella mia videoteca e se non mi fosse capitato tra le mani “Sinfonia d’autunno”, uno di quei film di Bergman che ho fatto di tutto per dimenticare per quanto mi pare un furto della mia vita. Quando ci penso mi vengono i brividi. Forse è per questo che un bel giorno di tantissimo tempo fa lo avevo messo nell’angolo estremo più buio dello scaffale, coperto da tutti i ninnoli inutili e lontano dai film che mi sono piaciuti di più come “Persona” e “Un mondo di marionette”. Ma non è servito. Mi sono ritrovata quel dvd tra le mani senza rendermene conto, proprio mentre riemergeva dalle bomboniere inutili, forse a ricordarmi che ciò che rientra tra le cose essenziali è quello di cui non potrò mai liberarmi veramente, che in qualche modo troverà la maniera di capitarmi tra le mani. E nel mio “albergo interiore”. È inutile illudermi di fare spazio liberandomi dell’essenziale.
Quel film rimane uno dei miei pugni al cuore, la montagna troppo alta da scalare, la sceneggiatura che sono riuscita a cambiare soltanto in parte, il finale che vorrei cambiare ma non si può.
Poi ho rimesso a posto la mia “Sinfonia d’autunno”. Stavolta accanto ai film che mi piacciono di più. E poi ho pensato che potrei rivederlo di nuovo. Dopo tanti anni. E magari scoprire che si nasconde lì tutto lo spazio che ancora mi serve




giovedì 16 gennaio 2020

I passi indietro che faccio bene solo da ferma

Non lo faccio quasi mai. Tranne ieri, e in pochissime altre occasioni. Di solito quando scrivo su questo diario pubblico per me è assodato ammettere che qualcuno possa potenzialmente venire a sapere che cosa io pensi e poi sperare che ne capisca davvero il senso, che si identifichi in parte o del tutto con ciò che racconto o intuisco. O anche per nulla. Ma ieri avevo scritto una cosa un po’ autoreferenziale su quale cuoca eccellente di me stessa sono diventata, grazie alla mia parmigiana ultralight, che ha raggiunto delle vette di prelibatezza tali che non ha nulla più da invidiare a quella bisunta. E dopo mi sono ritrovata a raccontare pure di quando ero piccola e andavo sempre in chiesa e che una volta da un balcone uno che mi vedeva sempre andarci assieme a mia madre mandò la sua di madre da mia nonna per chiedermi in moglie. Tutto vero. Succedeva negli anni ‘90 nell’entroterra “difficile” di una provincia del profondo sud. Ho impiegato un sacco di tempo a scrivere quel post e altrettanto a sforzarmi di non provare alcuna malinconia per un periodo della vita che avrei voluto avesse altre forme e colori. L’ho riletto tante volte, mi sono chiesta perché cucinare bene sia così importante anche per me che in realtà ho sempre paura di diventare grassa e di mangiare troppo, e poi  avrei voluto sapere perché a quel tempo andavo a messa tutte le domeniche mattina alle 7:30 anche se non sono mai stata credente e facevo una fatica incredibile a ripetere quel rituale domenicale. Mi sono sentita a disagio per tutto questo. Poi oggi ho forse capito qualcosa in più .

Oggi Amadeus ha detto una cosa tremendamente infelice sulle donne di certi uomini a cui è pubblicamente riconosciuto un valore. Ha detto che devono stare un passo indietro. In mezzo al popolo degli indignati per quella dichiarazione, tanto più grave in quanto pronunciata con la più naturale leggerezza, c’ero anche io. Ma mica saprei dire davvero il perché. In realtà anche a me verrebbe normale fare proprio così. Lo so benissimo, ed è proprio questo che mi spaventa più di tutto della mia maniera assurda di concepire i rapporti d’amore in cui la dimensione dell’io viene completamente annullata. Potrei cominciare parlando di certi “amori immaginari” che mi creo così
spesso tutte le volte che voglio fare le cose in quel modo che solo da innamorata sono capace di fare. Tanto per dirne una: se voglio cucinare bene ho bisogno di pensare di farlo per una persona precisa. Altrimenti il piatto non riesce. Non mi è sufficiente pensare di appagare un mio personalissimo bisogno di piacere gastronomico perché così è certo che il piatto non verrà bene. Mi viene naturale stare un passo indietro rispetto a chi amo, persino se non lo sa o non esiste davvero. O forse solo in questi casi. Chi lo sa. So solo che quando esco a correre, o scelgo un film da vedere o un libro da leggere mi chiedo sempre se a lui piacerebbe o che penserebbe se...
Ci sono stati periodi interi della mia vita in cui ho immaginato persino con piacere di vivere in funzione di qualcuno come se fossi stata la sua geisha, una che non si metterebbe mai in competizione e che asseconda soltanto il suo volere. Quando me ne rendo conto provo sempre un enorme dispiacere, per me, per la mia condanna ai rapporti effimeri o solo” immaginari”, per la mia incapacità di darmi altri parametri interiori di comportamento affettivo...Ma è così: sbagliato e insostenibile come sono certi rapporti incapaci di reggere tutta questa responsabilità per un tempo indefinito.
Ieri  mi raccontavo di essere diventata la miglior cuoca (di me stessa) che potessi immaginare.
E questo nonostante nulla di quanto avessi preparato fosse stato fatto per me. Non ho fatto passi indietro, non ero una geisha. Eppure ho mangiato divinamente.


giovedì 9 gennaio 2020

Giudizio “compreso”

Dovrei ripetermelo molto più spesso di quanto già provo a fare. La prima legge dell’antropologia dice “comprendere senza giudicare”, ma io non sono molto brava in questo. Io giudico quasi sempre sia me stessa (e ci mancherebbe altro) che gli altri. Senza snobismo o aprioristico disprezzo, ma lo faccio. E in fondo non credo sia concettualmente sbagliato quando una “sentenza” si proponga come la sintesi elaborata di una quantità e qualità sufficiente di dati. Però forse dovrei imparare ad astenermi comunque e preferire un metodo basato sullo sforzo costante di comprensione svincolata da qualsiasi giudizio. Ecco, se dovessi darmi un obiettivo per i miei nuovi anni, da questo e per tutti quelli che mi auguro, vorrei che fosse questo: “comprendere senza giudicare”

Ho cominciato questo anno zero degli anni ‘20 correndo per un’ora in un’alba ghiacciata nella quale all’improvviso un sole gigantesco spuntava da una nebbia fittissima. Mentre mi scaldavo gradualmente man mano che mi sfinivo, lasciavo che i pensieri fluissero. Mi è tornata in mente una cosa assurda che avevo fatto tanto tempo fa, precisamente l’ultimo giorno prima di venire a stare a Milano per sempre: volevo incontrare “per caso” una persona che non vedevo da più di tre anni e che avevo adorato per tantissimo tempo senza alcuna pretesa che ci fosse nulla tra di noi, perché era giusto così. No, all’epoca non lo trovavo giusto, ma oggi invece sì. Avevo bisogno di consacrare un definitivo distacco attraverso quell’ultimo incontro. Così fu: lo incontrai “per caso” col presupposto che ne avrei ricevuto un saluto al massimo un po’ stupito, ma nulla di più. E invece per tutti i minuti che chiacchierammo gli tremava la voce così tanto che non riuscì a controllarla fino alla fine della conversazione. Fu soltanto allora che mi resi conto quanto poco avessi capito fino ad allora del mio rapporto così strano, assurdo e struggente con quella figura così imponente e fondamentale per la mia vita di quel periodo. Quanto tempo avevo impiegato per comprendere davvero. E quanto tempo è passato da allora senza che io abbia davvero scordato né ritrovato nulla anche di solo vagamente simile a quella roba lì.

Qualche volta uso questo blog con finta ingenuità. Faccio così: fingo di non sapere che quello che scrivo potrebbe essere letto anche dai diretti interessati. E così pur non facendo nomi racconto della questione e dico la mia. Ho fatto così qualche anno fa per un collega terrificante che per fortuna si è trasferito: il giorno dopo tutto l’ufficio e il diretto interessato sapevano che cosa avevo detto e cosa pensavo di lui. E io non mi pentii mai di quella formula comodissima di litigio unilaterale in cui in fondo la voce è stata soltanto la mia. Ho aspettato che i fatti mi dessero ragione e che fosse lui a rivolgermi la parola e a cercare chiarimenti. Quella volta ho capito che si può anche giudicare, se poi è solo in questo modo che si può anche comprendere meglio. E poi quanto mi sono divertita. Ho replicato altre volte questo giochino di finta ingenuità. Ha funzionato sempre. Ma la maggior parte delle volte racconto di persone che adoro, di esperienze che mi segnano, di cosa posso fare per imparare ad amare tutto.

In questo momento sono sulle scale del cinema Anteo: ho preso il mio primo giorno di permesso dell’anno per sbrigare delle commissioni e per vedere il film di Gianni Amelio. Mi sono allenata pure stamattina all’alba e ad un certo punto ho pensato di morire assiderata. Ho fatto la spesa all’Esselunga e ho comprato i peanuts al Wasabi, che non so neppure cosa diavolo siano ma c’erano i punti fragola, e poi tra poco lascerò piena libertà di taglio alle forbici del mio parrucchiere. Chi penserebbe mai che una così sia pure capace di adottare delle “raffinate” strategie di calcolo per incontrare qualcuno “per caso” o per vendicarsi di colleghi orribili. Eppure...
“Comprendere senza giudicare”, chissà, un giorno potrei farlo funzionare persino su me stessa



venerdì 3 gennaio 2020

In teoria va tutto bene. In pratica (forse) ancora meglio

- No guarda, tu proprio non mi freghi...
- In che senso, scusa...
- Tu mi chiami solo quando non sai che dire ma hai tanta voglia di farlo lo stesso
- Seee...ma figurati. Avevo voglia di confrontarmi con te. Sono giorni che ci penso e mi chiedevo cosa potresti dirmi tu. Ecco, per esempio, tu che pensi dell’esperienza che si fa dopo una certa età, in quella fase in cui ormai hai della vita vissuta alle spalle ed elaborato un po’ di questioni che hanno contribuito a formare un tuo definito modo di pensare. Pensi che sia ancora così utile il “fare esperienza” piuttosto che limitarsi a pensare e riflettere, leggere (che poi è un modo di fare propria un’esperienza altrui), ascoltare le storie degli altri, insomma dare priorità alla teoria piuttosto che alla pratica? Eh? Tu che pensi?
- Mah...prima di provare a risponderti devo capire se la tua non sia la solita maniera un po’ astuta di dirmi che non hai più voglia di far nulla, che stai considerando come assodato il tuo percorso e non ne vuoi sapere mezza di sperimentare cose nuove. Lo sai benissimo che questo, tu ed io, lo chiamiamo invecchiare. Ce lo siamo già detto una marea di volte mi pare. Poi ti lamenti che ti tratto male...per forza, periodicamente mi tiri pipponi assurdi solo perché vuoi fare la nichilista di ‘sta...scusami, sono pur sempre una signora...
- No, credimi ci penso da un sacco di tempo. Io credo da sempre nel valore superiore della teoria rispetto alla pratica, perché non è “sporcata” dall’imprecisione del caso...e del caos. In teoria tutto sta in piedi, è coerente, fisso, stabile. Almeno fino a quando una teoria più robusta non la rinneghi, ma fino ad allora non ci sono prove contrarie e  tutta la verità è contenuta in quello schema preciso, rigoroso e coerente. Il mondo, in teoria, non ammette vuoti e anomalie. È perfetto e bellissimo.. L’esperienza invece è limitata, spesso fornisce un’ottica sbagliata. E poi cambia il proprio tenore a seconda di chi la sta facendo. L'esperienza rimane la sorellina rachitica della conoscenza. Non ti
pare?
- No. Non mi pare. Che intenzione hai, comprendere il senso di tutto il resto della tua vita standotene seduta a farti spiegare come va il mondo, e te stessa da un libro o da un film?
- Beh...perché no?
- Perché l'esperienza può essere molto più divertente proprio grazie alla sua imprecisione. O perché può aiutarti a definire una teoria nuova, una visione diversa, ad essere “rivoluzionaria”. E tutto questo non puoi saperlo prima, da seduta a contemplare cose fatte da altri.
- Sì, può darsi. Ma ieri ho letto una frase di Lynch che dice che l’idea è molto importante affinché l’azione che la realizzerà possa essere efficace
- Oh, ma questa è un’altra cosa. Tu ora mi stai dicendo che ti pare di vivere una vita “a caso” (o a caos) perché non hai idee chiare a sostegno delle tue azioni
- Sì, credo che sia proprio così. Lo vedi che fai la cinica severa ma poi sei l’unica che mi capisca davvero
- Eh, non a caso ti sopporto da una vita...
- E quindi?
- E quindi fai quello che dice Lynch. Fatti venire una buona idea, concentrati e osservala bene. Falla tua. Poi alza il sedere con più convinzione di come hai fatto fino ad ora e mettila in pratica. Fai di quella idea la migliore esperienza della tua vita
- E cioè?
- E che ne so. Appena mi viene un’idea te la passo...
- Mi sei sempre di grandissimo aiuto
- Lo so. Lo so...un giorno mi ringrazierai
- Sì e sarà la mia esperienza migliore