Sola andata

Sola andata

mercoledì 30 maggio 2018

Tempo variabile. Come i fianchi

Di nuovo brutto tempo. In questo momento sento tuoni che evocano altri mesi e le piogge che sopraggiungono improvvise mi vedono quasi sempre vittima prediletta mentre vado in ufficio riducendomi un pulcino completamente fradicio. Ieri è andata proprio così, ma poi nel pomeriggio c’era di nuovo un sole abbastanza caldo da farmi cedere alla tentazione di un gelato da “melaverde” ,che fa il variegato all’amarena più buono che abbia mai assaggiato, ma pure sperimentazioni ardite che apprezzo e delle quali i miei fianchi danno prontamente contezza. Ma tant’è, non ho più vent’anni e a pensarci bene direi meno male. Ci pensavo giusto un paio di giorni fa, quando a cena mi trovavo accanto ad una deliziosa ventenne a cui avevo detto “beata te che hai vent’anni”, ma in realtà non lo pensavo affatto. E lei mi ha risposto “no guarda,  non è bello per niente”. E io ero d’accordo con lei, pure se manco mi ricordo come vivevo davvero le cose, quali paure avessi, di che natura fossero i miei disagi. Ero al secondo anno di università, mi approcciavo per la prima volta alle scritture in partita doppia senza raccapezzarmici minimamente, frequentavo uno che non mi interessava per dimenticare unaltro, completamente scemo, per cui stavo soffrendo, studiavo nella biblioteca del maschio angioino solo per tenere il mare di fronte, mi truccavo troppo e non mi piacevo mai. Io non credo che certo disagio fosse dettato dalla paura del futuro perché in realtà ciò che mi spaventava davvero era proprio il mio presente e quella sensazione orribile di seguire la strada sbagliata confidando soltanto nel fatto che prima o poi sarebbe stato tutto diverso. No, i vent’anni dovrebbero proibirli per legge più o meno a tutti.

 A me sono piaciuti i trenta. Se dovessi dire quando è stato che mi sono sentita perfettamente “allineata” tra mente, anima e corpo io penso ai miei trent’anni. Avevo ormai portato a termine tutti i miei obblighi, vivevo per conto mio. E avevo dei bei fianchi. Forse mi sbaglio ed è solo l’impronta personale del ricordo ad evocarmi sensazioni che in realtà erano un’altra cosa. Chi lo sa se anche per quella deliziosa fanciulla, così consapevole di quello che le piace, appassionata di un regista che fa film sugli skaters (...ma forse sono io a non aver capito bene...) e così inquieta, in realtà non abbia già raggiunto una maturazione piena, quella che non cerca altro se non di esprimersi con mezzi ancora da trovare, o se invece i dubbi assalgono anche lei e che un nome tatuato sull’avambraccio sia soltanto un equivoco ancora tutto da chiarire.

Il tempo è così variabile e imprevedibile, la pioggia mi coglie sempre impreparata ma poi dopo c'è il sole e io mangio gelati che subito mi fanno ingrassare. Ma questa non è una buona ragione per desiderare i vent'anni. E così stasera, che piove per un po’ e poi subito smette, ho pensato che se dovessi avere anche io un progetto per il futuro sarebbe questo: ritrovare i miei trent’anni. Almeno per un altro poco. Ma non ho più l’eta. Non più quella. Oppure ho solo bisogno di altro tempo per tornarci.

venerdì 25 maggio 2018

La musica non è cambiata. Sono io a non averla mai ascoltata

È una domanda che mi ripeto ogni tre o quattro anni. Sempre la stessa che applico a poche questioni su cui provo a delineare le traiettorie possibili del mio incespicare su questa terra. Di solito succede di primo mattino, dopo che ho messo la moka sul fuoco e sono ancora in quel limbo di semiincoscenza, curiosità per il nuovo giorno e i piccoli obiettivi a cui tendere entro la fine della giornata. Ogni tre o quattro anni io mi chiedo “ma ne valeva davvero la pena?”. La domanda di solito sottindente ragioni non generiche perché in realtà ho in mente faccende precise che vanno dal lavoro, al luogo in cui potrei forse vivere per sempre, alle persone a cui ho voluto bene. Di tutto il resto accetto il ruolo predominante che ha spesso avuto il caso rispetto alla mia volontà provando ad accettare, adattarmi, cogliere le opportunità, imparare cose nuove.
Sono a Milano dal 2009 e ho abitato per i miei primi tre mesi da un signora che era stata appena lasciata dal marito dopo 40 anni di matrimonio. Fu una strana esperienza di cui in realtà non conservo molto. Ricordo che quando salutai quella donna per venire ad abitare nella casa in cui vivo ora le dissi che ho un problema nel conservare i rapporti ma che avrebbe potuto contare su di me se avesse avuto bisogno. Ogni tanto mi manda dei messaggi e mi dice che la piantina che le regalai sta ancora bene.
Da allora ho cambiato ufficio, conosciuto di persona i miei beniamini radiofonici, partecipato ai loro raduni, provato a rendere il mio bilocale anonimo in qualcosa che mi somigliasse il più possibile. Per tutto questo tempo ho svolto un lavoro che amo nelle condizioni e un po’ meno nei contenuti, ho frequentato uomini che non hanno lasciato traccia assieme ad altri che mi hanno fatto capire che forse  quello che cerco non sarò mai in grado di trovarlo. Spesso ho semplicemente capito tutt’altro. Ma poi ho capito e c’ho molto riso sopra.

“Ma ne valeva la pena?”

Oggi sono stata al planetario per una cosa bella tenuta da Matteo Caccia, uno dei beniamini di cui dicevo sopra. Non lo vedevo da anni eppure mi ha salutato. Ricorda persino il mio nome. E io alla fine mi commuovo con poco.
C'è di buono che ho ancora degli abiti di allora che ancora mi stanno, non proprio bene come allora, ma ci sto ancora dentro. Nel frattempo mi sono concessa viaggi molto belli e, a parte il ferro, continuo a godere di ottima salute. Negli ultimi otto anni ho sostanzialmente badato a me stessa e imparato a non dipendere da nessuno. A volte questo mi pare decisamente un po’ poco, altre invece eroico.

“Ma ne valeva la pena?”

Come si fa a rispondere? Su una mensola ho una raccolta di cd di musica classica che sono ancora quasi tutti nel cellophane. Li comprai tantissimi anni fa, intorno ai vent’anni, perché avevo sentito che quando una donna rimane incinta deve ascoltare quel tipo di musica perché il cervello del bimbo si sviluppa meglio. O qualcosa del genere. Che sciocca gretta che sono.
Come si fa a rispondere? Alla fine potrei affermare di sì, ne valeva la pena.
 Non fosse altro perché continua a piacermi la moka al mattino e quell’attesa che costringe agli interrogativi più assurdi e inutili.
E perché ho qui con me della buona musica ancora tutta  da ascoltare da più di vent’anni. Credo che sia arrivato il momento. Pure senza aspettare nessuno.

Ma sì che ne è valsa la pena



sabato 19 maggio 2018

Prospettive in piazza

Oggi in centro a Milano c’era solo l’imbarazzo della scelta. Era come se chiunque potesse avere un motivo per alzarsi dal letto e uscire di casa. Dagli eventi sportivi, alla suggestiva e simpaticamente evocativa ”mille miglia”, dalle manifestazioni contro l’odio a una passeggiata rilassata sotto un sole timido ma non ingannevole...la piazza pareva  dispensare ogni forma di vitalità. Forse mi sbaglio e in realtà era soltanto un caotico assembramento umano che tentava di scappare dalla noia concedendosi senza troppa attenzione al caos cittadino del week end. Vai a sapere cosa era davvero piazza Duomo stamattina per chi non aveva tutte le endorfine in circolo dopo una corsa al parco con gli amici e una colazione con una specie di pizza ripiena di verdura fresca e formaggio. La prospettiva è sempre, paradossalmente, il risultato di una elaborazione introspettiva.

Mentre ero sul tram per tornare a casa mi sono ricordata che avevo portato con me un paio di panini, uno dei miei cocktail a base di aloe e succo di fragole e pure i biscotti a cuore fatti in casa e ho pensato che avrei potuto mangiare tutto questo in qualche angolo tranquillo di largo marinai d’italia. Così ho fatto e quando era ormai sazia ma ancora desiderosa di rimanere per strada, ho deciso di vedere il film di Garrone “Dogman” che mi ha letteralmente trafitto per la crudezza della storia e per la familiarità del luogo in cui è stato girato: il villaggio Coppola (ma nel film sarebbe Ostia), uno dei luoghi più maledetti e degradati del sud, una landa desolata occupata solo da palazzi fatiscenti e sordidi nati da abusivismo e appalti criminali durante gli anni ottanta e ormai abitata da esclusi e gente pericolosa. Prima di vedere il film avevo scambiato due chiacchiere con uno dei dipendenti dell’Anteo. Lo conosco da anni, da quando lavorava all’Apollo (prima che chiudesse) e mi aveva anticipato che dovevo esser pronta a ricevere un pugno nello stomaco. Gli ho detto che oggi mi sentivo in forma e che Garrone è bravo e merita lo sforzo. Mi ha detto che all’uscita avrebbe voluto un mio parere. Quando sono uscita gli ho confermato quanto presagiva. Ero veramente sconvolta. L’ho salutato con poche parole e mi sono incamminata alla stazione con un passo incerto perché ho davvero fatto fatica a riavermi da certe scene. Ad un certo punto ho deciso di tornare a soffermarmi sull’allegria della piazza e della gente e niente mi pareva uguale a stamattina. Eppure c’erano ancora il sole, le endorfine, la pizza salentina, i biscotti a cuore farciti. C’era ancora un sacco di gente  col gelato, le carrozzine, i cagnolini, la ”mille miglia” e palazzi d’epoca che  non somigliavano affatto alla scenografia da brivido di ”Dogman”. Ma io avevo soltanto voglia di prendere il tram, tornarmene a casa e non vedere nessuno, proprio come immagino che facciano quelli che vivono nei posti brutti e pericolosi, dove non succede mai niente e magari si finisce per diventare criminali solo per noia, per mancanza di qualsiasi opportunità o per la morte della speranza. E di ogni prospettiva

mercoledì 16 maggio 2018

La pazienza ha davvero un limite?

Si sono fidati. Un giovane collega ed io siamo andati per due volte a Magenta per fare lezione a dei bambini di quarta elementare, nonostante il collega veterano che se ne occupa da sempre fosse assente. Abbiamo deciso di proporre la storia da raccontare e le cose da dire con una modalità diversa da quella solita facendo in modo che risultasse più interattiva e meno una lezione frontale tipo predicozzo. L’esito è stato sorprendente: è davvero impressionante notare come, a parità di contenuti, l’attenzione e l’interesse possano variare a seconda della formula adottata per far passare il messaggio. Eccellente esperienza per una che i bambini li frequenta davvero pochissimo. Ma forse la ragione del mio compiacimento è un’altra e io la attribuisco alla mia pazienza. Si direi che è proprio la pazienza. La stessa di cui mi sono dotata negli ultimi anni da quando ho smesso di discutere/litigare/confrontarmi con colleghi/conoscenti/umanità irrilevante per la mia sfera emotiva. Ho imparato che, da non credente, non ha senso perdere neppure una sola frazione di secondo con chi ha fede e vive la sua pur rispettabilissima condizione per estendere i suoi principi alla vita di chiunque. Ho anche imparato che le questioni di lavoro e le differenti vedute sulle modalità di risoluzione dei problemi non devono mai trasformarsi in territorio di scontro: tu la vedi così? Ok facciamo come vuoi tu. Che pace! Si facciamo come dici tu, io farei in tutt’altro modo...ma non importa, figurati, quello anziano sei tu.

Io non litigo mai. Non è nelle mie corde, non mi piace, non trovo che i toni accesi o un confronto alterato da un eccesso di emotività possano risultare costruttivi per una comprensione reciproca. Di solito ci si scontra perché i codici comunicativi sono differenti e quindi non ci si potrà mai davvero comprendere del tutto. E poi odio le tensioni e il disagio che si creano dopo rompendo per sempre la fluidità delle dinamiche relazionali. Io credo che le discussioni abbiano un qualche senso soltanto tra persone che hanno un fortissimo legame e per questioni assolutissimamente cruciali. Per tutto il resto preferisco dileguarmi o essere io quella che cede. È comodo e molto poco time consuming. Credo sia il retaggio di un modello educativo repressivo ma che poi mi è tornato utile: per anni ho pensato che i miei fossero poverissimi perché non assecondavano mai nessun mio capriccio. Oggi credo che, in virtù di questo vissuto, potrei fare a meno di qualsiasi cosa, ma per fortuna (o cos’altro?) non è necessario.
Ci vuole pazienza, la stessa di cui mi sono armata tutte le volte che le lezioni ai bambini dovevano essere necessariamente frontali, un po’ noiose, lunghe e con un linguaggio vecchio e io ero lì e non potevo dire e fare molto per cambiarne l’architettura. Il collega veterano vuole così. E noi facciamo così. Però ad un certo punto succede che per qualche ragione il collega veterano non possa esserci ma tu si, assieme ad un giovane collega con un linguaggio ancor più fresco del tuo. E succede anche che, senza aver litigato con nessuno, senza offendere o proporre inascoltate soluzioni alternative, puoi finalmente fare un po’ di testa tua, come presentarti a dei fanciulli e provare a farti ascoltare per davvero e non per obbligo e con sacrificio. Senza nulla pretendere, senza litigare o implorare nulla. Sorte proprizia, un’idea che covava da tempo, l’occasione di metterla in pratica. Tutto molto semplice, divertente e meravigliosamente normale.

E cosi, stasera, mentre ripensavo all’entusiasmo attivo di bambini curiosi e attenti e ricordavo certe reazioni nelle quali confidavo, ho pensato che forse è vero che per fare quello che si sente ci siano solo due strade: lottare con tutte le forze scontrandosi fino all’ultimo per le proprie idee, con carattere rabbia e puntiglio contro chi ci ostacola. Oppure avere tanta, tantissima pazienza, pagando il prezzo salatissimo di silenzio e attesa indefiniti.
Mi sembrano entrambe strade legittimamanete percorribili. Ma poi, alla fine, cos’altro è la pazienza se non proprio una forma di lotta nobile, civile e resistente? Per me vince già così.





mercoledì 9 maggio 2018

specchio perplesso

Non sapevo che dirmi. Ci sono giorni che mi sembrano opporsi alla fissità di un ricordo qualsiasi sebbene ciò non sia per ragioni legate alla scarsa portata di quello che mi accade: non ho mai pensato che una vita degna di essere raccontata debba necessariamente vantare fatti o episodi significativi. Il senso di un ricordo sta in ciò che si sta provando o semplicemente nel modo di elaborare il proprio quotidiano, una semplice frase, un obiettivo...in teoria potrei affermare che è sempre il momento di scrivere per raccontare.

In questi ultimi giorni mi sono concessa ottime scuse per non dirmi nulla e se dovessi fare un breve resoconto di quello che mi è successo  ricordo solo di un tempo eccessivo ad ascoltare questioni un po’ tediose su affari di cuore altrui che mi appaiono fin troppo chiari. Ma in fondo che diritto ho io di reprimere sogni e illusioni? Ho visto dei film che mi sono tutti tanto piaciuti, ripreso le lezioni sul cinema di cui ho sentito  forte la mancanza e ho cominciato un corso sull’arte contemporanea di cui sono rimasta felicemente sorpresa. Non si è ancora costituito il nuovo governo e in questo momento Cacciari è alla tv e sta dicendo cose ovvie assieme ad altre che richiederebbero quantomeno una competenza lievemente più specifica su questioni di economia. Ma forse mi sbaglio ed è davvero sufficiente interpellare un intellettuale che per ricordare al mondo di esserlo non fa altro che stare in video a diffondere verità assolute. Se dovessi trovare una parola chiave per la fase generale che mi ritrovo a vivere, per non raccontarla, userei la parola perplessità. Non faccio altro che rimanere perplessa in senso “olistico”. Se dovessi produrmi in una lista finirei per avvalermi dei rotoloni Regina. Se dovessi darne un saggio immediato potrei dire che sono perplessa quando:

-quando mi alzo al mattino all’alba e bevo due bicchieri d’acqua e una compressa di ferro, ma poi sono sempre quasi anemica
-quando penso alle volte che ho chiesto di partecipare ai bandi per fare un anno di lavoro all’estero e mi è stato detto di no. Perché? Perché non si può, anche se il bando è interno...
-quando amo starmene per conto mio ma poi non faccio che sorridere al solo pensiero di poter rivedere le persone che mi piacciono
-quando penso che non avrò mai dei bambini ma il futuro mi interessa come se ne avessi
-quando penso che Jovanotti è un cantante di successo e non mi capacito delle ragioni per cui sia così
-quando vedo che nell’armadio ho vestiti che ho comprato io stessa ma che poi non ho mai messo
-quando mi dipingo le unghie e le labbra di rosso anche se fatico a riconoscermi
-quando al supermercato compro una vaschetta di gelato e poi però la poso subito perché...ma che ne so perché...

Potrei non smetterla mai. Ad ogni mia azione corrisponde quasi sempre una reazione uguale e perplessa e io davvero non saprei dire quale delle due abbia in sè le ragioni più valide a fornirmi l’idea più precisa dello “spirito del tempo”, sospeso tra verità inviolabili, che a me paiono più tautologie che qualcosa di molto altro, e l’eterna incertezza da assenza di riferimenti solidi a cui aggrapparmi. O con i quali farmici un bel cappio.

Sono giorni così, che si susseguono con calma rara ma autentica, come quella vissuta quando si riesce a non indagarne troppo accuratamente le ragioni.
Questa pace andrebbe onorata almeno con un variegato all’amarena accompagnato con delle cialde. Ma al supermercato ho finito per non cadere in tentazione.
Che sciocca.



venerdì 4 maggio 2018

La mia piccola area di bassa pressione

Lo sapevo. Non avevo neppure un dubbio piccolo così. Oggi mi sono presentata al policlinico per donare il sangue ma ormai so benissimo quando i miei valori non sono nell’intervallo da sana e robusta costituzione. Ne ero così certa che quando ho avvisato l’ufficio ho precsisato che probabilmente non avrei potuto donare e che quel giorno lo avrei convertito in richiesta di ferie.
Maggio mi fa questo effetto: la pressione va a picco così tanto che ogni volta che mi alzo troppo velocemente dalla sedia ho bisogno di appoggiarmi alla parete, cercare l’equilibrio e risentire della vista appannata per qualche secondo. Ormai lo so e gestisco la situazione senza spaventarmi, anzi, quel momento di mancamento, coi sensi appannati, quel temporaneo abbandono prima di riavermi mi dà l’illusione di uscire per un momento dal mio stesso peso, il solo del quale non ci possiamo liberare per tutto l’arco dell’esistenza. Trovo che questa sensazione sia quasi un privilegio.

Quando sono uscita dall’ospedale il cielo era grigio, piovigginava e io avevo un po’ freddo. Piazza Duomo era silenziosa e semidesertica e io me ne sono stata in uno dei suoi angoli a contemplarne la pace non ancora intaccata da turisti e gente che procede di fretta. Poi mi sono ricordata che non era previsto che avessi così tanto tempo a disposizione e che senza l’ombrello non avrei fatto molta bella strada. Così ho pensato di tornare in un posto che non frequento più così spesso come un tempo. Sono stata alla biblioteca Calvairate: piccola biblioteca in un quartiere abbastanza disagiato, vicino al mio ufficio, frequentato soprattutto da anziani e signore un po’ folli che credo che la vivano come antidoto alla solitudine. Ho dato una scorsa ai giornali, chiacchierato un po’ con i bibliotecari che non mi vedevano da tempo e ho aspettato di avere molta fame prima di provvedere al pranzo. Mi sono sforzata di stuzzicare l’appetito fino a che ho potuto perché ho ricordato quello che ha detto Pif, che ha digiunato per tre giorni per godersi la pizza a Napoli di “Michele”. Che modo pregevole di mettere in risalto il valore premiante dell’attesa.

Nel pomeriggio sono andata alla IPSOS per discutere su alcune campagne pubblicitarie di famose caramelle alla frutta. Pare che il crollo delle vendite sia dovuto agli smartphone perché gli acquisti cosiddetti d’impulso necessitano del richiamo visivo dell’oggetto...e se uno gli occhi li tiene bassi non cade in tentazione (e chissà quanto altro si perde...) e a me è parsa una correlazione interessantissima pure questa.
Sono rientrata in casa verso le diciotto, c’era il sole, non ero più fiacca come stamattina e pensavo al privilegio per nulla scontato di aver goduto del silenzio di una piazza magnifica, del contesto familiare ma decisamente “outsider” di una piccola biblioteca di un quartiere disagiato e, ”last but not least”, di un pranzo semplice ma consumato quando il corpo era convintamente predisposto a farlo.
E poi ho pensato a questa città, alla sua frenesia e ai livelli di pressione e di ferro nel sangue che richiede per farsi meritare ma che io spesso proprio non raggiungo. E mi sono detta che è davvero gentile da parte sua fingere di non notare i miei “valori” un po’ sballati. Ma in fondo solo ogni tanto. Grazie, grazie, grazie



mercoledì 2 maggio 2018

“Era de maggio”

L’occasione era troppo ghiotta per non approfittarne. Ieri qui in casa c’era un silenzio irreale. I pachidermi del piano di sopra sono stati via tutto il giorno (sono rientrati esattamente alle 20:17, ma a quel punto io ero talmente rilassata e in pace con l’universo che risentire il loro baccano mi è parso un obolo ragionevole). Volevo stare in casa. In realtà nel pomeriggio sono uscita per una corsetta di 5 km ma mi ero già concessa all’allenamento con i pesi con la Rebecca-quadricipiti d’acciaio, volevo soltanto ossigenarmi un po’. Il primo maggio è sempre un giorno strano per me. Non so mai bene come onorarlo: non lo sapevo quando ero una studentessa che non sapeva cosa sarebbe diventata o cosa desiderava davvero, non lo sapevo quando ho cominciato a cercare qualcosa che mi assomigliasse e per un periodo ho temuto che non ci sarei riuscita mai, non lo sapevo quando ho provato ad interpretare il mio lavoro senza puntare alla carriera ma ad esperienze diversificate (senza assolutamente riuscirci). E non lo so neppure oggi, che non mi pongo più nessuna domanda perché alla fine l’argomento lavoro mi risulta sempre mal posto. Ma oggi è il 2 maggio ed è lecito accantonare la questione così com’è, nella sua perennemente irrisolta consistenza.

È di oggi la notizia che fb si arricchirà di una nuova funzione di facilitatore di incontri, sul modello di tinder tanto per intenderci. In linea di principio mi pare piuttosto ragionevole: c’è uno che ci conosce bene e in base alle nostre caratteristiche ci accoppia. Già, pare che quei dati siano utili non solo per farci comprare e votare ciò che vuole. Ci dice pure di chi ci innamoriamo...inutile ogni mio commento al riguardo.
Non ho mai pensato a fb come piazza utile per gli “agganci” e nell’infinita rosa di significati che sia lecito attribuire ad un like non vi ho mai riscontrato quello con valenza ammiccante. Forse è per questo che non mi sono mai innamorata di qualcuno conosciuto su un qualsiasi social senza avergli prima stretto la mano. Al contrario è successo che mi sia interessata a qualcuno conosciuto con i sortilegi del caso attraverso incontri che mi parevano fatali e di rimanerne poi spoetizzata “spulciandone” le attività su fb ( confesso...del resto chi non lo ha fatto? Non negate che tanto non vi credo) perché piacione con altre donne o per dei like di troppo concessi altrove...cose così, che per una come me, ingenua ma con un intuito piuttosto infallibile su certe questioni,  sono elementi utili di allontanamento e presa di coscienza. Proprio no, fb non è un collante affettivo ma solo una modalità agile di condivisione di idee, fatti, stati d’animo...non fa nascere nè è capace di nutrire e consolidare dei legami profondi. Attendo smentite. Prontissima a darmi torto, ma intanto viva il corteggiamento coraggioso fatto di parole dette assieme agli occhi che si guardano e alle mani che si tengono.

Oggi è il 2 maggio, ho trascorso tutto il giorno in ufficio, hanno bussato alla mia porta alcuni colleghi fedelissimi o semplicemente simpatizzanti che amano aggiornarmi su fatti di cui nulla potrei sapere perché mi “collego” poco pure con certi spazi reali comuni, ho visto un film in stop motion che mi sono goduta fino all’ultimo fotogramma, camminato sotto la pioggia e mangiato una piadina commuovente. Domani fanno 50 anni dal maggio francese, quello che doveva sovvertire tutte le regole sociali fino ad allora conosciute e accettate. Auguri anche se il vostro maggio ha fatto a meno del nostro coraggio...ah non era il contrario. Beh, insomma auguri.

Intanto qui in casa anche oggi c’e silenzio. Che bello.