Sola andata

Sola andata

sabato 31 ottobre 2020

Il presente da lasciar passare

 Non mi riesce più. Il bisogno di tenere aggiornato un diario, con frequenza sufficiente a rendere conto di fasi della vita innestate nella cronaca del tempo, è in netto contrasto con la sensazione di uno scenario “congelato” da spazi di azione troppo ridotti per meritare un racconto. Cosa potrei mai dire ancora di questo tempo impensabile? Ormai è cosi tanto che il covid ha catalizzato e assorbito tutta l’attenzione che tutto quello che fino ad ora ha contato nella nostra vita non riesce ad essere altro che un corollario opaco e afinalistico di una quotidianità sempre più svilita e svuotata progressivamente di ogni contenuto. L’ho già detto tante volte, per molti di noi è più facile, perché l’isolamento faceva già parte di una scelta, o di un’esigenza dettata da intimi bisogni sedimentati da tempo ed esperienza. Per altri invece è una vera tortura, accettata con dolore, spesso con difficoltà pure di ordine pratico. Per tutti è diventata un’ossessione variamente declinata. Come forse è giusto che sia. Di fatto è così poco ciò che davvero si sa di questa pandemia che qualche volta mi chiedo quanto abbia senso vivere in questo modo visto che ogni tentativo efficace di uscirne pare fallire miseramente. Quello che in questo momento so è che ho un pò più paura di prima, che lo smartworking ( che ho sperimentato solo da pochissimi giorni) è una modalità estremamente efficace per tipo di lavoro che mi è toccato, e poi che, a differenza della prima ondata, avrei voglia di tornare giù dai miei almeno per tutta questa ulteriore fase.

Che posso dire? A chi interessa che vivo ancora beatamente in questa bolla che include i miei programmi radiofonici del cuore, i miei corsi on line, i miei film, i fumetti…e che faccio ancora, anzi di nuovo e più di prima, più o meno le stesse cose di quando avevo vent’anni. Ho lasciato intatti  pure i sogni di allora. A volte credo che il covid sia un potente alibi per un ritorno al mio tempo migliore, stavolta al netto della paura del futuro o di un mancato affrancamento da un contesto che trovavo problematico. Di irrisolto ho mantenuto la mia vita affettiva, ma in realtà sono convinta che questo rientri nella mia carta d’identità emotiva, che poco ha a che fare con agenti patogeni venuti da chissà dove. 

Oggi ho indossato un paio di jeans che ho adorato e che non mettevo dal 2007. Mi stanno ancora. Mi pare incredibile. Li ho messi per andare in edicola a comprare un pupazzetto di Zerocalcare. Mi sono chiesta come mai da allora li avessi conservati con cura, preferendo però adottare un look differente

 A me è sempre piaciuta davvero soltanto la moda degli anni ’70: jeans a vita bassa e a zampa, pantaloni di velluto a coste, dolcevita. Roba così, da studente dissidente eterno fuoricorso. Che poi non sono mai stata. Io ho sempre, costantemente, nostalgia di un tempo non mio. Non mio perché già passato quando io sarei stata pronta per lui. Non mio perché mai vissuto. A volte ho l’impressione di avere problemi solo col presente.

Che posso dire di un tempo come questo? Un tempo in cui Trump forse perderà (ma non è mica detto) solo per un pelo e non in modo schiacciante, un tempo in cui si negano i numeri e l’evidenza e le notizie si affastellano senza alcuna logica fino a contraddirsi a vicenda. Potrei affermare che sia un periodo nerissimo nel quale mi muovo col senso di colpa di chi, per ora, ha soltanto responsabilità per se stessa, che rispetto ai nerissimi vent’anni ha trovato pace e accettazione, che crede che non sia ancora il tempo per l’amore ma che sicuramente è lì da qualche parte per un tempo altro a dare senso a tutto il resto. Persino a questo. 

Forse questo posso dire. Il covid ha cambiato la mia vita congelandola. Anche i vent’anni a modo loro fecero questo. persino un paio di jeans rimasti nel cassetto per tanti anni lo hanno fatto. Pure un tempo mai vissuto e a cui senti di appartenere è capace di cambiarti la vita. A volte è il presente che latita. Ma poi si fa pure lui passato. E, come per magia, chiude ogni cerchio. Questo posso dire


sabato 24 ottobre 2020

Cosa cambia (anche quando non lo fa)

 Un sabato intero in casa. L’ho fatto spesso in questi anni e mai perché costretta. Oggi mi illudo che avrei avuto la stessa voglia di restare in casa indipendentemente da restrizioni che si fanno sempre più severe man mano che i dati sui contagi raggiungono livelli di allarme. Ma dentro di me sento che anche i miei margini di scelta si sono assottigliati nella scelte quotidiane più semplici: non prendo più i mezzi pubblici, troppo affollati, vado al lavoro solo se sono certa che il mio collega di stanza sia assente, non incontro più nessuno, cammino molto e mi alleno solo per rafforzare il mio sistema immunitario e cercare di non prendere neppure un raffreddore, non prendo neppure un caffè da nessuna parte e non ho mai abbracciato la religione dell’aperitivo. Al cinema invece mi sono sempre sentita tranquilla. Io non ho mai avuto paura di ammalarmi: non tanto perché lo trovi poco probabile, ma perché non sono un soggetto fragile, non ho abitudini che mi mettono a rischio, sono una incosciente fatalista, non sono credente e quindi non devo neppure provvedere a ristabilire una posizione con un qualche dio. Vivo tutto questo con la serenità di chi in fondo vive anche solo per curiosità.

Ma non è vero. Non del tutto. Nella realtà è cambiato tutto anche per me. Quando questo mestissimo periodo è cominciato io ho accolto l’evento con l’ironia e il sarcasmo di chi non poteva credere alla possibilità di un fenomeno che storicamente non avevo mai affrontato. Tornavo da un viaggio bellissimo e approdavo in un’altra Italia, completamente sconosciuta. E ridevo. Ridevo delle cautele, degli starnuti al gomito, dell’amuchina, del panico che cominciava a diffondersi pure tra gli scaffali del supermercato. Poi ho capito. Mi sono adeguata a tutto e ho cominciato  a sviluppare una sensibilità nuova verso ogni azione individuale e sociale del mio quotidiano. Ho cominciato a disprezzare i negazionisti e i “minimizzatori”, se non altro sulla scorta di numeri inequivocabili sui morti e gli ammalati gravi. Mi sono fidata delle misure di un governo di incapaci e dilettanti, confidando nella necessità ed efficacisa di misure drastiche, in fondo molto semplici, come chiudere tutto e stare a casa più soli che si può. 

Poi è arrivata l’estate, le elezioni che si avvicinavano, il malcontento, la stanchezza, l’economia che langue. Bene. Liberi tutti. E io mi sono detta che forse anche con la sola fortuna si poteva avere qualche speranza. Mi sono sbagliata.

Esistono due tipi di problem solving. Uno è di tipo “veloce”, dettato da emergenze che richiedono decisioni rapide e non ponderate. Funziona solo in virtù di una necessità impellente destinata però a rientrare. E poi c’è un problem solving basato su strategie di lungo termine, che includono la complessità dei problemi che affronta una società stratificata con problematiche differenti e specifiche.

Oggi sono rimasta in casa tutto il giorno. Ho fatto le grandi pulizie, letto alcune pagine di un libro, visto due film, cucinato e congelato cibo per tutta la settimana, sopportato il vocione del mio vicino sudamericano orribile. E poi, nel pomeriggio, mi sono chiesta se avrei davvero fatto tutto questo anche senza il deterrente della pandemia. Forse sì. In realtà non posso saperlo.

Quello che oggi so è soltanto il fatto che sono felice di non avere un amore che forse non avrei potuto vivere liberamente, che non devo gestire bambini alle prese con la DAD, che posso continuare a lavorare anche da casa, che da anni mi alleno da sola e non in palestra, che i miei corsi di cinema siano on line, che posso continuare a vedere film, chesono in grado di cucinare cose che non mi facciano rimpiangere i ristoranti, che non devo gestire patologie e fragilità. Sono pure felice di essere timida e da sempre vocata alla solitudine e ad una socialità limitata a persone che stimo molto. Quello che so è che continuo a vivere come (forse) vorrei. E non so perché, malgrado questo, io trovo lo stesso tuttoquesto profondamente anormale e ingiusto.


domenica 18 ottobre 2020

Farsi spazio senza aggiungere nulla

 Devo riabituarmi ad uno spazio già mio. È abbastanza strano sentirsi come in una nuova casa nonostante sia variata solo la disposizione dei mobili (il bagno vive una storia a parte, molto travagliata e traumatica, ma tutta sua). Mi piace moltissimo la nuova soluzione: ho recuperato molto spazio, è tutto più razionale e a me pare di aver cambiato casa al punto che i miei gesti automatici mi fanno sentire smarrita perché nulla è al posto di prima e per questo mi muovo come se fossi un’ospite un po’ impacciata. Una sensazione bellissima. Respira di nuovo e di mistero..

Qui a Milano la situazione è ripiombata nello stato di allerta pre estivo, reso stavolta più mesto proprio dai colori freddi della stagione rigida. Io ho smesso di prendere i mezzi ed esco solo se strettamente necessario, come per andare in ufficio e fare la spesa. Come da molto tempo a questa parte, non mi sento triste ma neppure felice, condizione questa che nella mia classifica degli stati d’animo rientra nello stato ideale. In un’altra vita devo essere stata una qualche pianta.

Cosa mi aspetto da questo inverno? Ho appena ordinato una sedia a dondolo: ora che il divano è nella stanza meno praticata ho in quella principale lo spazio sufficiente per realizzare un mio vecchio capriccio: credo che passerò molto tempo seduta lì, coperta dal più classico dei plaid, a vedere un buon film e col pensiero a chi mi manca.. In un’altra vita, oltre ad una pianta devo essere stata una persona anziana dalla nascita...

Oggi, mentre riassettavo e liberavo i miei nuovi spazi, è spuntata una vecchia foto di una persona che ho molto amato. Non avevo mai avuto il coraggio di buttarla via. Lui non significa più nulla per me da tanto tempo, eppure mi pareva sbagliato cestinare quel suo ricordo. La forza dell’abitudine a volte rimane la cosa più forte di tutto, pure dell’assenza di partecipazione emotiva, anzi ne è il più grave deterrente. Buttare quella foto nella pattumiera è stato enormemente liberatorio.

Cosa mi manca veramente? Forse l’idea stessa di pianificare un viaggio, la possibilità di flirtare con qualcuno pur sapendo che starò molto attenta a non andare oltre. Forse mi manca la frenesia sciocca di questa città, che però contagia vitalità e slanci. Mi manca persino rassegnarmi alla volatilità dei rapporti. Non so come leggere questa progressiva perdita della possibilità di pianificare. Non ne trovo la logica. L’ho pensato anche per l’incidente di Zanardi: uno così lo avvicini a Dio. Non andrebbe contemplato Per lui l’epilogo che gli è toccato.

Quando scrivo su questo spazio non rileggo mai (per questo mi scuso continuamente per i refusi che lasciano intendere forti digiuni grammaticali), perché ho paura di “riposizionare” i pensieri in modo meno sincero. Ma credo sia un errore: l’autenticità passa anche per una ricollocazione del pensiero, per sforzi successivi di decodifica, per sottrazioni e aggiunte prima di raggiungere la piena convinzione di qualcosa. Proprio come uno spazio domestico che decidi di modificare per sentirlo più familiare. A volte è un rischio, un lavoro faticoso, spesso fa riemergere un ricordo sopito e
ingombrante. Quasi sempre è una cosa bella.

Cosa mi manca allora? Credo sempre le stesse cose. Ma forse ora occupano semplicemente degli spazi diversi. E può darsi che la vera fortuna di questo tempo sia quella di doverle cercare di nuovo tutte.  Una ad una.


domenica 11 ottobre 2020

Lode agli anni che passano. Se tutto torna

 Sono passati esattamente vent’anni. Per la precisione il 31 di questo mese, nel 2000, mi sarei laureata. Quando  me ne sono ricordata mi è mancato il respiro per qualche secondo. Non è possibile avere un ricordo così nitido di una tappa certamente fondamentale ma di fatto accaduta davvero tanto tempo fa. Non è possibile che io oggi sia qui a rendermene conto senza avvertire il peso di un percorso che ha ormai concluso la sua fase “costruens”.  Il ricordo di quel pomeriggio, in una chiesa sconsacrata di via Medina, col mio tailleur in velluto, i capelli corti e lo sguardo smarrito, preoccupata soprattutto di ben figurare per un prof che non volevo assolutamente deludere e che non ho voluto abbandonare neppure negli anni successivi, con un master e poi un dottorato per cui mi ha fatto da tutor. È incredibile come certe persone, incrociate in periodi precisi della nostra vita, arrivino a rappresentare in modo del tutto involontario dei mentori capaci di condizionare una vita intera. Avevo diciotto anni quando conobbi il mio prof, mi fece ripetere il suo esame per tre volte prima di darmi trenta e lode. È stato lui l’ultima persona che ho salutato prima di venire a Milano. Avevo ormai quasi trentatré anni. E io, nonostante lui, per l’economia ho sempre avuto la stessa armoniosa sintonia che può esserci tra le cozze e la nutella. Grazie, grazie e ancora grazie anche per questo strano e assurdo miracolo di “innesto” mio amatissimo prof.

È una giornata uggiosa qui a Milano ma io sono di buon umore perché domani viene Moretti a raccontar cose all’Anteo e poi il mio papà starà qualche giorno a risolvermi un po’ di problemi qui in casa e con gli operai che forse finalmente finiscono lavori che sulla carta dovevano concludersi il 14 agosto. Alla fine si sono fatti perdonare facendomi un forte sconto ed in più la lavatrice slim perché i loro errori di progettazione non consentivano alla mia di entrare nel nuovo bagno. Tutto si aggiusta alla fine, se conservi pazienza, fiducia e un po’ di buon senso persino quando nulla pare averne.

I contagi hanno ripreso a galoppare. Stavolta anche io ho l’opzione allo smartworking e sono pronta a riammettere un periodo di clausura, se necessario. Come la prima volta non avverto paure particolari e non mi spaventa l’idea di trascorrere di nuovo intere giornate in quattro mura. Se c’è una cosa che ho capito questi anni, fatti -  come un po’ per chiunque - di solitudini, incontri belli o anche sbagliati, tantissimi viaggi, una città da vivere senza riserve...che la cosa che mi interessa davvero è convivere pacificamente con le mie fragilità senza più voler pretendere di ridimensionarle con esercizi estenuanti. Non sono un’estroversa. Alla lunga questo lo capiscono tutti. Comincio a sentire la socialità soltanto come una necessità imprescindibile piuttosto che una parentesi piacevole che amplia i miei orizzonti oltre la mia confortevole soglia individuale. Non mi dispiace che mi si imponga un nuovo isolamento: stavolta lo vivrei con ancor più metodo e divertimento. Lo sento.

Spesso racconto con ironia o (finto) rammarico del fatto di non vivere un amore. La verità è che mi piace solo l’idea perfetta dell’amore. Nei fatti nessuno può farmi felice. E viceversa. Ho l’anima da geisha e questa è una condanna perché nessun uomo è in grado di provare davvero amore per una donna così. Alla lunga si smette di apprezzarla e si finisce per darla per scontata. Mentre si guarda altrove. E io dal canto mio non so immaginarmi in altro modo.

Mi sono laureata vent’anni fa. Ho preso persino la lode e ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile. Poi però ci penso bene e mi dico che no. È del tutto ragionevole. Anzi la lode era il minimo.

Modestia e insicurezza comprese.




venerdì 2 ottobre 2020

Sazia di leggerezza

 Sono due giorni che mi chiedo come si possano restituire le sensazioni più significative di un’esperienza in fondo neppure così eccezionake o rara ma, garantisco, profondamente intensa. Forse per parlarne come intendo può avere senso una premessa personale. Io credo che esistano essenzialmente due modi di liberarsi di una dipendenza o di un’ossessione: uno è azzerarne la gestione, invece di provare a darsi delle regole restrittive (smettere di fumare, lasciarsi e non vedersi mai più, smettere di bere...), oppure provare a rivoluzionare completamente il rapporto tossico che si genera dall’interazione col motore stesso delle nostre ossessioni. Detto questo, racconto di quello che ho fatto e cosa ho imparato. Sono anni che mi interesso di pratiche del digiuno. Le ragioni sono tantissime, partono dalla passione per il rapporto perfetto corpo/alimentazione ad un’idea più spirituale legata ad una forma di purificazione che parte dal corpo per toccare le corde più profonde del proprio essere. Uso un linguaggio improprio perché in realtà non ho ben chiaro cosa ho fatto davvero. È andata così: ho seguito e letto il libro di un dottore italiano che lavora in California, Valter Longo, e che si occupa di longevità. Una delle cose che ha sviluppato è un protocollo  alimentare chiamato mima-digiuno: devi stare cinque giorni ad assumere solo quello che c’è dentro un pacchettino. Il kit si compone, appunto, di cinque pacchettini. Nulla di più. In quel pacchettino ci sono integratori e fibre che ti aiutano a stare in piedi mentre il corpo percepisce lo stato di perfetto digiuno. Così per cinque giorni. Mi ha convinto. L’ho preso e l’ho fatto. Non è stato proprio facile, ma i benefici sono così tangibili che non vedo l’ora di ripeterlo. È stato così che ho capito che posso non bere tutto il caffè che sono solita prendere e che ho sempre creduto irrinunciabile, che sono spariti come per incanto quasi tutti i dolori articolari e la concentrazione e la lucidità sono aumentate in modo impressionante (sempre ammesso che ne avessi qualche barlume prima). Oggi il mio rapporto col caffè si è normalizzato e percepisco gli alimenti con una sensibilità completamente nuova. E questo per me significa davvero moltissimo. Il rapporto col cibo, come quello col denaro, è qualcosa con cui facciamo inevitabilmente i conti per una vita intera. Stare attenti a come decliniamo noi stessi rispetto a loro vuol dire raccontare praticamente tutto di noi stessi e di quello che siamo. Sono stati cinque giorni di un po’ di sacrificio, pazienza e attesa, ma pure di grande consapevolezza e autostima.

Oggi ho preso un giorno di ferie perché stamattina dovevo fare un brainstorming con delle mamme di bambini dai sette ai nove anni e ho capito che non è una colpa non avere istinto materno, è semplicemente un modo di essere rispettabilissimo: sarei stata una madre inadeguata, diversa non per capriccio ma per condizione di fatto. E questo di solito significa bambini disadattati. Sono salva dalle chat di signore che non comprendo e da bambini che avrebbero faticato ad amarmi. Sono salva dai miei errori inevitabili. E forse pure da quelli degli altri. Mah...anche non porsi più il problema è una vera liberazione.

Ora, come ieri, vado al museo del cinema, per vedere dei film e altre cose, ma soprattutto per ritrovare persone che amo molto e che mi aiutano a riposizionarmi in questa città in un tempo indecifrabile e asfittico come questo. Sono fortunata. O forse solo riconoscente. Il che, se ci penso bene, è un po’ la stessa cosa. O forse, per la prima volta, mi sento davvero sazia