domenica 29 maggio 2016

La solitudine "condivisa" della corsa

Per ognuno è diverso. Diversi sono i motivi per cui si comincia e tali restano pure quelli per cui si decide di continuare fino a farne un obbligo interiore, un modo di essere, una attitudine di vita.
Per quello che credo di aver capito dalla mia esperienza penso che abbia a che fare col concetto di solitudine e con la paura e lo voglia di sfuggirle.
Io corro da tantissimi anni. Non ho mai gareggiato, mai misurato tempi e progressi, ma credo che sia la sola attività che non ho mai davvero abbandonato, ma solo interrotto per brevi periodi, per dare spazio ad attività che comunque potenziassero la mia resistenza e capacità polmonare, come la cyclette.
Ho cominciato al mare a quattordici anni, in Puglia, tutte le mattine in spiaggia con lo zio. Ad un certo punto i bagnanti avevano imparato e ci aspettavano per incoraggiarci. Poi, a vent'anni, ho comprato un tapis roulant: tutte le mattine ero là sopra, con un armadio di fronte, una simulazione in salita e le canzoni di Guccini a scandire il mio ritmo...una follia degna di monaci zen. 
Poi, col fidanzato di Napoli-città, andavamo a correre a via Caracciolo. Fu in quell'epoca che capii che correre non era solo sacrificio, fatica, disciplina e solitudine. Era anche condivisione di un'esperienza, un modo diverso di stabilire un legame e di comunicare. 
Poi mi sono trasferita e sono tornata a correre, di nuovo da sola, in quell'immenso e magnifico salotto marchigiano che è San Benedetto del Tronto.
E poi a Miami, la città dei runners per definizione e io non volevo perdermi l'esperienza. Mi ricordo che i primi giorni, col fuso orario ancora sballato mi sono ritrovata a correre alle tre di notte...mentre i locali pullulavano di giovani ubriachissimi che mi inseguivano con i loro aperitivi giganti....che donna assurda che posso arrivare ad essere...

E poi qui a Milano, dove con immensa gioia mi sono accodata a gruppi di runners che mi hanno fatto scoprire un modo completamente diverso di allenarmi, di monitorare i progressi e i segnali del mio corpo e della mia fatica. È grazie a loro che mi sono resa conto che si corre per tutti i motivi del mondo: dai più banali come stare in forma, monitorare i livelli di colesterolo, migliorare le proprie prestazioni, a quelle meno intuibili come la necessità gestire lo stress di una separazione, di un licenziamento, di un lavoro che ha portato all'esaurimento. Io invece ho imparato a vivere in un modo nuovo la mia solitudine. Perché che si rimane soli sempre e comunque rimane una mia convinzione totemica da cui ormai non mi schiodo più: le gambe che bruciano, il fiato che è sempre troppo poco, il cuore che vuole esplodere ad ogni falcata...ma quando la solitudine è "condivisa"la differenza è veramente enorme. C'è una moltiplicazione delle energie smisurata, una diffusione dell'incoraggiamento e della motivazione che mi fanno ripensare alle mie corse nello studiolo di casa coll'armadio di fronte  come alla cosa più malinconica che abbia scelto di fare in vita mia.
E così oggi penso che nel mio caso alla fine la questione è questa: se sai di essere lievemente bipolare con una vocazione naturale alla malinconia e ti hanno detto che per gestirla può bastare una moderata attività di resistenza, ma sufficiente a produrre gli ormoni della felicità, tu lo fai senza se e senza ma...che tanto per fortuna ci stanno un sacco di modi di "darsela a gambe" dalla tristezza. Da sola ma non da sola mi pare quello più efficace


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