Sola andata

Sola andata

martedì 17 novembre 2020

Dove ti senti? In un posto, grazie!

 Credo che non potrei mai smettere di amare Milano. Neppure adesso che, se potessi, me ne andrei volentieri da dove son venuta: un posto che ho sempre detestato da quando sono nata e che peggiora ogni volta che ci torno. Non potrei smettere di amare Milano perché quando vieni da una brutta provincia dell'entroterra napoletano, vicinissima a Napoli ma pur sempre senza il mare, la cosa che ti auguri davvero è di andare a vivere in un posto che non ha nessuna somiglianza con quello in cui vivi. Solo chi esce dalla provincia (perlomeno da una come la mia) può capire quanto sia limitante viverci per alcuni di noi (mica tutti). 

Sono tanti gli amici e colleghi che in questi anni sono tornati nella loro terra. Tutte le volte me ne sono chiesta le ragioni: vivevano in posti più belli di Milano, avevano congiunti lontani, non riuscivano a trovare una loro dimensione in questa città. Tutte motivazioni estremamente ragionevoli e per le quali credo che nessuno di loro si sia mai pentito. Chi va via da Milano di solito lo fa senza nostalgia. E io ho sempre rispettato questo atteggiamento senza però mai riuscire a farlo mio.

Di Milano non ho preso lo stile di vita tipico – o forse solo stereotipato – della frenesia, degli aperitivi, delle grandi aspirazioni di guadagni e carriera. Ci sono venuta per fare un lavoro che amo proprio per la sua totale e anonima normalità, ma che mi ha consentito di concentrarmi su quello che mi appassiona senza scopo di lucro o che ho scoperto appassionarmi col tempo. In questi undici anni conosciuto un numero sufficiente di persone, ma sono davvero poche quelle che porterò per sempre nel cuore. Qualche volta mi sono molto legata, ma poi è passata. C'è una strana fisiologia nell’intensità dei legami che si stabiliscono in una città come questa. Credo che si siano fatti addirittura degli studi per comprendere una certa “volatilità” dei legami che si stabiliscono qui.

Non lo so perché amo così tanto un posto che mi ha anche obbligato ad una montagna di solitudine, e di dolore solitario, di riadattamento…prima subìto e, via via che ne scoprivo i tratti più netti, sempre più ricercato e accarezzato, così tanto che oggi che non è una scelta ma una necessità generalizzata, mi pare la cosa più naturale (e meno faticosa) di tutto questo stravolgimento globale.

Cosa ci faccio in smart working in questa casa che a certe ore del giorno ha una luce che non mi è familiare perché prima ero sempre altrove? Sono passati di qua e poi dimenticati gli anni del sentimentalismo (“E’ lui. Ne sono sicura”. “Mio Dio, ma come ho potuto!?”) , delle corse di gruppo, delle palestre fighette di prima mattina prima di andare a lavorare, dei piccoli teatri di quartiere, del cinema quasi tutti i giorni, di Pablito che mi rompeva sempre tutto (amore), dei pomeriggi alle terme Milano e dei massaggi nei centri benessere che ti insegnavano la mandala nei locali hi tech di via Cadorna (come ho imparato presto la sublime arte dello sperpero di denaro!). Passati e dimenticati tutti questi anni, che mi sembrano solo un lunghissimo ieri, quando di questi tempi già si era coperti dalla neve o da un nebbione avvolgente che mi faceva sognare un Bogart alla fine di ogni strada percorsa a piedi.

Cosa ci faccio ancora qui? Cosa rimane se non le cose che riesco a salvare grazie al web e che potrei godermi ovunque? Penso questo perché è ovvio pensarlo in un tempo come questo? Oppure no? Forse è vero che solo un amore trattiene davvero in un luogo che non è tuo dalla nascita. E lo è altrettanto l'essere costantemente richiamati alle proprie responsabilità da una famiglia lontana.

Credo che non potrei mai smettere di amare Milano. Ma che ci faccio io ancora qui?


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