Sola andata

Sola andata

domenica 19 gennaio 2020

Lo stretto e il necessario

Ho ripreso a fare spazio. Butto, regalo, metto in valigia per la casa d’origine. Vorrei riuscire a circondarmi soltanto dell’essenziale: il servizio buono, i vestiti più belli, le scarpe più comode, i libri più amati, il rossetto più luminoso, le candele più profumate. Vorrei che questa casa avesse la stessa concezione della stanza di un albergo di lusso: solo cose di cui posso godere in pieno e totale assenza di quello che è sì bello e utile, ma non abbastanza bello e utile.
Quando decidi questo la prima cosa di cui ti rendi conto è che non è per nulla un’operazione semplice: io spesso mi confondo tra i miei “affetti tangibili” e nell’associazione tra ricordi, funzione d’uso, fascinazione dell’oggetto mi illudo che possa risultarmi indispensabile, ma di fatto non è così. Non riesco a farmi trovare pronta per un distacco liberatorio. Di quante zavorre siamo composti? Quanto è grande certe volte il bisogno di tenerci ancorati a terra con pesi che ci impediscono di fluttuare liberamente col pensiero e le azioni solo per un umanissimo bisogno di certezze e di schemi sempre uguali?

Poco più di un anno fa mi è capitato di vedere un bellissimo documentario sulla vita di Ingmar Bergman, che assieme a Moretti è in assoluto uno di quelli che mi dettano la linea da sempre. Si raccontava, tra l’altro, una cosa che mi colpì molto e cioè che in realtà tutto quel carico di dolore, di visione tendenzialmente apocalittica e malinconica dell’esistenza non erano dovuti ad una vita difficile o infelice. Io avevo sempre pensato che la figura paterna così autoritaria e terrorizzante lo avesse condizionato tanto da alimentarne la visione cupa. E invece no: pare che suo padre fosse stato così severo soltanto con il suo fratello maggiore e che tutta la sua ispirazione fosse il frutto di esperienze altrui e di intuizioni non elaborate da un vissuto personale. Mi sembrò molto strano, ma in fondo non lo è affatto: l’artista può anche semplicemente limitarsi ad osservare il mondo con la sensibilità che
gli è propria ed elaborarlo con gli strumenti che maneggia meglio. Lui non ha bisogno del peso
dell’esperienza diretta per poter toccare le corde più profonde, ed essenziali, della condizione umana.
Oggi non mi sarei di certo messa a pensare a questo fatto se non avessi deciso di fare spazio pure nella mia videoteca e se non mi fosse capitato tra le mani “Sinfonia d’autunno”, uno di quei film di Bergman che ho fatto di tutto per dimenticare per quanto mi pare un furto della mia vita. Quando ci penso mi vengono i brividi. Forse è per questo che un bel giorno di tantissimo tempo fa lo avevo messo nell’angolo estremo più buio dello scaffale, coperto da tutti i ninnoli inutili e lontano dai film che mi sono piaciuti di più come “Persona” e “Un mondo di marionette”. Ma non è servito. Mi sono ritrovata quel dvd tra le mani senza rendermene conto, proprio mentre riemergeva dalle bomboniere inutili, forse a ricordarmi che ciò che rientra tra le cose essenziali è quello di cui non potrò mai liberarmi veramente, che in qualche modo troverà la maniera di capitarmi tra le mani. E nel mio “albergo interiore”. È inutile illudermi di fare spazio liberandomi dell’essenziale.
Quel film rimane uno dei miei pugni al cuore, la montagna troppo alta da scalare, la sceneggiatura che sono riuscita a cambiare soltanto in parte, il finale che vorrei cambiare ma non si può.
Poi ho rimesso a posto la mia “Sinfonia d’autunno”. Stavolta accanto ai film che mi piacciono di più. E poi ho pensato che potrei rivederlo di nuovo. Dopo tanti anni. E magari scoprire che si nasconde lì tutto lo spazio che ancora mi serve




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