C’è un momento preciso in cui lo capisci davvero. Non che non te ne fossi accorto prima, ma era più comodo far finta di nulla. O meno doloroso e disarmante. Con i legami questa cosa succede continuamente: si abbozza con le amicizie, sul lavoro, nelle frequentazioni che nascono da interessi comuni. Più complicata è la questione sentimentale o con i familiari stretti. Ma alla fine è sempre quella roba lì: una sensazione strisciante di forzatura, frustrazione, fallimento, autosabotaggio e mortificazione. Per me è sempre stato così. I “non detto” hanno il potere intangibile di modellare a nostra insaputa tutta una vita, forse perché non sai davvero contro cosa combattere, è una forza oscura e non catalogabile che corrode come certi acidi di cui percepisci la pericolosità solo quando vedi il fumo e la schiuma. Ma adesso che ne ho imparato le ragioni di fondo, quelle che stanno tutte lì - nei primi anni della mia vita, quelli che non ti schiodi di dosso neppure con millenni di terapia - li vivo come un piccolo tesoretto da cui ricavo la mia rendita esistenziale per la maturità. Non è questo un confessionale e mi faccio bastare il fatto che ad oggi non invidio nessuna famiglia. Per me sono tutte sbagliate a modo loro. Quelle “riuscite” esistono solo nella misura in cui sono più brave a raccontarsela con errori e omissioni (eh, sempre loro - le cose non dette…). Ma in realtà stanno male pure quelle. Perché tutto ciò che nasce, cresce e si sviluppa in un contesto sbagliato, innaturale, marcio, ingiusto come questo tempo e questo mondo…non ha speranza di felicità. Però è bello vedere che con ostinazione ci si prova, si pianificano affetti e il futuro come se bastassero i legami a rendere il passaggio in terra una garanzia di esistenza piena. Io stessa l’ho sperato per anni. Ma ho scoperto che la mia vita è più bella da quando me la racconto in un altro modo e senza illudermi o ostinarmi.
Ho ancora la testa al mio viaggio in solitaria a New York. Sto idealmente pianificando un terzo ritorno assieme a tutte le esperienze che vorrei ancora fare e gli altri luoghi d’America che vorrei raggiungere partendo da là. Più di tutto mi è rimasta nel cuore un lugnhissima passeggiata in quella meraviglia assoluta che è Central park nella cui calma assoluta (e paradossale, se pensavo che ero nel pieno centro di una delle città più caotiche e rumorose che esistano) mi ricordo che ho pensato ad una ad una alle occhiatacce di mia madre per impedirmi di parlare da piccola, ai giocattoli negati, alle assenze, alle disattenzioni di entrambi i genitori, ai problemi che erano sempre altro da quello di cui io avevo bisogno. E poi mi ricordo di quanto io stessa non fossi una bambina amabile, di quanto spesso piangessi a scuola e mi incapricciassi per ogni cosa. Eppure ricordare e camminare in quel posto magico mi faceva star bene lo stesso. Non ho più nessun rancore e nessun senso di colpa. Continua a dispiacermi ma in quell’atmosfera sospesa e rarefatta, dove ogni cosa mi pare che possa ripartire dal via, ricordo di una sensazione di pace inattaccabile. E così, quando sono tornata e ho capito che tutto sarebbe cambiato ho cominciato a prendere un paio di decisioni importanti senza dirle a nessuno, senza chiedere pareri, conforto, riscontro come ho sempre fatto. E per la prima volta ho avuto la sensazione di rispettarmi davvero e che persino questo sia grave perché credo di aver aspettato decisamente troppo. Ho cominciato con le cose da buttare, poi con le persone su fb che non sento più come riconoscibili, poi con quelle reali, fini ai vincoli più stretti. Vivere in sottrazione non è l’unica soluzione possibile per alleggerirsi. Credo che la migliore resti sempre e ancora la condivisione: una distribuzione allegra, tra compagni di viaggio che si sono scelti e riconosciuti, di tutto il dolore e il passato sbagliato che ci comprime ed opprime. Questa sì che sarebbe una formula perfetta di felicità possibile. Ma io non ci sono riuscita. E i conti li posso fare soltanto con quello che ho. E che finalmente non voglio più

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