Sola andata

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lunedì 24 ottobre 2016

La mia teoria sulle dipendenze: dipende

Ci sta una regola fondamentale che viene insegnata alla scuola di running che frequento il sabato mattina ed è questa: non ha nessun senso decidere di cominciare a correre se prima non si ha in mente un obiettivo preciso. Uno solo, ma deve essere molto chiaro e perseguito con metodo e continuità. Sì, può sembrare strano eppure uno sport apparentemente così semplice e ancestrale in realtà può essere declinato in una infinita di modi, partire dalle motivazioni più disparate e perseguire i più improbabili scopi. Si comincia a correre per dimagrire, per elaborare un dolore, per mettersi alla prova, per guarire dalla depressione, per imporsi delle sfide progressive, perché è liberatorio, perché aiuta la concertazione, perché mentre corri ti conosci e ti ascolti come non ti succederebbe mai, perché consente di affrontare la giornata, la vita, gli altri con tutto un altro ritmo. E perché quella storia che la corsa crea dipendenza alla fine è proprio vera.

Non sono mai stata pregiudizialmente contro tutte le forme di dipendenza. Ce ne stanno alcune che vorrei che fossero tali fino al punto di diventare delle ragioni di vita e per le quali può non anche non essere sano avere il senso della misura. Penso a chi divora continuamente libri, agli impallinati di cinema, ai melomani. Ci sono magnifiche ossessioni che non giustificano alcuna regola, da cui dipendere totalmente senza timore di sentirsi schiavi ma anzi in cui sentirsi liberi soltanto così, coltivando con cura pervicace e inarrestabile quel tarlo che si insinua dentro di noi in momenti insospettabili o con cui conviviamo da sempre come una folgorazione dalla nascita.
Mi piacciono le dipendenze frutto di una scelta consapevole o di un approccio naturale e inevitabile. Si tratta di una faccenda che non ha nulla a che fare con l'alterazione artificiosa della volontà. Quella è un'altra cosa, spesso gestita da altre categorie o entità a cui conviene renderci fumatori, alcolisti, giocatori d'azzardo, mangiatori compulsivi, drogati.

Una volta una persona mi ha chiesto quanto contasse per me la bellezza. E io risposi che, siccome per me la bellezza è qualsiasi cosa che non contraddica l'intelligenza, conta moltissimo. Arriverei addirittura a pensare che bellezza e intelligenza siano esattamente la stessa cosa. Nessuna delle due si consegue per meriti, si ricevono e basta. Quello che le rende sublimi è il modo di servirsene e renderle funzionali a se stessi e al mondo. La bellezza di una passione autentica si esprime con l'individuazione lucida di uno scopo. E l'intelligenza del percorso sta nella fascino del risultato finale. È la lucida follia delle ossessioni a salvarle dalla banalità.

E così ho pensato che ognuno di noi dovrebbe scegliersi con cura una qualche personalissima forma di schiavitù nella cui dipendenza possa riuscire a trovare la propria cifra e la sua personalissima forma di libertà.

Per il momento io mi sono scelta la corsa. Ma la questione è ancora controversa, perché se è vero che l'obiettivo mi è chiaro e la motivazione è forte, sento di fare ancora troppa fatica per decidere di non mollare mai e raggiungere i miei obiettivi dalle lunghe distanze. Ma poi insisto, ci riprovo, resisto sempre e dopo mi sento come mi è impossibile sentirmi senza tutto quell'infame affanno.
 E così ho capito che in realtà io non dipendo propriamente dalla corsa. Quella la eviterei volentieri se potessi. Io dipendo solo da quello scatto finale terribile ma fatto di pochissimi istanti prima dei quali so che sarà tutto finalmente finito.
 E poi penso che questa sia davvero una gran fregatura...





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