Sola andata

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mercoledì 16 maggio 2018

La pazienza ha davvero un limite?

Si sono fidati. Un giovane collega ed io siamo andati per due volte a Magenta per fare lezione a dei bambini di quarta elementare, nonostante il collega veterano che se ne occupa da sempre fosse assente. Abbiamo deciso di proporre la storia da raccontare e le cose da dire con una modalità diversa da quella solita facendo in modo che risultasse più interattiva e meno una lezione frontale tipo predicozzo. L’esito è stato sorprendente: è davvero impressionante notare come, a parità di contenuti, l’attenzione e l’interesse possano variare a seconda della formula adottata per far passare il messaggio. Eccellente esperienza per una che i bambini li frequenta davvero pochissimo. Ma forse la ragione del mio compiacimento è un’altra e io la attribuisco alla mia pazienza. Si direi che è proprio la pazienza. La stessa di cui mi sono dotata negli ultimi anni da quando ho smesso di discutere/litigare/confrontarmi con colleghi/conoscenti/umanità irrilevante per la mia sfera emotiva. Ho imparato che, da non credente, non ha senso perdere neppure una sola frazione di secondo con chi ha fede e vive la sua pur rispettabilissima condizione per estendere i suoi principi alla vita di chiunque. Ho anche imparato che le questioni di lavoro e le differenti vedute sulle modalità di risoluzione dei problemi non devono mai trasformarsi in territorio di scontro: tu la vedi così? Ok facciamo come vuoi tu. Che pace! Si facciamo come dici tu, io farei in tutt’altro modo...ma non importa, figurati, quello anziano sei tu.

Io non litigo mai. Non è nelle mie corde, non mi piace, non trovo che i toni accesi o un confronto alterato da un eccesso di emotività possano risultare costruttivi per una comprensione reciproca. Di solito ci si scontra perché i codici comunicativi sono differenti e quindi non ci si potrà mai davvero comprendere del tutto. E poi odio le tensioni e il disagio che si creano dopo rompendo per sempre la fluidità delle dinamiche relazionali. Io credo che le discussioni abbiano un qualche senso soltanto tra persone che hanno un fortissimo legame e per questioni assolutissimamente cruciali. Per tutto il resto preferisco dileguarmi o essere io quella che cede. È comodo e molto poco time consuming. Credo sia il retaggio di un modello educativo repressivo ma che poi mi è tornato utile: per anni ho pensato che i miei fossero poverissimi perché non assecondavano mai nessun mio capriccio. Oggi credo che, in virtù di questo vissuto, potrei fare a meno di qualsiasi cosa, ma per fortuna (o cos’altro?) non è necessario.
Ci vuole pazienza, la stessa di cui mi sono armata tutte le volte che le lezioni ai bambini dovevano essere necessariamente frontali, un po’ noiose, lunghe e con un linguaggio vecchio e io ero lì e non potevo dire e fare molto per cambiarne l’architettura. Il collega veterano vuole così. E noi facciamo così. Però ad un certo punto succede che per qualche ragione il collega veterano non possa esserci ma tu si, assieme ad un giovane collega con un linguaggio ancor più fresco del tuo. E succede anche che, senza aver litigato con nessuno, senza offendere o proporre inascoltate soluzioni alternative, puoi finalmente fare un po’ di testa tua, come presentarti a dei fanciulli e provare a farti ascoltare per davvero e non per obbligo e con sacrificio. Senza nulla pretendere, senza litigare o implorare nulla. Sorte proprizia, un’idea che covava da tempo, l’occasione di metterla in pratica. Tutto molto semplice, divertente e meravigliosamente normale.

E cosi, stasera, mentre ripensavo all’entusiasmo attivo di bambini curiosi e attenti e ricordavo certe reazioni nelle quali confidavo, ho pensato che forse è vero che per fare quello che si sente ci siano solo due strade: lottare con tutte le forze scontrandosi fino all’ultimo per le proprie idee, con carattere rabbia e puntiglio contro chi ci ostacola. Oppure avere tanta, tantissima pazienza, pagando il prezzo salatissimo di silenzio e attesa indefiniti.
Mi sembrano entrambe strade legittimamanete percorribili. Ma poi, alla fine, cos’altro è la pazienza se non proprio una forma di lotta nobile, civile e resistente? Per me vince già così.





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